Notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, poco dopo la mezzanotte, circa due ore dopo il naufragio. A bordo della Costa Concordia, incagliata di fronte a Punta Gabbianara, Isola del Giglio.
Ponte 4, lato di sinistra.
Il corridoio rimbomba del tonfo di passi. Le luci di emergenza deformano impietose i tratti dei volti irrigiditi dalla tensione. Nelle pupille dilatate di uomini e donne si legge lo sgomento. Non è possibile, non sta succedendo davvero, sembrano dire. Ma le bocche sono cucite, il respiro intrappolato sopra lo sterno.
Dall’atmosfera spensierata della cena paiono trascorsi poco più che una manciata di minuti: gli abiti eleganti degli ospiti che risplendono alla luce dei lampadari, i camerieri in bianco che sfrecciano con i piatti in equilibrio sulle mani e il sorriso sulle labbra. E poi gli ufficiali in divisa, il cui sguardo si posa compiaciuto su quel piccolo e sfarzoso regno: tutto cancellato.
Adesso le luci rimbalzano sull’arancione dei giubbotti di salvataggio, confondendo i singoli in una massa indistinta.
Il rumore di cristalli e porcellane che vanno in mille pezzi spinge i passeggeri ad accelerare l’andatura. Già da parecchio si erano accorti che la nave era inclinata su un fianco, ma al primo scossone tutto era rimasto al suo posto. Ora, invece, il tempo è scandito dagli oggetti che cedono alla forza di gravità, sempre più numerosi.
Devono scappare da quella che sta diventando una trappola galleggiante, e alla svelta.
Poi, improvviso, il buio.
E, prima che la mente riesca anche solo a registrare quanto sta succedendo, il pavimento sembra sparire da sotto i piedi: la nave sbanda sempre più. Il fiato, prima trattenuto, esplode in grida di paura. Le persone cadono una sull’altra. Le braccia, aperte nel tentativo di mantenere l’equilibrio, colpiscono altre braccia. Decine di mani annaspano nel vuoto alla ricerca di un appiglio, ma incontrano solo pareti lisce mentre scivolano verso il fondo del corridoio, che ora pare aver preso vita. Da là, infatti, un suono si fa largo tra le urla e il lamento gelido della nave: il gorgoglio dell’acqua, che sale a riempire ogni spazio libero. Il tonfo dei corpi inermi è una scarica di adrenalina. Chi è riuscito ad afferrare un corrimano, una cintura, una gamba, un giubbotto di salvataggio sente un’energia sconosciuta moltiplicargli le forze. Non ha nessuna intenzione di mollare la presa.
A un tratto, una debole luce fa capolino dall’alto. È la luna, la prima a venir loro in soccorso, indicando la via d’uscita. E al tempo stesso dà forma alla tragedia.
Una coppia di turisti avvinghiata al tubo metallico di un passamano sposta lo sguardo verso il basso, dove tre uomini rimasti imprigionati tra le uscite di emergenza della sala ristorante vengono inghiottiti dall’acqua. L’orrore li costringe a distogliere gli occhi, a imporsi di mantenerli fissi sulla salvezza sopra di loro.
Dietro, chi sente sulla schiena i tentacoli dell’acqua fa di tutto per avanzare, per superare il muro di corpi. Il panico cancella ogni traccia di umanità: nessuna remora a calpestare chi è caduto. O forse nemmeno ci si accorge di chi è scivolato a terra e non riesce più a rialzarsi. Un solo pensiero accomuna tutti: bisogna uscire da lì, a ogni costo.
Dopo un tempo che sembra infinito, la nave si arresta. Ma non le grida, e nemmeno l’acqua. Dopo avere invaso ogni anfratto raggiungibile, il mare si ritira, trascinando con sé tutto quello che trova. Le porte degli ascensori che si affacciano sui corridoi sono aperte, trasformate in abissi senza fondo: diverse persone precipitano in quei pozzi e vengono risucchiate dall’acqua.
Neanche la ritrovata immobilità della Concordia dà tregua ai passeggeri. Chi è riuscito a raggiungere la fine del corridoio si ritrova sul ponte delle scialuppe. Alcune oscillano sopra le teste, il carburante che si riversa fuori dai serbatoi.
È difficile orientarsi in quell’universo ribaltato. La parete sulla quale si affacciavano le porte è ora diventata un pavimento, scivoloso di gasolio e pieno di botole che si spalancano minacciose sull’abisso. La salvezza sembra ancora lontana: l’unica strada per uscire da lì passa sopra le loro teste, e non sembra ci sia modo di raggiungerla. Sul camminamento diventato parete non ci sono appigli. Le persone si guardano smarrite, stremate dalla fatica e dalla paura. I volti che emergono pallidi dai collari dei salvagente, illuminati dalla luce fredda della luna, sembrano assomigliarsi tutti: gli occhi sgranati gridano l’orrore che le parole non riescono a esprimere.
Non tutti sono riusciti a rialzarsi in piedi: alcuni giacciono ancora in un groviglio indistinto di corpi. Una ragazza prova a liberarsi con una mano dal peso della donna che le è finita sopra, mentre con l’altra difende il bimbo che porta in grembo. È lui il suo unico pensiero, nient’altro conta. Se solo ne avesse la forza, riempirebbe di colpi quel corpo pesante che la soffoca, quella sconosciuta che continua a urlare in preda al panico. Invece si mette a strillare pure lei.
Sotto di loro, all’interno del pozzo dal quale sono usciti, c’è ancora gente che tenta di salire, tra grida e strattoni. Le persone, letteralmente, si calpestano l’un l’altra. Una giovane coppia allunga un fagotto oltre il portello che dà sul ponte esterno, chiedendo aiuto a chi è già fuori. È il loro bambino. Nei visi esausti dei due si legge la preghiera di salvare almeno lui.
Il panico dilaga, più veloce delle onde che sentono gorgogliare sotto di loro. È il sentimento dominante, che li avvolge tutti come una coperta intrisa di acqua salmastra, ma non è l’unico: rabbia, impotenza, incredulità serpeggiano tra la gente, rendendola una massa vibrante pronta a esplodere. A fare da detonatore è l’improvvisa comparsa di una scaletta metallica, che viene calata dall’alto e fermata alla balaustra del ponte. Una semplice scala di alluminio, presa chissà dove, piccola e in apparenza fragile. Ma rappresenta la salvezza. E scatena gli istinti più primordiali. Tutti si precipitano in quel punto, decisi a salire per primi. Spintonano, sgomitano e scavalcano, accecati dal terrore. Non importa su chi devono passare, chi è messo a rischio dalla furia del branco. Nemmeno se è una bambina. Il padre cerca di passarla alla mamma, che è già salita. La donna riesce ad afferrarla per il giubbotto di salvataggio. Però, prima che possa stringerla tra le braccia, qualcuno spinge l’uomo, che perde la presa. La piccola si ritrova a penzolare nel vuoto, mentre il colletto del salvagente le comprime la gola in una morsa soffocante. Le sue grida stridule non placano il gruppo, ma fanno scattare la rabbia di qualcuno in fondo alla fila.
Mario Pellegrini si fa strada con prepotenza, arriva alla scaletta, afferra la bimba e la passa nelle mani tremanti della madre, che si affretta a raggiungere la cima. Poi l’uomo si volta verso la folla, ruggendo improperi. Vorrebbe riportare almeno una scintilla di raziocinio tra quelle persone. Non si rende conto che è l’istinto di sopravvivenza a muoverle. Un impulso cieco, in cui la razionalità non fa breccia.
Nessuno sembra infatti prestargli attenzione: gli occhi restano fissi sulla scala, i corpi continuano a premere in avanti.
Mario scivola sconsolato fuori dal gruppo, in attesa del proprio turno.
Lui, a differenza di molti a bordo, sa dove si trova la nave. Sa che fuori da lì c’è la sua isola. La terra è vicina, e con essa la salvezza.
Notte tra il 12 e il 13 gennaio 2012, ventiquattr’ore prima del naufragio.
Acque dell’Isola del Giglio.
È una notte serena. La luna, che da qualche giorno ha iniziato la sua fase calante, si specchia sull’acqua e delinea i contorni definiti dell’isola. Da nordest spira una fresca brezza di grecale, ma la superficie del mare è calma; il gozzo disegna una scia che cattura la luce e la trasforma in una miriade di piccole scintille tremolanti.
L’imbarcazione è uscita nel cuore della notte da Giglio Porto e ha virato verso destra, superando gli scogli delle Scole diretta verso Cala dell’Allume, dal lato opposto dell’isola. Mario Pellegrini non è un pescatore esperto, come non manca mai di ricordargli il suocero. «Tu non hai il piede marino» gli dice. E in effetti lui preferisce tenere i piedi ben saldi sulla terraferma: andare a caccia, curare la vigna. Se il mare è mosso, anche la traversata in traghetto fino al continente gli scombussola lo stomaco. Ma, come tanti gigliesi, sa che Cala dell’Allume è un buon posto per la pesca dei calamari. E questa notte ha bisogno di tenersi impegnato. È appena rientrato da una crociera nel Mar dei Caraibi con la famiglia e, a differenza di moglie e figli, soffre ancora per il cambio di fuso orario. Così si è imposto di restare sveglio fino alla sera seguente, con la speranza che a quel punto crollerà dal sonno e riuscirà a riappropriarsi dei propri ritmi.
Sull’isola il mese di gennaio scorre all’insegna dell’indolenza, assecondando i ritmi di una stagione sonnolenta; la maggior parte dei pochi residenti si occupa perlopiù della manutenzione delle strutture ricettive, che riapriranno a pieno ritmo in primavera. Nemmeno il ruolo di vicesindaco richiede a Mario un grande impegno: la mattina successiva lo attende una riunione della giunta, ma vi parteciperà soltanto per riprendere le redini della quotidianità.
Il gozzo procede lento verso sud, il silenzio spezzato solo dal borbottio del motore. Mario ha scelto il percorso più lungo, per godersi appieno quella notte perfetta. Dopo aver doppiato la punta di Capel Rosso risalirà verso nord, costeggiando Punta del Serrone, dove ha la vigna. Si fermerà anche a dare un’occhiata a Cala di Pietrabona, altro punto perfetto per la pesca, poi raggiungerà l’Allume. Il semplice fatto di aver tutto quel tempo da trascorrere in solitudine gli strappa un sorriso di soddisfazione. È stato lontano solo due settimane, ma la sua isola gli è mancata. Non si stanca mai di ammirare tutta quella bellezza. Lo incanta in particolare lo spettacolo dell’alba, quando esce presto con il cane per camminare nella macchia; in una giornata serena, mentre il sole fa capolino dal continente, le piccole isole dell’arcipelago prendono vita punteggiando l’orizzonte, e verso nord le cime innevate della Corsica catturano i raggi dorati, risplendendo contro lo sfondo azzurro del cielo.
Adesso naviga verso nord, la costa frastagliata dell’isola sulla destra. La luce della luna – una sfera quasi perfetta – permette di distinguere la vegetazione bassa che ricopre le colline. Passato il Serrone, Mario riconosce Cala del Corvo, dove le scogliere di granito si tuffano in un mare che nulla ha da invidiare ai colori dei Caraibi. D’estate è una delle mete preferite dei turisti, e la si può raggiungere solo in barca.
Poi, ecco di fronte a lui il promontorio del Franco, ai cui piedi si apre Cala dell’Allume. Mario fa per rallentare, ma c’è qualcosa che non va: il gozzo ha smesso di rispondere ai comandi e sta scivolando sull’acqua solo per inerzia. Il motore continua a girare, ma non spinge più la barca. Un’imprecazione gli sfugge dalle labbra mentre si china a girare la chiave di spegnimento. Il silenzio improvviso gli cala addosso come una cappa e un brivido di apprensione gli fa irrigidire la schiena.
Lui non è facile alla paura, ma è pur sempre un isolano e sa che con il mare non si scherza. D’istinto si guarda attorno: in quel momento è tutto calmo, però il vento potrebbe cambiare all’improvviso e, se si trovasse in balia delle onde sotto costa, con quel pesante gozzo di cinque metri rischierebbe grosso. È lontano sia da Porto sia dalla spiaggia di Campese, e dubita di riuscire a raggiungere una delle due destinazioni a remi, con la sola forza delle braccia. Continua a imprecare, arrabbiato e deluso: non è certo lo scenario che aveva in mente quando è salpato, e adesso ci si mette pure la preoccupazione ad aggravare l’umore. A lui piace avere sempre tutto sotto controllo e su quel legno in balia del mare, a pochi metri dagli scogli, si sente impotente.
Il sollievo che lo travolge nell’udire il suono di un motore gli rilassa all’improvviso le spalle, prima contratte dalla tensione. Si guarda attorno e nota un puntino arancione che sembra galleggiare nel buio: la brace di una sigaretta.
È Antonio!
«Oh!» grida.
Il vecchio pescatore solleva una mano in risposta.
«Antonio, ho rotto il parastrappi!» Mentre inveiva contro la sfortuna, non ha impiegato molto a capire che il problema è nel giunto tra elica e motore.
«Te l’ho detto che non ci devi andare a pesca» brontola l’altro di rimando. «Non fa per te! Non si bono!»
Mario si concede un sorriso. La conversazione è conclusa: sa che, appena l’amico avrà finito di pescare, lo trainerà in porto. Con Antonio le parole sono dosate con il contagocce, ma si intendono a meraviglia.
Rasserenato, si siede e si prepara alla pesca. Adesso può lasciare che i pensieri si rincorrano liberi da fili logici. È quello il bello del tempo trascorso in mare da soli. Mentre a caccia la concentrazione impedisce ogni tipo di riflessione, quest’attività permette di svuotare la mente e di farla viaggiare lontano. Il rollio della barca, le onde che schiaffeggiano le fiancate, il profumo di salsedine… tutto contribuisce alla danza dei pensieri. E quando andrà in cantina dagli amici, davanti a un bicchiere di vino, si lascerà prendere in giro in quel modo pesante a cui sono avvezzi i toscani.
Anche quelle serate gli sono mancate: Mario ama il tempo trascorso in solitudine tanto quanto quello in compagnia. E le cantine non sono solo un luogo fisico, scavato nelle mura delle vecchie case di Giglio Castello: sono un modo di essere. Lì si è tutti uguali. Vino, cibo e risate: non servono altri ingredienti.