Il tribunale della storia
eBook - ePub

Il tribunale della storia

Processo alle falsificazioni

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il tribunale della storia

Processo alle falsificazioni

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Viviamo tempi di cancellature, riscritture e revisioni, di riconsiderazione degli eventi e dei fenomeni della storia che hanno portato, in anni recenti, a prese di posizione e dichiarazioni epocali: capi di governo che si scusano in nome del proprio Paese per torti od omissioni, per il ruolo svolto dai loro Stati in vicende più o meno lontane. È quindi un elemento di scottante attualità che accende la scintilla di questo libro: accostare nell'aula del «tribunale della storia» le tesi dell'accusa, le arringhe della difesa, i controinterrogatori degli imputati per acquisire nuovi elementi di conoscenza e di giudizio. Tenendo sempre presente che, come scrive Paolo Mieli, «le pubbliche scuse non equivalgono a sentenze definitive. Sono prese d'atto di una modificata percezione delle vicende del passato. Altre ne verranno». Così, da Fidel Castro a Mussolini, passando per Vittorio Emanuele III, Filippo V e perfino Gesù di Nazareth, Mieli riesce, con la brillantezza del grande divulgatore e l'acume dell'attento osservatore dei nostri giorni, a spiegare in cosa consista l'applicazione di un metodo «giudiziario» per una rivisitazione dei fatti e delle figure della storia. «A patto che, beninteso, tale metodo sia utilizzato in modo comprovatamente onesto. In caso contrario, tutto sarà stato inutile.»
Il vero processo, dunque, necessario e prezioso, è quello contro ogni tipo di falsificazione. Ed è «il risultato del lavoro del tribunale della storia, tribunale che nell'era dell'informazione diffusa è sempre riunito. In seduta permanente».

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il tribunale della storia di Paolo Mieli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e Italian History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831805834
Argomento
History

LE ARRINGHE DELL’ACCUSA

Gli ambigui pontieri del duce

L’accusa nei loro confronti è quella di essere stati personaggi ambigui, sostanzialmente complici di Mussolini nel tentativo di creare scompiglio nel campo degli avversari. E di aver assunto questo ruolo negli ultimi giorni disperati della Repubblica di Salò.
Qualcosa di simile era accaduto oltralpe. In Francia, dopo l’occupazione tedesca del 1940, importanti personalità del campo antifascista decisero di collaborare con i nazisti: il socialista Marcel Déat, il radicale Gaston Bergery, gli ex comunisti Jacques Doriot e Paul Marion. Da noi venne l’ora di Nicola Bombacci, tra i fondatori nel 1921 del Partito comunista d’Italia, in rapporti personali con Lenin, che, avvicinatosi già negli anni Trenta a Benito Mussolini, lo seguirà a Salò. Per finire, assieme a lui, fucilato a Dongo e appeso al distributore di benzina di piazzale Loreto. Ma un interessante libro di Mimmo Franzinelli, Storia della Repubblica sociale italiana, 1943-1945, nel quadro di un’eccellente disamina di quell’esperienza storica, punta i riflettori su altri due personaggi, già all’attenzione di Renzo De Felice, che, in quel contesto drammatico, si proposero di costruire un «ponte» tra Mussolini e gli antifascisti.
Il primo è Carlo Silvestri (1893-1955): già giornalista al «Corriere della Sera», social-riformista, che nel 1924 era stato il principale accusatore di Mussolini stesso per l’intricata vicenda legata al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. Strana storia la sua, molto ben descritta da Gloria Gabrielli in Carlo Silvestri. Socialista, antifascista, mussoliniano. Silvestri aveva conosciuto Mussolini quando erano entrambi socialisti e aveva appoggiato nel 1914 il suo passaggio dal pacifismo all’interventismo. Nel 1920, poi, Silvestri aveva provato a giustificare il nascente squadrismo in quanto «legittima reazione alle violenze rosse». Ma, dopo aver indagato, sul «Corriere» ne aveva denunciato «gli eccessi». E, come risposta, aveva ricevuto dagli squadristi un pestaggio che lo aveva fatto finire in ospedale. Dopo aver puntato il dito contro Mussolini per il delitto Matteotti, Silvestri era stato segretario generale delle Opposizioni nella secessione parlamentare dell’Aventino. Nel ’25 fu processato e (in ottobre) nuovamente picchiato dalle camicie nere alla stazione di Milano, riportando una commozione cerebrale. Sarà poi radiato dall’Albo dei giornalisti e spedito al confino a Ustica, Ponza e Lipari. Tornato a Milano nel 1932 è una persona diversa. Scrive a Mussolini lunghe lettere sull’interpretazione di ciò che è accaduto nei primi anni Venti, ma il duce non gli risponde. Ai tempi della Guerra d’Etiopia scrive ancora lettere, stavolta ai governi inglese e francese per spiegare le buone ragioni dell’Italia. Anche qui nessuno lo prende in considerazione. Chiede a questo punto la tessera del Partito nazionale fascista. Gli viene rifiutata. Quando l’Italia nel 1940 entra in guerra, viene internato a Chieti. Il medico personale di Mussolini, l’ex socialista Luigi Veratti, riesce a farlo liberare e lui scrive al duce un messaggio di ringraziamento untuoso a tal punto da far annotare al capo della segreteria politica di Mussolini: «È un buffoncello». A quel punto Silvestri comincia a inondare di missive lo stato maggiore del Pnf e del governo. L’ambasciatore Raffaele Guariglia chiede al capo della polizia un’opinione sull’affidabilità di quel grafomane. «Brava persona,» gli risponde Carmine Senise «ma da colloqui che, dietro sua richiesta, ho avuto qualche volta con lui, ho tratto il convincimento che non sia completamente sano di mente.» Mussolini continua a ignorarlo. Almeno in apparenza.
E arriviamo al 1943: la seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio che porta alla caduta del fascismo; l’armistizio dell’8 settembre; la divisione dell’Italia in due con la nascita a Nord della Repubblica di Salò. In novembre, a Milano, Silvestri viene arrestato a seguito di un attentato all’ufficio turistico tedesco. Stavolta è Mussolini in persona a intercedere per farlo rimettere in libertà. Lui lo ringrazia con lettere fin troppo affettuose in cui addirittura lo chiama «papà» (nonostante abbia appena una decina di anni meno di lui). Finalmente Mussolini lo riceve e nei primi colloqui tornano a parlare dell’uccisione di Matteotti. Il duce lo convince che, all’epoca, era in procinto di «aprire ai socialisti» e che la «destra», per ostacolare questo disegno, gli avrebbe gettato tra i piedi quell’ingombrante cadavere. Silvestri sposa in pieno questa inverosimile versione dei fatti e a favore della tesi dell’estraneità di Mussolini all’uccisione del parlamentare socialista deporrà al processo del 1947 (come è ben spiegato nel libro di Mauro Canali Il delitto Matteotti).
Mussolini all’inizio del ’44 gli fa pubblicare sul «Corriere della Sera» una quindicina di articoli firmati «Giramondo» in cui propone un’apertura al mondo socialista. Ottiene anche clemenza per alcuni prigionieri politici. Ciò lo accredita tra alcuni capi partigiani, tra i quali il comandante generale delle brigate Matteotti, Corrado Bonfantini. Roberto Farinacci, Alessandro Pavolini e Fernando Mezzasoma si indignano del fatto che Mussolini accrediti un personaggio come Silvestri. Il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi vorrebbe trarlo in arresto. A quel punto, scrive Franzinelli, «i rapporti tra il duce e il giornalista si allentano per quasi un anno». Ma alla vigilia della Liberazione, i contatti riprendono e nel marzo del ’45 si fanno intensi. Silvestri cerca di convincere Mussolini ad «arrendersi ai socialisti». I dirigenti socialisti della Resistenza, Sandro Pertini, Riccardo Lombardi e Lelio Basso, respingono l’offerta. Bonfantini vorrebbe mandare avanti la trattativa ma i comunisti si oppongono. Anche Mussolini a quel punto lascia cadere ogni tentativo di mediazione. Ma Silvestri, in virtù delle sue entrature tra i partigiani, riesce a salvare la vita del capo della polizia Renzo Montagna, del capo dell’esercito Rodolfo Graziani, del ministro della Giustizia Piero Pisenti. Gran parte di questa storia verrà raccontata in un libro dello stesso Carlo Silvestri, Mussolini, Graziani e l’antifascismo.
Ma non finisce qui. Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945, i comunisti trattano Silvestri alla stregua di un collaborazionista, i socialisti no. Però poi, per uscire dall’ambiguità, il quotidiano del Psi, l’«Avanti!», si vede costretto a prendere le distanze da lui e a pubblicare un articolo dal titolo Carlo Silvestri non è dei nostri. Silvestri a quel punto fa valere il suo legame con Bonfantini e l’antica amicizia con Pietro Nenni. Tant’è che alcuni giorni dopo lo stesso giornale pubblica quella che Franzinelli definisce un’«imbarazzata rettifica». L’«Avanti!» riconosce a Silvestri «in nome delle persecuzioni subite e delle lontane battaglie», il diritto di «parlare da socialista». E Nenni, che pur lo accusa di essere «un pasticcione», gli attribuisce il merito d’essersi messo «alla testa dei primi insorti dando la parola ai mitra».
I rapporti tra Silvestri e il suo mondo di provenienza vanno comunque in frantumi. Nel dopoguerra il giornalista continuerà a difendere il Mussolini della Rsi e prenderà addirittura in considerazione l’ipotesi di candidarsi con i neofascisti del Movimento sociale italiano alle elezioni del 18 aprile 1948. Negli anni successivi, prima di morire nel 1955, sorprendentemente Silvestri riuscirà a conquistare l’amicizia di don Primo Mazzolari e di Alcide De Gasperi.
Ancor più stupefacente è la storia del secondo personaggio preso in considerazione da Franzinelli: Edmondo Cione (1908-1965). Cione finisce nei guai nel 1940 per una lettera scritta a Benedetto Croce di cui si professa allievo e amico. Si presterà da quel momento a fare il doppio gioco a danno del filosofo ottenendo in cambio da Mussolini la liberazione dal carcere. Il momento d’oro giungerà per lui, come per Silvestri, nel 1944, ai tempi della Repubblica sociale italiana. In quell’anno Cione pubblica un libretto anticrociano che gli procura qualche riconoscimento dalla stampa della Rsi. A quel punto Mussolini lo riceverà e dopo quell’incontro Cione si presterà a una clamorosa montatura: pubblicherà in estate una falsa lettera di Croce in cui l’autore della Storia d’Italia dal 1871 al 1915 accennava a una sorta di disistima nei confronti di Ivanoe Bonomi (il presidente del Consiglio che aveva preso il posto di Badoglio, dal cui governo Croce si era dimesso il 27 luglio del 1944) e a un proprio prudente apprezzamento per Mussolini. La reazione di Croce è immediata e i suoi toni sono sprezzanti. Ammette di conoscere il Cione ma lo definisce «un giovinastro» presentatogli quando aveva quattordici anni da un insegnante, «onestissima persona, costante antifascista». Un imbroglione che, scrive Croce nei Taccuini di guerra (1943-1945), «in modo non so se più malvagio o più stupido, è passato armi e bagagli al fascismo e al nazismo». «Mi dicono,» scrive ancora Croce «che abbia anche stampato articoli e un libercolo contro di me.» «Sono cose che purtroppo capitano,» conclude il filosofo «e bisogna lasciarle passare.» Un periodico di area liberale, «La settimana di Roma», rincara la dose collocando «o vaccariello» (il vitellino) tra i «buffoni da circo» e ricorda che «fu cacciato da casa Croce», qualche anno prima, «quando forse in cuor suo già maturava il proposito di prostituirsi al nemico».
Mussolini invece lo apprezza, lo affida alle cure del ministro della Cultura Carlo Alberto Biggini e gli consente di organizzare un movimento «di opposizione anticapitalista» che elegge a suo nemico «il commendatore», cioè «la proprietà», vero e proprio «anticristo», lo «spirito malefico che bisogna distruggere e annientare». Gli viene affidato il compito di scrivere alcuni articoli per «La Stampa» e poi addirittura la direzione di un giornale dal titolo mazziniano «L’Italia del Popolo». Quotidiano che, afferma Franzinelli, ancorché pubblicato a Milano, ha un «sapore partenopeo». Evidente sin dalla titolazione di prima pagina: «Ca nisciuno è fesso» o «Guagliò, facite ’a faccia feroce!».
Difficile, scrive Franzinelli, comprendere come mai Mussolini e Biggini abbiano affidato «a un simile parvenu un compito di grande responsabilità e delicatezza». Oltre tutto, aggiunge, Cione non è un personaggio carismatico: «Pingue, calvo e miope, dall’oratoria cavillosa, dimostra ben più dei suoi trentasei anni»: sul piano politico, «è inconcludente e incline a disquisizioni sofistiche». Ma come avrebbe potuto essere credibile, si domanda Franzinelli, «un movimento fascista-antifascista-nazionalista-populista ispirato dal duce?».
Eppure Mussolini investe su di lui. Pavolini e Farinacci si schierano anche contro Cione. Lo stesso fa il ministro dell’Interno Paolo Zerbino. Anche i socialisti stavolta diffidano e – assieme ai comunisti – lo trattano da provocatore che cerca di «intorbidire le acque». Troverà, anche lui, udienza da Bonfantini che però nel dopoguerra così prenderà le distanze: il suo «modo di condursi con me e con i miei collaboratori era quello di un cretino, di un presuntuoso dilettante di cose politiche e di agente provocatore della repubblichetta di Salò». Persino l’esponente più in vista del fascismo milanese, Vincenzo Costa, ha preso atto – in L’ultimo federale. Memorie della guerra civile: 1943-1945 – del fatto che i «comitati di Liberazione se la ridevano di lui […]; sapevano che godeva ore serene con i fascisti altolocati dei ministeri».
Mussolini, quando gli eventi precipitano, confessa a Silvestri di essere deluso da Cione, che si è dimostrato «gravemente inferiore al compito», dando prova di «un’ingenuità che non è più ingenuità perché è dabbenaggine». Il suo movimento, secondo il fondatore del fascismo, avrebbe dovuto essere «una cosa seria» e «non lo è stata». Ancorché deluso Mussolini accetta però di incontrarlo il 25 aprile nel suo ultimo giorno a Milano, il giorno dell’insurrezione. Così Cione ricorda l’abboccamento: «Ero lì, di fronte a lui, al di là del tavolo, rigido sull’attenti, ma con gli occhi lucidi e le gambe che mi tremavano per la gran passione»; Mussolini «sobbalzò sulla poltrona, s’alzò, mi venne vicino e mi porse una mano: feci per baciargliela, ma egli non me ne lasciò il tempo. M’abbracciò e mi baciò sulle guance, mentre io mi sentivo venir meno. […] Chiuse la porta e mentre sentivo ancora sule gote l’impronta delle sue labbra, pensai, tale era il fascino dell’uomo, “e se ora gli antifascisti mi fucilano, bene, ne valeva la pena!”». Nessuna fucilazione. Cione nel dopoguerra se la caverà e si avvicinerà, anche lui, al Msi. Poi all’armatore Achille Lauro e a qualche Dc napoletano. Ha davvero dell’incredibile che Mussolini abbia trascorso le ultime ore della sua vita in compagnia di personaggi come Silvestri e Cione.

La strana storia della pantera nera

L’accusa in questo caso si propone di investigare più che sull’imputata – un’ebrea che nei mesi dell’occupazione nazista di Roma si specializzò nella denuncia di israeliti del ghetto – sulla rete di complicità che le consentì, a guerra finita, di scontare una pena assai modesta. E di trascorrere il resto della sua esistenza al riparo da ogni possibile riapertura del caso che la riguardava.
Celeste Di Porto, l’ebrea romana che collaborò con i nazisti identificando e mandando a morte qualche decina di suoi correligionari, ed Elena Hoehn, accusata nel dopoguerra di essere stata una spia dei tedeschi, si conobbero in carcere, alle Mantellate, nel giugno del 1946. Tra loro nacque un ambiguo rapporto che è oggetto di un interessantissimo libro scritto da Anna Foa e Lucetta Scaraffia, Anime nere. Due donne e due destini nella Roma nazista. Tra le due, la più conosciuta è senza alcun dubbio la prima, già protagonista di un romanzo di Giuseppe Pederiali, Stella di piazza Giudia. Di lei Anna Foa aveva intravisto le tracce nel corso degli studi che la portarono a scrivere Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43.
Figlia di un venditore ambulante, Settimio Di Porto, Celeste era nata nel 1925. Bellissima (di qui il soprannome «Stella del ghetto»), aveva cominciato a lavorare a quattordici anni come cameriera in una famiglia di conoscenti ebrei, poi nel ristorante «Il Fantino». La trattoria era frequentata dai fascisti della banda di Giovanni Cialli Mezzaroma e tra loro c’era Vincenzo Antonelli, di cui la ragazza diventerà amante (pur se, nel processo di cui parleremo in seguito, negherà di esserlo stata). Sarà Antonelli – nel periodo tra il settembre del ’43 e il giugno ’44, ai tempi in cui la capitale fu sotto il dominio tedesco – a indicarle la via per guadagnare «soldi facili»: quella di aiutarlo nella caccia agli ebrei da consegnare ai nazisti. All’origine della decisione di dare una mano ad Antonelli in questa spregevole attività potrebbe esser stato, anche, il risentimento nei confronti della parte più abbiente della comunità ebraica. Parte a cui appartenevano i genitori di un suo fidanzato che avevano costretto il figlio a troncare il rapporto con lei, giudicata povera e di facili costumi.
Al processo, Celeste sosterrà di aver svolto quell’attività di delazione per aiutare alcuni suoi correligionari a sfuggire alla cattura. Nelle mani dei tedeschi finirà – non denunciato da lei – anche suo padre, il quale prenderà le distanze dalla figlia e troverà la morte ad Auschwitz. Il resto dei suoi familiari si sottrasse alla cattura. Così come – per intercessione di Celeste – una sua compagna di scuola, Rosina Di Veroli, che si salverà e al processo testimonierà a suo favore. In ogni caso già nei primi mesi del ’44 all’interno della comunità ebraica romana si seppe di quel che realmente faceva Celeste, soprannominata da quel momento «pantera nera». Il pugile ebreo Lazzaro Anticoli, detto Bucefalo, da lei denunciato, finì alle Fosse ardeatine; qualche giorno prima della morte lasciò scritto – sulla parete della cella nel carcere romano di Regina Coeli – di essere stato catturato per «colpa di quella venduta de Celeste». E chiese di essere vendicato.
Appena gli alleati entrarono a Roma, nel giugno del ’44, Celeste sfuggì all’ira dei suoi correligionari, riparò a Napoli e cambiò nome. In un primo tempo riuscì a nascondersi, poi, per guadagnarsi da vivere, fu costretta a prostituirsi e venne riconosciuta da due persone. Arrestata, fu riportata nella capitale e incarcerata in attesa del processo che iniziò nel ’47. L’inizio del dibattimento non passò inosservato: Pantera Nera in gabbia davanti a quelli che ha tradito, titolò «Il Tempo»; «La Voce Repubblicana» riferì di una folla che davanti al tribunale ne pretendeva «il linciaggio». Sara Vivanti, unica sopravvissuta di una delle famiglie più colpite dagli arresti, raccontò di averla vista nei giorni precedenti l’eccidio delle Fosse ardeatine mentre partecipava «con una pistola in mano» al saccheggio dei negozi degli ebrei. Fu condannata proprio per questo, per aver «collaborato con il tedesco invasore a scopo di lucro» fornendo indicazioni e «materialmente partecipando» all’arresto di numerosi israeliti. Se la sentenza sottolineava la questione del lucro («quasi apparisse ai giudici più importante di ogni altro aspetto della vicenda», scrivono Foa e Scaraffia), è conseguenza delle norme per l’amnistia del 1946, secondo le quali gli unici delitti non coperti dal provvedimento di clemenza erano quelli «particolarmente efferati» o, appunto, commessi «a scopo di lucro». Ma non era da considerarsi «particolarmente efferata» la denuncia di un ebreo destinato alle Fosse ardeatine o ad Auschwitz? No, sostenne la difesa, dal momento che Celeste poteva non essere a conoscenza della fine che avrebbero fatto quelli che aveva denunciato. E i giudici – anche in altri processi – accolsero questa tesi.
Celeste finì in cella con Tamara Cerri, l’amante sedicenne di Pietro Koch, capo della feroce banda di seviziatori che dalla loro sede – la pensione Oltremare in via Principe Amedeo (i locali in cui oggi c’è Radio Radicale) – davano una mano alla Gestapo. Koch verrà fucilato a Forte Bravetta il 6 giugno del 1945. In una memoria successiva ritrovata dalle autrici, Celeste, a proposito dell’esecuzione di Koch, ricorderà di aver saputo dalle suore che il torturatore «aveva fatto una morte da santo, in perfetta pace con Dio, rassegnato a morire con una forza d’animo superiore». C’era anche, sempre secondo le monache, chi «diceva di invidiare una morte simile» e questo «faceva sperare che il Signore lo avesse perdonato in tutto facendolo entrare nel Regno dei Cieli». Dalle religiose che assistevano le detenute, in altre parole, la «pantera nera» veniva a sapere che ci si domandava se, dopo la fucilazione, a un notissimo criminale sanguinario (qual era Koch) sarebbero state spalancate le porte del Paradiso.
Alle Mantellate Celeste restò due anni. Nel giugno del ’46, incoraggiata dalle suore, incontrò in carcere la coprotagonista di questo libro, Elena Hoehn. Con la quale avrà un rapporto dapprima difficile, poi sempre più intenso. Al termine del processo, la «Stella del ghetto» verrà condannata a dodici anni. Dodici anni immediatamente condonati a sette, e alla fine ne sconterà solo tre (comprensivi dei due trascorsi alle Mantellate più uno a Perugia). Uscirà di prigione il 12 marzo 1948 e, nove giorni dopo, riceverà il battesimo (madrina la Hoehn) dal vescovo di Assisi. Per poi trovare rifugio a Trento. Sempre accompagnata da Elena.
Elena Hoehn era nata in Slesia nel 1901. Nel primo dopoguerra era giunta in Italia dove aveva conosciuto Luigi Alvino, un commerciante avellinese destinato a diventare suo marito (con rito civile). Un matrimonio di breve durata, dal momento che Elena era poi diventata l’amante di un deputato fascista (nonché direttore del Banco di Napoli) molto ascoltato da Mussolini: Giuseppe Frignani. Secondo Armando Droghetti – autore di Elena Hoehn. Protagonista della storia italiana – la ragazza ebbe all’inizio degli anni Trenta una conversione al cattolicesimo. Foa e Scaraffia mettono in dubbio l’autenticità di questo atto di cambiamento di fede e sollevano interrogativi su come fu possibile che – nonostante la relazione tra lei e Frignani fosse pubblica – la conversione di Elena ottenesse l’«avallo» dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Ascalesi. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Hoehn scoprì che Frignani aveva sposato un’altra donna che gli aveva dato due figli. Elena tornò con il marito, Luigi Alvino, che, nel 1943, accettò di «nascondere» Giovanni Frignani (fratello del suo ex amante). Questo Frignani era il tenente colonnello dei carabinieri che il 25 luglio del 1943, su incarico di Vittorio Emanuele III, aveva arrestato Mussolini. Dopo l’8 settembre i nazisti gli davano la caccia e nel gennaio del ’44 riuscirono a catturarlo nel rifugio predisposto da Alvino e Hoehn, si presume in seguito a una delazione. Con lui caddero nelle mani dei tedeschi due ufficiali dei carabinieri e, di lì a qualche giorno, l’intera rete che faceva capo al comandante del Fronte militare clandestino, il colonnello Montezemolo. Tutti poi trucidati alle Fosse ardeatine.
Appena finì la guerra, la Hoehn venne accusata di spionaggio a favore dei nazisti e tratta in arresto. Ma lei – con l’aiuto di personalità del mondo cattolico – seppe trasformarsi in un’«eroina cristiana» portando «in dote» la «conversione di Celeste Di Porto». ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il tribunale della storia
  4. Introduzione. Tutto ebbe inizio a Tolosa
  5. SUL BANCO DEGLI IMPUTATI
  6. LE ARRINGHE DELL’ACCUSA
  7. LA PAROLA ALLA DIFESA
  8. Conclusione. La storia non contempla sentenze definitive
  9. Bibliografia
  10. Copyright