L'ultimo dei Gucci
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L'ultimo dei Gucci

Una storia di soldi, avidità e lusso sfrenato

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ultimo dei Gucci

Una storia di soldi, avidità e lusso sfrenato

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Informazioni sul libro

Una famiglia al vetriolo, emblema della moda made in Italy nel mondo, che ha bruciato sé stessa e un'immensa fortuna, insieme al suo ultimo erede, Maurizio: questi sono i Gucci.
I protagonisti sono più che noti, e sebbene la giustizia abbia avuto le sue risposte individuando in Patrizia Reggiani, l'ambiziosa e avida ex moglie dell'imprenditore, la mandante dell'omicidio, i moventi superano i confini nazionali, entrano nella storia della casa di moda, e coinvolgono tutto l'entourage della celebre maison. Stilisti, imprenditori, finanzieri sfilano tutti sulla passerella di questo avvincente libro inchiesta, che porta sotto i riflettori il lusso estremo e inaccessibile dei protagonisti della "Milano da bere". Frutto di numerosi anni di lavoro da parte dei due giornalisti Maurizio Tortorella e Angelo Pergolini, questo libro è la ricostruzione più completa e particolareggiata di uno dei misteri di cronaca nera più intricati degli ultimi decenni, l'omicidio che pose la parola fine alla dinastia Gucci. Un testo che è stato fondamentale per tutti gli autori che hanno voluto raccontare questa vicenda, il lato oscuro delle vite patinate dei Gucci, con un aggiornamento imperdibile sui retroscena di uno degli omicidi più chiacchierati degli ultimi anni.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831806015
1

L’amore

Una festa a Milano

Maurizio Gucci, per non farsi sentire, si era abbassato all’orecchio dell’amico: «Chi è quella ragazza vestita di rosso che somiglia tanto a Liz Taylor?». La serata era noiosa. Nel bell’appartamento al numero 3 di via dei Giardini, la strada dei miliardari milanesi, si festeggiava la maggiore età della padrona di casa. Erano stati invitati i migliori partiti, tutti giovani di ottima famiglia. Ma l’ambiente non era dei più divertenti.
Era la sera del 23 novembre 1970: Maurizio non ballava, non beveva, non chiacchierava. E non distoglieva lo sguardo da quella giovane invitata, vestita elegantemente e carica di gioielli. Era molto femminile, bruna e piccola di statura, con due occhi profondi color violetto e un seno prosperoso.
A Maurizio piacque subito, era allegra, estroversa, eccitante. Alla sua domanda l’amico rispose che si chiamava Patrizia e che era la figlia di un industriale milanese, Fernando Reggiani, il re dei trasporti: «Ha ventun anni, è libera». Maurizio trovò il coraggio e si avvicinò. Lei gli arrivava alla spalla. «Come mai non ti ho visto prima, ad altre feste?» «Si vede che prima non ti interessavo e non mi hai mai notata» rise Patrizia, ammiccante.
Da quando era arrivata non aspettava che quel momento. Aveva fatto di tutto per farsi notare. Maurizio Gucci era timido e impacciato nel suo smoking, ma corrispondeva esattamente, anche in meglio, alla descrizione che si era fatta dare dalle sue amiche: un tipo biondo, magro e molto alto, con gli occhi azzurri.
Patrizia però aveva mentito. Maurizio non poteva averla mai vista alle feste della Milano “bene”, malgrado i soldi del padre, lei non veniva invitata: non era considerata all’altezza di un ambiente così snob. A quel party era stata ammessa soltanto perché abitava al piano di sopra. «Ti hanno mai detto che assomigli a Liz Taylor?» le aveva sussurrato Maurizio, ormai conquistato. Patrizia, con il viso reso ancora più affascinante da un trucco alla Cleopatra: gli occhi bistrati, le labbra marcate di rosso corallo e bordate con la matita scura. Aveva sorriso civettuola e disponibile: «Ti posso garantire che io sono molto meglio».
Maurizio non era quello che si dice un rubacuori. Anzi, per tenere agganciata quella ragazza, non sapeva come trovare argomenti di conversazione: «Che cosa fa tuo padre nella vita?». Patrizia sorrise: «Il camionista». Maurizio Gucci sbiancò: «Ma... a me avevano detto che... Non è un imprenditore?». Lei si mise a ridere, d’un riso irrefrenabile: «Ma allora sei proprio uno sciocco!».
Fu quella sera che tra loro nacque l’amore. Anche Maurizio, come Patrizia, aveva ventun anni. Studiava con profitto giurisprudenza all’università Cattolica. I compagni di corso lo reputavano un secchione. Era sportivo, amava sciare e giocare a tennis. Ma era spaventosamente timido e insicuro. Se era cresciuto con quel carattere, però, non era stata solamente colpa sua.
Maurizio era figlio unico. Sua madre Alexandra era morta quando lui aveva appena sei anni, e il padre Rodolfo non si era mai risposato. «Giurami che nostro figlio non chiamerà mamma un’altra donna» aveva supplicato Alexandra pochi giorni prima di spegnersi. Rodolfo Gucci rispettò quell’ultima volontà.
Maurizio crebbe nel lusso, ma in una famiglia dimezzata, l’affetto ossessivo del padre si trasformò in un muro invisibile che lo separava dal mondo intero. Fin da quando portava i pantaloni corti Maurizio ebbe a fianco cuochi, governanti, tate, autisti e maggiordomi, ma non una mamma e nemmeno un compagno di giochi.
Rodolfo Gucci era il figlio minore di Guccio, fondatore della dinastia e dell’azienda fiorentina che aveva conquistato con i suoi inconfondibili prodotti il mercato mondiale del lusso. Da tanti anni i foulard a fiori con il marchio della doppia G avvolgevano il collo delle donne più eleganti dell’alta società, mentre i mocassini della casa erano ai piedi dei potenti della terra.
Il padre di Maurizio era nato a Firenze nel 1912, dieci anni dopo il matrimonio dei genitori. Nel 1922, quando Guccio aveva aperto il suo primo negozio di pelletteria in via del Parione, a due passi da palazzo Rucellai, aveva subito messo i cinque figli maggiori, Ugo, Grimalda, Enzo, Aldo e Vasco, dietro al banco delle vendite. Il piccolo Rodolfo, che tutti in famiglia chiamavano “Foffo”, era l’unico a essere stato dispensato dal lavoro.
Anche più tardi, quando era ormai cresciuto e il suo soprannome domestico era diventato “il bell’Adone”, Rodolfo recalcitrava di fronte alla prospettiva di entrare come commesso nel negozio del padre. «Non sono nato per fare il bottegaio,» protestava «io voglio fare il cinema.» A sentire quei discorsi Guccio scuoteva la testa, non riusciva a capire dove il figlio avesse preso quelle idee che gli sembravano così balzane.
A forza di parlare di cinema, però, Rodolfo riuscì a realizzare il suo sogno. Nel 1928, di nascosto dal padre, riuscì a recitare una particina in Ragazze non scherzate, una pellicola senza pretese girata negli stabilimenti cinematografici di Rifredi, alla periferia di Firenze. Aveva appena sedici anni, ma un portamento elegante che lo faceva sembrare più adulto, un volto affilato e un sorriso accattivante. Insomma, era proprio quello che si dice un bel ragazzo. La sua presenza sul set fu notata e Rodolfo venne presentato al grande regista Mario Camerini.
Fu un incontro fugace, poco più di una presentazione. Ma, dopo quella stretta di mano, a Rodolfo sembrò di toccare il cielo: «Sei bravo, ti terrò presente». Quelle di Camerini non erano parole di circostanza. Pochi mesi dopo, a casa Gucci, arrivò un telegramma. Era la convocazione per un provino a Roma. Rodolfo esultò, ma la gioia lasciò subito il passo all’inquietudine. Questa volta non avrebbe potuto fare le cose all’insaputa della famiglia. Era solo un ragazzino, per il viaggio nella capitale sarebbe stato indispensabile l’assenso paterno.
Quando Guccio finì di leggere il telegramma, che Rodolfo gli aveva mostrato come fosse il passaporto per la gloria, bofonchiò poche parole: «Sei pazzo, il cinema è un mondo di squinternati, dove uno magari ha fortuna e vive i suoi cinque minuti di celebrità, ma poi di colpo viene dimenticato e non lavora più».
Alla fine capitolò davanti all’ostinazione del figlio. Rodolfo sapeva che era la sua grande occasione. Non si trattava più di una particina in una pellicola di second’ordine, Camerini aveva in progetto la realizzazione di un grande film e voleva affidare proprio a lui il ruolo di protagonista.
Guccio sospirò, ormai rassegnato, e capì che per la bottega di via del Parione avrebbe dovuto cercarsi un altro commesso. «Comunque, visto che vai a Roma qualcosa di utile puoi farlo» disse al figlio. E gli affidò un grande pacco pieno di merce, da consegnare a una cliente che a Roma alloggiava all’hotel Plaza in via del Corso.
A quell’epoca Rodolfo aveva diciassette anni e portava ancora i pantaloni corti. Non potendosi presentare così sul set, si fece prestare quelli lunghi dal fratello maggiore, Aldo.
Il provino con Camerini andò bene, Rodolfo ebbe una parte in Rotaie e scelse come nome d’arte quello di Maurizio d’Ancora. Il film era imperniato sulle disavventure di due giovani poveri alle prese con un portafoglio trovato per caso. Fu un successo clamoroso. Rodolfo si illuse di avere raggiunto la fama, ormai sognava il mondo luccicante di Hollywood. Ma presto si accorse che la realtà era diversa, molto più dura.
Dopo Rotaie, Rodolfo recitò soprattutto in pellicole mediocri, anche se qualche sprazzo di notorietà riuscì a ottenerlo. Nel 1932, per esempio, comparve al fianco di Emma Gramatica, in La vecchia signora. Dieci anni dopo, durante la Seconda guerra mondiale, recitò in Finalmente soli, accanto a una giovanissima Anna Magnani, interpretando il personaggio di un donnaiolo squattrinato con insolita partecipazione.
A cambiare radicalmente la sua vita fu però la partecipazione a un film di assai più modeste ambizioni. Il titolo era Al buio insieme. Anche in quell’occasione Maurizio non trovò la gloria, ma incontrò l’amore: sul set si infatuò di Alexandra Winkelhausen, in arte Sandra Ravel, una bionda metà italiana e metà tedesca che aveva una parte di secondo piano.
Rodolfo e Alexandra si sposarono nel 1944. L’anno successivo Maurizio d’Ancora recitò nella sua ultima pellicola, La vita semplice. Quando, il 26 settembre 1948, nacque un bambino, Rodolfo Gucci capi che con i film non sarebbe riuscito a mantenerlo. In fondo il vecchio Guccio aveva ragione, Rodolfo aveva vissuto “cinque minuti di celebrità”, ma non aveva mai sfondato davvero. Quasi per celebrare l’addio alla carriera cinematografica impose al figlio il nome di Maurizio, quindi tornò a Firenze e chiese al padre di riprenderlo in azienda.
Guccio fu felice di riabbracciare quel figliolo scapestrato che finalmente aveva messo la testa a posto. Rodolfo prese posto accanto ai fratelli dietro al banco di via del Parione che vent’anni prima gli sembrava così ingrato. Le signore che entravano in negozio notavano spesso il nuovo commesso, un bell’uomo dal fare galante che le serviva con modi gentili. Aveva un volto che a molte pareva di aver già visto. «Ma lei non è per caso Maurizio d’Ancora?» chiedevano le più sfacciate. Rodolfo, con il suo migliore sorriso, rispondeva: «No, signora, mi dispiace. Io mi chiamo Gucci, Rodolfo Gucci».
Dopo un anno, durante il quale non aveva mai perduto d’occhio il figlio, Guccio concluse che Rodolfo era diventato davvero un’altra persona: era molto scrupoloso sul lavoro e attento ai problemi della ditta. Ormai poteva contare anche su di lui. Decise di affidargli la direzione del nuovo negozio che di lì a poco sarebbe stato aperto a Milano.
Era stato Aldo, il terzogenito di Guccio che aveva sempre lavorato in azienda, a insistere col padre perché la ditta si espandesse. Nel 1938 era stato inaugurato un punto di vendita a Roma e, forte del successo di quell’iniziativa, alla fine della guerra Aldo era tornato alla carica. L’ormai anziano Guccio, che nel corso degli anni e lira su lira aveva messo da parte una discreta fortuna, si era lasciato convincere da quel figlio intraprendente e aveva comprato un fondo in via Montenapoleone, la strada più elegante di Milano.
Rodolfo trascorse alcuni anni sereni insieme alla famiglia che lo aveva seguito nelle nebbie della metropoli lombarda. Qualche volta aveva nostalgia della sua carriera d’attore, ma in realtà si godeva la vita con Alexandra e con il piccolo Maurizio. L’incanto finì improvvisamente, nell’agosto del 1954, quando la moglie morì di polmonite. Da quel momento in poi la sua unica ragione di vita divenne quel figlio, che allora non aveva ancora sei anni, e che portava il nome del suo sogno perduto.
Rodolfo affidò Maurizio alle cure di una tata, una ragazza robusta, allegra e con le guance rubizze che si chiamava Tullia. Da subito impose al bambino un’educazione molto severa. Fin da piccolo a Maurizio vennero instillati il senso dell’appartenenza alla famiglia e l’importanza del cognome che portava. «Cittino,» gli ripeteva il padre, chiamandolo con quel vezzeggiativo tutto toscano «devi ricordarti sempre che noi Gucci non siamo gente comune».
Maurizio crebbe introverso, taciturno, obbediente, con in testa l’eco di una frase che il padre gli aveva ripetuto tante volte: «Se non mi sono mai risposato è stato soltanto perché ho voluto starti vicino». Dentro di lui prese forma un sottile senso di colpa per il sacrificio del genitore. Era un rimorso ingiustificato, che tuttavia accresceva a dismisura anche il suo senso di responsabilità e di dipendenza nei confronti del padre.
Fra Rodolfo e Maurizio si consolidò un rapporto affettivo strettissimo ed esclusivo. Il padre era terrorizzato dai rapimenti, così frequenti nell’Italia dell’epoca, e faceva seguire il bambino con attenzione quasi morbosa. Anche quando erano in Svizzera, nella tranquillissima tenuta di famiglia a Sankt Moritz, se Maurizio voleva fare un giro in bicicletta, come tanto gli piaceva, veniva sempre controllato a distanza dall’autista del padre, che lo tallonava in automobile. In casa Rodolfo impose orari rigidi, che vennero sempre scrupolosamente rispettati anche quando Maurizio era ormai adolescente: doveva rientrare all’una per colazione, e di sera la ritirata suonava alle nove.
A scuola il ragazzo andava bene, ma Rodolfo pretendeva sempre di più. Una volta, quando aveva quattordici anni e frequentava il primo anno del liceo, Maurizio prese un voto mediocre e il padre s’infuriò. Spaventato da quella reazione e incapace di affrontarlo di persona, scrisse al padre una letterina compunta per chiedergli scusa dell’accaduto: «Da oggi in poi studierò il doppio, non dovrai mai più vergognarti di me».
Rodolfo cercò di educare il figlio anche al senso del denaro. Per Maurizio c’erano pochi regali e pochissimi soldi in tasca. I suoi compagni di liceo a diciotto anni ricevevano in dono dai genitori vetture sportive, lui si trovò alla guida di un’utilitaria pagata per metà con i suoi risparmi. D’estate gli amici trascorrevano lunghi weekend sulla spiaggia di Santa Margherita Ligure, d’inverno sciavano sulle piste di Courmayeur, in Valle d’Aosta. Lui trascorreva tutti i sabati nel negozio di via Montenapoleone, preparando pacchetti come un semplice commesso. All’università i compagni di corso passavano l’agosto in giro per il mondo. Lui nel negozio di New York, a lavorare con lo zio Aldo. Il contrasto fra il privilegio della ricchezza e del prestigio sociale, che Maurizio avvertiva quotidianamente in casa sua, e la vita che conduceva, era stridente e lo turbava.
L’educazione ricevuta dal giovane Gucci fu rigida in tutti i campi, compreso quello sessuale. Quando Maurizio andò la prima volta in America per uno di quegli stage estivi, suo padre lo convocò per metterlo in guardia. «Mi raccomando, a New York stai bene attento. Se vai a letto con una ragazza, devi essere sicuro di non metterla incinta. Perché laggiù ci sono donne che praticano il ricatto come professione.»
Quella delle donne per Rodolfo era una specie di ossessione dai risvolti quasi sessuofobici. Fin dall’adolescenza aveva terrorizzato il figlio facendogli intravedere i rischi di una relazione sbagliata perché, gli spiegava, il suo patrimonio avrebbe potuto fare gola a molte donne. Meglio non perdere tempo con le ragazze e pensare soltanto allo studio e alla ditta di famiglia. «Sei un Gucci,» lo ammoniva ossessivamente «non dimenticarlo mai.»
Rodolfo ottenne la piena obbedienza dal figlio anche nel campo degli amori. Nessuna cacciatrice di eredità riuscì mai ad avvicinarlo. Né lui, del resto, si dette molto da fare.
Quella sera d’autunno, in via dei Giardini, Maurizio avvertiva però un grande cambiamento dentro di sé. La ragazza bruna, truccata da Cleopatra lo attraeva come non gli era mai capitato. In realtà non gli stava accadendo nulla di speciale, si stava semplicemente innamorando. Ma per lui era la piuma volta. Come avrebbe reagito suo padre a quella novità? La preoccupazione non lo sfiorò nemmeno. Era la prima volta che Maurizio Gucci faceva un passo senza chiedergli il permesso.

«Quella vuole i nostri soldi»

Fu un sussulto di avarizia a fargli capire che stava accadendo qualcosa di insolito: «Maurizio, per caso sei tu che fai tutte queste telefonate? Guarda che bolletta è arrivata». Agitando il conto della Sip, Rodolfo Gucci scrutò il figlio che arrossiva vistosamente. «Allora sei stato proprio tu!» esclamò stupito.
Maurizio sbottò: «Papà, mi sono fatto una ragazza. L’amo. E la voglio sposare». Rodolfo scoppiò in una risata: «Bischero che sei, alla tua età si corre la cavallina. O che ti sei messo in testa?». Ma poi si accorse che il figlio faceva sul serio. «E chi sarebbe, la fortunata?» chiese, con un tono che tradiva apprensione.
Il ragazzo rispose seccamente: «Si chiama Patrizia». «E di cognome?» incalzò il padre. «Reggiani.» A Rodolfo quel nome non diceva nulla. Allora decise di chiudere sul nascere la discussione che, per i suoi gusti, era durata fin troppo: «Basta, non se ne parla nemmeno». Ma qual...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ULTIMO DEI GUCCI
  4. Prologo
  5. 1. L’amore
  6. 2. La doppia G
  7. 3. Una famiglia in guerra
  8. 4. Tre anni di fuoco
  9. 5. Una nuova vita
  10. 6. Il delitto
  11. 7. Le indagini
  12. 8. La svolta
  13. 9. Epilogo
  14. Copyright