L'azzardo
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L'azzardo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Leandro è un uomo che ha talento e passione: è abilissimo con il pennello e ama copiare i grandi capolavori del passato. Forse tutto era cominciato quando da bambino contemplava, insieme alla madre, i dipinti della Galleria Borghese, dove il padre faceva il vigilante. Era stato allora che, sfogliando un catalogo d'arte, nel Miracolo dello schiavo del Tintoretto gli era parso di veder calare dal cielo il suo idolo romanista Roberto Pruzzo, con tanto di mantello giallo e veste rossa. Ma soprattutto, già a quell'epoca, si era convinto che ogni forma di Bellezza fosse ormai stata dipinta e che quindi a lui non spettasse altro che riprodurre le opere degli antichi maestri.
Questo compito diventa un mestiere quando Leandro, trasferitosi a Mantova, si guadagna da vivere facendo il copista di capolavori. Nel contempo si lascia travolgere da un'altra ossessione, le scommesse calcistiche, e inizia a condividere il proprio vizio con un'allegra brigata di personaggi strampalati. Tutti hanno un soprannome che evoca i rispettivi talenti - il Boccaccio, Marlon Brando, il Vesuvio, Tacito, il Negro, Maometto -, mentre Leandro viene chiamato il Profeta, per la sua straordinaria capacità di prevedere i risultati.
Ma, con l'azzardo, il rischio è sempre dietro l'angolo e si può finire in acque pericolose. Per fortuna, Leandro, ancor più che Profeta, è falsario...
Coppia creativa nel teatro, Peppino Mazzotta e Igor Esposito esordiscono con questo romanzo, una commedia noir fra scommesse e furti d'arte, nella quale scavano a fondo nei comportamenti e nelle debolezze umane. Con una prosa originale e punteggiata di colpi di scena, regalano ai lettori pagine trascinanti e, insieme, uno spaccato della vita della provincia italiana, fra vizi, meschinità ma anche insospettabili risorse e potenzialità di riscatto.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831806794

I lanzichenecchi

Mi raccomando, non copiate e soprattutto non fate i lanzichenecchi. Era questa la frase preferita della nostra professoressa di greco e latino. Prima di ogni versione la ripeteva come una litania, ma in quarta ginnasio nessuno di noi aveva un’idea chiara e certa sul conto dei lanzichenecchi. Bisognava lavorare di fantasia e la nostra fantasia miscelata a un po’ di logica ci suggeriva che forse i lanzichenecchi fossero gente sempre pronta a parlare. Una mattina, però, non ricordo se Dalla Bona o Bianchi, a corto di fantasia e di logica, osò chiedere alla vecchia divoratrice di classici chi fossero i lanzichenecchi. Alla domanda, dall’orrore uno dei pilastri del liceo classico Virgilio sembrò quasi sgretolarsi. «Ma come?! Non sai chi sono i lanzichenecchi?»
«Veramente ce lo immaginiamo…» rispose al plurale e con voce tremante, cercando di rimediare un po’ di comprensione, Dalla Bona o Bianchi.
«La storia non si immagina, si conosce!» tuonò il vecchio pilastro. Poi, il silenzio e i nostri corpi mummificati resero chiaro al pilastro che nessuno di noi aveva un’idea certa e precisa sui lanzichenecchi. E allora il pilastro, quasi a mo’ di minaccia, disse: «Per domani tutti farete una ricerca sui lanzichenecchi! E adesso forza, traducete la versione». Se ora il vecchio pilastro potesse vedere come spendo il mio giorno credo che le verrebbe un infarto; oppure, con un colpo di scena, senza drammatiche conseguenze potrebbe anche sentenziare: “Io l’avevo detto!”. Ma credo che il suo corpo si sia già decomposto in una elegantissima bara di mogano per la gioia dei vermi e del silenzio. Però, per onestà e soprattutto per rispetto ai vermi, io lo devo dire: cara professoressa, lei lo aveva detto, ho fatto una brutta fine. Copio tutto il giorno e i miei più cari amici sono dei terribili lanzichenecchi, e ora, se lei permette dall’alto dei cieli, sarei felice di presentarle alcuni di questi terribili lanzichenecchi.
Maometto non venne a me in groppa a un cammello e neppure lo conobbi a La Mecca. Fu tutto meno eroico e sacrale. Si presentò nella mia casa-studio insieme al dottor Fittipaldi. Il dottore venne a ritirare l’opera commissionata: Il Parnaso di Mantegna. Alla consegna, come sempre, mi sentii in diritto di chiedere il perché di quella scelta. Il dottor Fittipaldi mi spiegò che voleva ricostruire nella sua villetta lo studiolo di Isabella d’Este; e Il Parnaso, lo indicano i documenti, fu per cinque anni l’unica opera esposta nello studiolo della marchesa. Ma perché, il dottor Fittipaldi, desiderava così ardentemente ricostruire lo studiolo di Isabella d’Este? Vantava lontane origini ferraresi, o forse era solo un modo per pavoneggiarsi davanti ai suoi ospiti? E allora un attimo prima di stringere la mano al mio cliente domandai: «Dottore, ora so a cosa servirà la tela che ha appena acquistato ma, se è lecito chiederlo, perché vuole ricostruire lo studiolo di Isabella d’Este?».
Il dottore prese tempo. Guardò Maometto e gli disse: «Muoviti, porta la tela nel furgone», poi tornò a incrociare il mio sguardo e guadagnò altro tempo. «Lo vede?! È un buono a nulla, è lento, non fa altro che aspettare ordini. Non prende mai l’iniziativa. Del resto è un bastardello. La madre è marocchina e il padre mantovano. Da anni suo padre è il mio giardiniere. Un lavoratore umile, rispettoso, ma coglione, tanto coglione da mettere incinta una marocchina. E così venticinque anni fa è saltato fuori lui: Antonio Alì. Gli hanno pure messo il doppio nome come se fosse un marchese. Io però lo chiamo Maometto perché assomiglia più alla madre che al padre e quando occorre gli faccio fare qualche lavoretto. Ma è tempo perso, perché è un bastardello e come tutti i bastardelli è un perditempo, e ha pure il vizio del gioco. E lei forse lo sa meglio di me: di gente che gioca ce n’è abbastanza, e qui, invece, ci serve gente che lavora seriamente. Arrivederla e grazie.»
«E lo studiolo?»
«Ah, lo studiolo…» Aprì la porta e fece cenno a Maometto di aspettare fuori, poi la richiuse. «E va bene, siamo tra uomini, lei mi può capire. Mia moglie è depressa. Il sesso per lei sembra essere diventato un tabù. Legge tutto il giorno, e legge sempre lo stesso libro, un saggio: Lo studiolo di Isabella d’Este. E allora ho pensato che magari cambiando ambiente o, meglio, costruendo un ambiente nuovo, come dire… intellettuale, magari si risveglia pure il desiderio sessuale. Ecco, mi capisce? Ho fatto un investimento…»
«Funzionerà, anche perché lei ha qualcosa che ricorda molto da vicino Francesco Gonzaga» dissi nella maniera più seriosa possibile.
«Aspetti, me lo ricordo: è quello che ha fatto costruire Palazzo Te…»
«No, era il marito di Isabella d’Este…»
«Ma che fa? Mi prende in giro?»
«Dottore, non mi permetterei mai…»
Si voltò e uscì senza stringermi la mano. Sentii un urlo: «Coglione, vai a prendere la ricevuta!». Maometto rientrò e mentre gliela consegnavo domandai: «Tu le giochi, le bollette?».
«Sì! Solo poker e bollette!» rispose orgoglioso.
«E allora domani giocati il Paris Saint-Germain vincente e l’over del Milan, te lo dice il profeta. Quello vero.»
Maometto sorrise e come tutti i giocatori incalliti volle anche lui darmi una dritta: «Io ci vedo pure il 2 dell’Inter a Palermo».
«Potrebbe essere… dove giochi di solito?»
«Alla Snai di piazza Arche.»
«Allora ci rivedremo lì…»
Anche Tacito all’improvviso comparve un giorno nella mia casa-bottega. Mentre dipingevo, sentii due colpi sulla vetrata che dava sulla strada. Mi voltai e vidi un uomo non troppo alto che di sicuro aveva superato i sessanta. Indossava un pastrano grigio e una sciarpa nera che a mo’ di pitone si attorcigliava sul collo. Capii subito che quel signore non poteva essere mantovano. I clienti mantovani, anche quando i nostri sguardi s’incrociavano dalla vetrata del mio studio, che affacciava su via Chiassi, erano sempre soliti fare tre passi in più e suonare il campanello. Col pennello feci cenno all’uomo col pastrano grigio di fare tre passi in più. Avrebbe trovato una porta e un campanello, ma ovviamente io aprii prima che lui suonasse. «Buongiorno» disse l’uomo col pastrano grigio.
«Buongiorno a lei, prego…»
«Ho sentito parlare molto bene della sua mano.»
«Mantova è piccola e via Chiassi è una sorta di via del Corso, e prima o poi ci passa tutta la città. Ecco perché bene o male la gente mi conosce.»
«È romano anche lei?»
«Sì, anche se via del Corso non esiste mica solo a Roma…»
«Sarà pure, ma via del Corso di Roma è incomparabile. Da una parte inizia con piazza Venezia e dall’altra finisce aprendosi su piazza del Popolo, e nel mezzo ci sta pure la colonna di Marco Aurelio.»
«Si vede che ha studiato…»
«Che fa, mi prende in giro?»
«Non mi permetterei mai, è un modo per rompere il ghiaccio.»
Da buon romano non si offese e sorrise rispondendo a modo. «Co’ ’sto freddo er ghiaccio nun se rompe manco se ce famo crolla’ er Colosseo sulla capoccia!»
«Forse se rompe solo co’ ’na bordata de Totti…» replicai, recuperando dalla mia fanciullezza un leggero accento romanesco.
«Co’ ’na bordata de Totti me gioco che se rompe pure quer porcile de Montecitorio! Anzi, mo che me ce fa pensa’ ’na soluzione ce sarebbe, altro che scioperi e processioni, io per farla finita co’ ’sto porcile ce metterei proprio Totti a bombarda’ Montecitorio. Per ogni parlamentare che entra o esce ’na bella mazzata de Francesco! Così, al volo, d’esterno, de collo, de piatto, de punta, ce cambierebbe i connotati a tutti li peggio porci de ’sto Paese. A Bossi, per esempio, so’ sicuro che lo prenderebbe ar centro der faccione e ce farebbe la faccia nera nera come quelle degli africani! Sa che soddisfazione!»
«La legge del contrappasso!»
«Si vede che ha studiato!»
«Che fa, mi prende in giro?» stavolta fui io a dirlo.
Ridemmo come due bambini. Non prendersi mai troppo sul serio. Sfottersi, come diceva mia madre, è il miglior modo per attraversare e alleggerire i giorni della nostra vita. Misi sul fuoco la caffettiera e feci accomodare l’uomo dal pastrano grigio sul divanetto del mio soggiorno. «In cosa posso esserle utile?»
«Vorrei commissionarle un ritratto di Tacito.»
«Ha con sé una riproduzione di qualche pittore?»
«Purtroppo no…»
«E infatti non mi risulta che qualche grande maestro abbia dipinto un ritratto di Tacito.»
«E proprio per questo sarà lei il primo maestro a dipingerlo.»
«Mi dispiace, ma riproduco solo copie di grandi capolavori. Se lei mi scova la foto di un ritratto di Tacito dipinto dal Correggio o dal Tiziano posso mettermi all’opera.»
«Ma lasci perdere i maestri del passato. Ho qui con me un foglio sul quale ho scritto, dopo accurate ricerche storico-letterarie, le caratteristiche fisiognomiche del probabile volto di Tacito. Ci vuole solo un po’ di maestria e il ritratto è bell’e fatto. Lei è un artista o mi sbaglio?»
«No… sono un genio: copio, ecco perché non posso dipingere un’immagine che non sia stata già dipinta. Capisce?» risposi sorridendo.
«Lo so, me lo avevano detto…»
«E allora se glielo avevano detto sta perdendo tempo.»
«Ma un’eccezione ogni tanto se po’ fa’… semo romani o no? Tutta ’sta rigidità nun c’appartiene…»
«Ma lei perché si è fissato con Tacito?»
«Come, perché? Allora non ha studiato?» Questa volta pronunciò la domanda senza un filo d’ironia e sembrò quasi offeso, poi proseguì senza aspettare una mia risposta. «Non c’è storico romano che si possa comparare a Tacito!»
«Neppure Sallustio?»
«No, troppo sentimentale!»
«Capisco, ma le ripeto: non posso accontentarla.»
«E invece se si sforza io sono sicuro che può.» Ormai era evidente che mi trovavo di fronte a un fanatico. Ma mai avrei pensato che potesse esistere un fanatico di Tacito. Fatto sta che questa evidenza mi ispirava e così l’uomo dal pastrano grigio e dal pitone nero mi risultava estremamente simpatico. La romanità c’entrava poco, era quella stramba forma di fanatismo a sedurmi. La sua non comune venerazione. Adorare uno storico in tempi in cui la storia sembra meno importante d’un cruciverba. Fu così che la mia animuccia iniziò a scalpitare dicendomi: “Fai un piccolo sforzo e accontentalo”. Ma non potevo mica tradire lunghi anni di coerenza poetica per una simpatia. Avevo sempre resistito all’idea o alla vaga sensazione che una tela o un foglio bianco potessero riempirsi delle mie visioni. All’io, all’originalità, all’inedito già da ragazzino d’accademia avevo tagliato le palle. Ogni volta che sentivo la parola “originale” ero colto da conati di vomito. Io volevo solo salvare o, meglio, prolungare la vita alla bellezza, e la bellezza non sempre ha a che fare con l’originalità. Da ragazzino avevo scelto di essere un servo non dei padroni, ma dei poeti della pittura, ed era questo ciò che mi inorgogliva sopra ogni cosa. Erano loro che mi davano da mangiare e non si può tradire chi ti sfama senza sfruttarti.
Sorseggiai il caffè. Mi accesi una sigaretta e in silenzio feci frullare la mia mente. Un tiro, due tiri, tre tiri e saltò fuori l’ideuccia che mi avrebbe permesso di accontentare il simpatico romanaccio senza tradire la mia fede o, con una larga concessione, si potrebbe anche dire la mia poetica. Una mentale carrellata di ritratti di Tiziano incendiò la mia memoria visiva: Ritratto di gentiluomo; Uomo dal guanto; Ritratto di Francesco Maria della Rovere; Ritratto di Pietro Bembo; Allocuzione di Alfonso d’Avalos marchese del Vasto, che arringa la folla durante la guerra contro l’esercito turco di Solimano II; Ritratto di Ranuccio Farnese, troppo giovane da scartare; Ritratto del doge Andrea Gritti con anello al dito e volto corrucciato; Ritratto di Jacopo Strada con pellicciotto, spada e monili d’altri tempi; Ritratto di Carlo v a cavallo con pennacchio rossastro che fa da pendant a quello del sovrano; infine Ritratto di Pietro Aretino in veste cremisi, costruito con pennellate rapide e larghe, in parte appena abbozzate, il volto con barba da vecchio saggio, folgorato di tre quarti, iroso, su larghe spalle, mentre l’occhio sinistro sprofonda, quasi invisibile, nell’abisso del buio. Ecco, caro uomo dal pastrano grigio e dal pitone nero, chi ci avrebbe salvato: il Tiziano e il suo carissimo amico Pietro Aretino. In fondo anche Tacito può considerarsi un letterato e in quanto a stile mi sembra che entrambi non scherzino. Bastava non dirglielo e vendergli il ritratto dell’Aretino per quello di un ipotetico Tacito. Io non avrei dipinto nulla di originale e la mia animuccia sarebbe stata doppiamente contenta.
«In realtà una soluzione ci sarebbe…»
«Ha visto? Ne ero certo.»
«Dipingerò, se la va bene, un Tacito un po’ più moderno. Un Tacito cinquecentesco.»
«Va benissimo, in fondo un vero artista trasfigura sempre la realtà.»
«E cosa ne farà del suo ritratto?» chiesi spinto dalla curiosità.
«Sarà affisso dietro la mia scrivania, così il dio degli storici veglierà sui miei studi e sui miei scritti» disse con tono serioso ed epurando l’allegro ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’azzardo
  4. I vecchi mostri
  5. Del tempio o dell’inferno
  6. Il miracolo di Pruzzo
  7. La fuga in Padania
  8. Il genio copia
  9. I lanzichenecchi
  10. Pausa dal dolore
  11. Tango negro
  12. I funghi, la Babele o del tempio profanato
  13. Punto
  14. Di Nanà o della mattanza
  15. L’eruzione del Vesuvio
  16. La persecuzione o del sogno di Costantino
  17. Come nello studio di Nadar
  18. Over sicuro come la morte
  19. Le tentazioni di sant’Antonio
  20. Sulla via di Damasco
  21. Essere pronti è quasi tutto
  22. Titanic Tintoretto
  23. Copyright