È gradita la camicia nera
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È gradita la camicia nera

Verona, la città laboratorio dell'estrema destra tra l'Italia e l'Europa

  1. 256 pagine
  2. Italian
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È gradita la camicia nera

Verona, la città laboratorio dell'estrema destra tra l'Italia e l'Europa

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Nel cuore del ricco Nordest, Verona è il laboratorio italiano dell'estrema destra di potere. Qui ex skinhead e animatori di festival nazirock, capi ultrà che allo stadio inneggiano a Hitler ed esaltano "una squadra a forma di svastica", tradizionalisti cattolici nemici giurati dell'illuminismo, dello Stato unitario e del "dilagante progressismo ecclesiale", avvocati dal saluto romano fin troppo facile, promotori di cene e gite in cui "è gradita la camicia nera" entrano in consiglio comunale nella lista del sindaco, organizzano manifestazioni finanziate dal Comune, diventano presidenti di società partecipate o della commissione sicurezza, finiscono a capo dell'Istituto per la storia della Resistenza... In questo libro, Paolo Berizzi racconta le vicende e le contraddizioni di una città unica. Riavvolge il filo che risale non solo ai tempi della repubblica di Salò, di cui Verona fu una delle capitali, ma addirittura agli albori del movimento fascista, visto che quello di Verona fu, nel 1919, il "fascio terzogenito", nato appena due giorni dopo la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano. Mostra il fertile terreno di coltura che ha alimentato l'eversione nera, da Ordine Nuovo alla Rosa dei venti al Fronte Nazionale di Franco Freda, o i deliri dei due serial killer che, firmandosi Ludwig, intendevano ripulire il mondo dalla "feccia morale e sociale", sterminando prostitute, omosessuali, senzatetto, tossicodipendenti, presunti viziosi, preti scomodi. Fotografa un presente in cui la destra radicale monopolizza il tifo calcistico, le proteste ai tempi della pandemia, eventi come il Congresso mondiale delle famiglie. Verona è oggi l'immagine di un possibile futuro per l'Italia e per l'Europa, e questo libro è un invito a non distogliere lo sguardo.

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Informazioni

1

A casa di Pierrot

Parto alla luce bianchissima di un’alba di marzo, due ore di viaggio e un’immagine in testa: la sua faccia. La prima volta che la vidi in fotografia su un giornale avevo dodici anni o giù di lì. Ricordo che mi sembrò identica a quella di un ragazzo che conoscevo. Adesso quel volto mi scorre davanti, si scosta, appare e scompare in dissolvenza mentre lo sguardo ancora assonnato scivola sul New Jersey dell’autostrada A4. L’ho ripassato più volte in rete ieri notte. Ho googlato per scorgere i cambiamenti, le pieghe. È come prendere una rincorsa prima del salto, che sarebbe il momento in cui devi provare a leggere il linguaggio del corpo. Decido di portarmi avanti anche per questo: per ridurre al minimo il rischio che il suo tempo e le sue abitudini neutralizzino i tentativi di incontrarlo e di parlarci. Non so a che ora esce. Non so che cosa faccia né se esista un momento migliore di altri. Ma voglio sia lui il primo tassello da incastrare nel mosaico di questo viaggio nel nero. Un viaggio scandito da tempi disordinati e misure asimmetriche: gli scatti improvvisi, la pazienza delle attese, fili da tirare, storie da riconnettere. Gli appuntamenti, le telefonate. Mi è venuto naturale pensare a lui perché è un precursore del crimine ideologico, un apripista di un certo modo di pensare e di agire. Il bon butèl veronese: buono di giorno, cattivo la notte. L’angelo che fa il diavolo senza togliersi il vestito. Un intarsio nella cornice di una storia che, nella sua ultima propaggine, si è presa almeno tre generazioni. Ecco il motivo per cui, quarantacinque anni dopo, ha un senso partire da qui.
Numero civico 3. L’ho appuntato su un foglietto: è quello che avevo e che almeno due persone della zona mi hanno confermato. Sul citofono, il nome scritto a penna. «Abel», in corsivo. Leggermente stinto dal tempo. Forse l’inchiostro ha già fatto un secondo passaggio. Penso sia stata una scelta anche averlo lasciato, senza nascondere o abbreviare. Facendo la posta sotto casa si sono ormai fatte le sei del pomeriggio. Premo il pulsante. Conto quattro secondi: dal fondo del viale – non passa attraverso il citofono – sale una voce stentorea. «Chi è?»

Pulita dentro e bella fuori

Per raggiungere la casa di Wolfgang Abel bisogna prendere una strada in collina che piega dolcemente tra il silenzio dei tornanti e i filari della Valpolicella. Montericco di Arbizzano, frazione di Negrar: dieci chilometri da Verona. Più sali e più il verde dei vigneti si mangia le ville. Le vedi proprio sparire come puntine nel tappeto sali e scendi delle coltivazioni che disegnano l’orizzonte. Cancelli di gran foggia, ogni tanto spunta un pezzo di casa, il sedere di un suv. Unici rumori: il vento e i cani che abbaiano. Nient’altro. Da quassù hai la sensazione di una bigotta quiete di provincia con la pancia piena; un manto da posare sopra lo sporco indifferenziato di cui il fluire degli anni e un individualismo distratto riescono a compattare ogni scoria. Anche la paura. Verona ci ha sempre tenuto: pulita dentro e bella fuori. Per iniziare a capirla, per penetrarne la facciata bisogna osservarla dall’alto, un po’ da lontano. È la lente da posare, ti aiuta a ingrandire le contraddizioni di queste terre di benessere diffuso e, in molti casi, di cattivi pensieri.
«Chi è? Chi è?» ripete due volte. Eccolo, Pierrot. Al secolo: Wolfgang Abel, la metà di Ludwig. La sigla neonazista che, negli anni Settanta e Ottanta, da Verona insanguinò l’Italia (ma anche la Germania e i Paesi Bassi): dieci vittime accertate, ventotto sospettate. Una scia di delitti eseguiti soprattutto col fuoco e pianificati con la folle idea di ripulire il mondo da prostitute, omosessuali, senzatetto, tossicodipendenti, presunti viziosi, preti persino. Tipi umani che, nel codice Ludwig, equivalevano a dei parassiti. Abel e il suo socio distributore di morte – Marco Furlan, anche lui veronese, compagno di scuola – questa «feccia morale e sociale» la disprezzavano al punto da considerarla una crosta purulenta: presenze nocive, da sterminare. Una tanica di benzina e via. L’unica strada per preservare l’igiene della società.
Abel è Pierrot. Lo è perché è la maschera che indossa all’ultimo giro della roulette di morte: quando i due giovani serial killer, dopo sette lunghi anni di disastri sanguinari, compiono un passo falso, e da soli si fanno la pozza intorno. Vengono finalmente arrestati. È il 4 marzo 1984. Pierrot e il compagno hanno intenzione di incendiare la discoteca Melamara a Castiglione delle Stiviere all’interno della quale stanno ballando più di quattrocento ragazzi. Versano due taniche di carburante negli angoli della pista. Vogliono vedere la folla ardere come dentro un formicaio avvolto dalle fiamme. Accendono il fuoco, il liquido brucia ma la moquette è ignifuga. Non riescono a fuggire nemmeno loro: Ludwig si arrende. Sipario. Abel e Furlan finiscono in carcere. Processati e condannati a trent’anni (evitano l’ergastolo grazie a delle controverse perizie psichiatriche che ne stabiliscono la seminfermità mentale).
Trentasette anni dopo salgo a Montericco di Arbizzano. La volta buona cade di pomeriggio. «Buongiorno Abel.» Dopo due tentativi andati a vuoto Pierrot mi riceve. «Prego, entri, mi dica cosa vuole.» Ci siamo, finalmente. La prima cosa che noto è l’ordine. Un ordine maniacale, da chalet di montagna. In effetti la casa un po’ lo ricorda. In giardino ci sono aiole basse, pini, qualche ulivo, il tagliaerba. Due casse di legno impilate, probabilmente di passaggio. A fianco della rampa del garage e del viale di ingresso inizia il prato e un telo bianco agganciato con dei morsetti di ferro copre uno scooter. Una Golf parcheggiata. Le ante delle finestre già chiuse alle 18 tranne quella del soggiorno che lascia aperto uno spiraglio. Sulla destra della facciata della villa un altro garage e il magazzino degli attrezzi.
L’ex fighetto della Verona bene, nato il 25 marzo 1959 a Monaco di Baviera, laurea in Matematica, una passione per la filosofia. Figlio di un avvocato consigliere di amministrazione della ARAG, importante gruppo assicurativo tedesco leader in Europa. In gioventù sedicente ecologista: una balla, perché in realtà, raccontarono i compagni agli inquirenti, era di estrema destra e punto. Un ragazzo col ciuffo accecato da un odio verso i locali notturni, i «postriboli», come li chiamavano lui e il socio. Dei gironi danteschi che, nell’archivio di Ludwig, finiscono nel file «luoghi di peccato e di perdizione». Oggi Abel ha sessantadue anni. Capelli bianchi, il ciuffo è un po’ più corto ma ancora avviato. Stesso fisico magro e asciutto, zero rughe. Niente mascherina sul mento rasato. «’Sto Covid poi che roba è? Lasciamo perdere, va’» rimarca a voce alta. Indossa pantaloni di velluto color nocciola, pantofole tirolesi, un piumino azzurro sopra la camicia di flanella e la t-shirt.
Gioca d’anticipo, era prevedibile. «Sinceramente non capisco perché lei è venuto da me. Io ormai sono fuori da tutto e non seguo niente.» Metto in pausa la mia diffidenza, è difficile non farsi condizionare dalla storia. A differenza dei tratti tipici della maschera che si era calato sul viso in discoteca nell’ultimo atto del suo romanzo criminale, lo sguardo di Abel non è triste né silenzioso. Eppure non riesco a leggerci niente che sia indirizzato verso il futuro. È uno sguardo dritto, fermo, placido e insieme implacabile. La scintilla di una lama solo un poco spuntata. Gli occhi si posano addosso a chi gli sta di fronte. Ecco: al di là delle suggestioni, le lacrime d’inchiostro che ornavano il volto di Pierrot non riesci nemmeno a immaginarle. Qui c’è una faccia che pare sicura di sé, consapevole di tutto. «Ormai ho fatto il mio tempo, sono scaduto, dai. Non mi cerca più nessuno e questo è solo un bene. Voglio stare tranquillo, capito? Tranquillo.» Dribbla accennando un mezzo sorriso, che subito ritira.
Capisco che la conversazione si sta infilando in uno spazio stretto. Lascio sia lui, col linguaggio del corpo, a farmi capire se e fin dove osare. Chiedo ad Abel che cosa pensa della «Verona nera»; se e come è cambiata rispetto ai suoi tempi; perché, secondo lui, un pezzo di città e i suoi giovani si passano il testimone di una certa veronesità, un impasto di identitarismo spinto, di rabbia «antropologica» e di rifiuto del «diverso». Lui che i «diversi» li faceva fuori. Il silenzio dura pochi secondi. Poi arriva la prima risposta, di certo rivelatrice dell’uomo. «Puoi scrivere quello che vuoi. Tanto io non leggo quello che tu scrivi, e non conosco gente che legge quello che tu scrivi. Capito?» Dice così, serafico. In un quarto d’ora di colloquio è come se Abel entrasse e uscisse dal corpo. Un cassetto in carne e ossa. Prima mi parla della madre ottantasettenne che «non deve fare il vaccino» e a cui lui deve preparare la cena; poi butta lì alcuni pezzi di vita di oggi per tenere distante la vita di ieri, il passato che non passa.
«Faccio la mia vita, sono a posto con il mondo ma devo risolvere le mie problematiche esistenziali.» Quali, non lo dice. «Ho il mio lavoretto [fa il consulente informatico, ndr], altro non mi interessa. Niente.» Mentre con la voce calca le lettere di quella parola definitiva – «niente» – penso per un attimo a chi è e a cosa è stato l’uomo che ho di fronte in questo lembo di collina dove è adagiato un paesino di seicento abitanti: una delle frazioni più piccole di Negrar di Valpolicella. Che cosa diavolo ha combinato nella sua prima vita Abel, l’ex terrorista neonazi che mi parla a distanza ravvicinata, il volto a venti centimetri dal mio? Dentro quale abisso di odio, di terrore e di sangue ha piantato le croci degli impuri, muovendo da Verona e arrivando su fino a Monaco di Baviera e Amsterdam? E come lo ha fatto, e spinto da cosa? «La nostra fede è nazismo. La nostra giustizia è morte. La nostra democrazia è sterminio», «Il fine della nostra vita è la morte di coloro che tradiscono il vero Dio.» Sono le ultime rivendicazioni di Ludwig, accompagnate dall’aquila nazista, dalla svastica e dalla classica scritta Gott mit uns che era il motto della Wehrmacht. Simboli e proclami che, nella curva dell’Hellas Verona, fanno capolino a partire dagli anni Ottanta, proprio durante la stagione dei delitti seriali di Abel e di Furlan.
«Non l’ho più visto né sentito» dice Abel del suo ex sodale. «Abbiamo preso strade diverse e ognuno fa la sua vita. Litigato? No. Ma non abbiamo più avuto contatti. Non so dove stia, sinceramente, in questo momento, non ci penso nemmeno.»

Gli inabissati

La storia inizia nel prestigioso liceo scientifico Girolamo Fracastoro di Verona, frequentato dai figli dell’alta borghesia scaligera. Sui banchi del liceo Abel e Furlan diventano amici inseparabili. Stesse ideologie di estrema destra, stesso ovattato ceto sociale. Di Abel senior abbiamo detto, il padre di Marco Furlan, invece, è un rinomato chirurgo plastico, primario al centro grandi ustionati dell’ospedale civile maggiore di Borgo Trento, lo stesso che curò alcune delle vittime di Ludwig.
Wolfgang e Marco viaggiano insieme all’estero: Spagna, Grecia, Germania, Egitto, Thailandia, Russia. Ma a Verona si inabissano. Mentre i loro amici vanno a ballare e si divertono con le ragazze nei locali del Garda, loro puntano a diventare dei Caronte armati di odio. Talenti del male o «angeli sterminatori», per usare una definizione di Enzo Biagi. Nella loro comfort zone scaligera formano un sodalizio stragista. Una specie di cellula terroristica autarchica. Lupi solitari, si direbbe oggi. Due lupi che tendono alla misoginia, che si muovono silenziosi ai bordi del bosco nero della Verona di quegli anni. Che scelgono con cura le prede. Le studiano scavando nelle loro storie, poi le accerchiano. Non frequentano nessuna formazione politica. Sono lontani dalla militanza. Rifiutano la mondanità e la leggerezza perché chi vive libero e leggero, o sotto il «grado di decenza» del loro modello di società, è un’ossessione e assume le forme di un incubo. Il motivo dell’inabissamento di Abel e Furlan è il fine: perché queste due schegge impazzite – che vestono camicie sartoriali e maglioni di cashmere e portano Ray-Ban a goccia che poi diventeranno una prova per incastrarli – è in alto che puntano. Vogliono solo una cosa: fare pulizia. E che l’Italia parli del sangue che fanno scorrere.
La mente, secondo le indagini, è lui, Wolfgang Abel. Allora, per l’anagrafe, era anche un cittadino tedesco. In una testimonianza una ragazza che lo aveva conosciuto lo descrive così: «Un misogino infarcito di ideologie naziste e di filosofemi vitalistici da superuomo». Quando chiudono la carriera con l’ultimo raid (a Castiglione) hanno ventiquattro e venticinque anni. Quando la iniziano, Furlan è ancora minorenne e non si è ancora laureato in Fisica. «Io ho fatto ventitré anni di carcere, ho pagato fino in fondo i miei conti con la giustizia» mi dice Abel. «Dal 2017 sono un uomo libero. Finalmente, dopo tanto tempo e tanti rifiuti alle richieste di libertà dei miei avvocati, hanno capito che non sono un pericolo per la società. Io non sono mai stato un pericolo. Per nessuno, neanche per me stesso.»
A Montericco tutti sanno. Non un fantasma che aleggia, ma insomma. La casa, le rare uscite, i rapporti coi vicini, «buongiorno» e «buonasera». L’anziana madre tedesca. Mamma e figlio si parlano in tedesco. «Io guardo solo la tivù tedesca e leggo ogni giorno “l’Arena” [il quotidiano locale di Verona, ndr]. La politica? Me ne frega zero. Sento solo queste stronzate sul Covid… Devo anche fare il vaccino. Mia madre no, tanto lei sta sempre in casa.» Parla a scatti, è come se alla fine di ogni frase volesse misurare l’effetto che fa.
La casa è rimasta questa: la villa di famiglia in un non-luogo residenziale per gente benestante. Questa è una regola delle colline intorno a Verona: tante ville, poche piazze, rete sociale al minimo, conti correnti anticrisi. Macchine e schei. Silenzio e lavorare. Qui stava e qui è tornato a vivere Wolfgang Abel quando a Natale 2008 gli hanno concesso gli arresti domiciliari. Un anno dopo finisce di scontare la pena. Ma tra libertà vigilata e obbligo di firma per via della pericolosità sociale i suoi lacci con lo Stato resistono fino all’inizio del 2017. «Io vivo bene qua, questa è casa mia e non voglio sapere più niente di quelle storie. Esco poco e quando esco non vedo nessuno. Ma Verona mi piace, è una bellissima città che tutti ammirano perché qui si sta bene. Dai, Verona è civiltà.» Potrebbe sembrare un uomo attaccato alla sua terra ma poi anche no, l’aria è più quella di un apolide.
Le storie di Abel sono incise nella letteratura criminale italiana. Ludwig dà inizio alle danze dei suoi massacri nel 1977, quarantaquattro anni fa. La prima vittima è un senzatetto bruciato vivo in una vettura a Verona. Poi tocca a un sommelier padovano omosessuale: martoriato a bastonate e coltellate. Nel 1979, un tossicodipendente di Venezia, stesso trattamento. Non c’è ancora la firma, arriva nel 1980. Un volantino indirizzato alla redazione del «Gazzettino» mette il marchio sull’ingresso in società di Ludwig. Con quel comunicato scritto a caratteri runici la banda si presenta e rivendica i tre omicidi. Ne seguiranno altri. Il movente è sempre ideologico. Punire i «diversi», gli «indegni». Colpire la loro impurità morale, razziale, sociale. Delitti dove i bersagli hanno un’unica colpa: esistere. A cadere sotto la furia di Abel e Furlan sono persone appartenenti alle categorie a cui l’estrema destra è più ostile. Perché in quegli anni a Verona si respira già quel clima. Sulla scena politica extraparlamentare sono attive decine di gruppi e gruppuscoli neofascisti e neonazisti. Ludwig è in linea. La sua natura è politica, come politica è la sua spietata azione.
Sulla base di diverse deposizioni nel processo sulla strage fascista di piazza della Loggia a Brescia – lo ricostruisce Saverio Ferrari nel libro I nazisti di Ludwig e il rogo del cinema Eros – è possibile oggi ipotizzare che Ludwig rappresentasse, di fatto, un’articolazione dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo. Una sorta di filiazione. Che si inquadra sì nella cornice della strategia della tensione portata avanti in quegli anni dall’eversione nera, ma, allo stesso tempo, si autodetermina, dandosi una vita criminale propria. La tesi della «filiazione» fu sostenuta da Giampaolo Stimamiglio, ex importante ordinovista, e, in un interrogatorio dell’11 febbraio 2015, sempre inerente alla strage di piazza della Loggia, da tale Albino De Russi. Il quale riferisce le parole di Rita Stimamiglio, anche lei ON, che «considerava Ludwig una propria creatura, una cosa sua». A ogni modo: se di linea politica si deve parlare, quella di Ludwig prevedeva la soluzione del problema alla radice. Sangue, omicidi mirati. Uccidere senza tregua. E infatti la falce degli angeli sterminatori continua ad abbattersi.
20 dicembre 1980: a Vicenza una prostituta di cinquantadue anni viene massacrata a colpi di accetta. 24 maggio 1981: le fiamme appiccate intorno a una specie di capanno trasformato in giaciglio dai tossicodipendenti non danno scampo a uno dei tre giovani che dormivano all’interno (due si salvano per miracolo). 20 luglio 1982: nove giorni dopo il trionfo dell’Italia nella Coppa del Mondo di calcio nei titoli dei giornali irrompe di nuovo la sigla neonazi, che si scoprirà poi essere Made in Verona. A Vicenza due anziani frati vengono uccisi a martellate. La stessa sorte tocca, il 26 febbraio 1983, a un altro anziano sacerdote, siamo a Trento. Anche i preti sono indegni? Chi sono i religiosi che Abel e Furlan mandano al creatore? A quale Dio si riferisce Ludwig quando nel volantino al «Gazzettino» rivendica con il solito Gott mit uns, «Dio con noi», le azioni del 1977-’78-’79? È un aspetto interessante che ritroveremo più avanti, perché il tema della commistione tra estrema destra e area ultracattolica e tradizionalista è centrale nel racconto e per l’analisi della scena contemporanea veronese. Ma va detto che la nazifascisteria di quell’epoca era pagana, evoliana. Né di Abel né di Furlan si ricorda una fede così fervente. Non sono dei senza Dio, ma gli investigatori si interrogavano su quale fosse, davvero, il loro Dio.
Il riferimento ai «traditori del vero Dio» del loro comunicato – nonostante svastiche e rune – apre a ipotesi e congetture. Forse Ludwig vuole punire i non ortodossi, quelli che non aderiscono all’ala più conservatrice del Vaticano: e, guarda caso, tutti e tre i religiosi rientravano in questa categoria. C’è un macabro particolare che «parla», nelle cronache del delitto di Trento: i poliziotti che arrivano sulla scena del crimine sono incuriositi dal punteruolo conficcato nel cranio spezzato del prete. Intorno al manico è legato un crocifisso. Se si pensa all’estrema destra di oggi, a quanto sia vicina all’ala più tradizionalista della Chiesa, fa un certo effetto. Ma chi era davvero l’ispiratore di Ludwig?

Tra Hitler e Ordine Nuovo

A casa di questo sessantenne vestito da bassa montagna che mi riceve in giardino e mi fissa negli occhi come per testare la mia resistenza al peso del suo passato criminale – un passato che ancora oggi lui in teoria nega –, nel 1984, al momento dell’arresto, trovarono un libro. Il romanzo di Ignazio Silone L’avventura di un povero cristiano. Secondo il giudice Mario Sannite – che si occupò della vicenda Ludwig – l’origine della sigla deriva da frate Ludovico, uno dei personaggi del romanzo, un religioso noto per la sua intransigenza e per la naturale inclinazione all’inquisizione. Altre ipotesi avanzate all’epoca riconducevano al famoso Ludwig di Baviera, a Ludovico vescovo di Tolosa, a Ludovico di Caloria. Valerio Evangelisti dieci anni fa affacciò una strada alternativa: il filosofo tedesco Ludwig Klages. Tra gli ispiratori della destra più estrema, che si è appropriata del suo pensiero, accusato di antisemitismo e ritenuto vicino al nazionalsocialismo da cui fu però isolato, sosteneva un’opposizione assoluta tra l’anima vitale e lo spirito razionalista, costruttore dell’io e distruttore dell’istinto. Klages fu tra i precursori del movimento ecologista in Europa, la corrente alla quale, millantando, Abel diceva di aderire idealmente.
Dopo l’attentato incendiario a un cinema porno a Milano (l’Eros Sexy Center, 14 maggio 1983, sei morti tra gli spettatori; la più grave strage a sfondo politico dopo piazza Fontana) e in un night a Monaco di Baviera (il Liverpool, 8 gennaio 1984, decine di ustionati, muore una ragazza italiana che lavora nel locale), si consuma lo showdown dei «ripulitori del mondo»: il flop al Melamara di Castiglione delle Stiviere. Abel e Furlan all’inizio non parlano: il primo grida al complotto e il 9 marzo 1984, in cella, tenta di recidersi le vene con una lametta da barba.
Della sigla del terrore si ha finalmente contezza. Di tutto. Il movente («la nostra democrazia è sterminio»), le modalità, i biglietti da visita (i farneticanti volant...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. È gradita la camicia nera
  4. Introduzione. Dentro le mura
  5. 1. A casa di Pierrot
  6. 2. F e N. Il passato che non passa
  7. 3. Nella camera di «Codino»
  8. 4. L’«uomo bianco». Dal fronte veneto all’Europa
  9. 5. Una squadra a forma di svastica
  10. 6. Lavagna nera
  11. 7. All’estrema destra del Padre
  12. 8. Il cartello. L’unione sacra in Europa
  13. 9. Sboarina, o la destra di potere
  14. Appendice. Per gentile concessione
  15. Copyright