Occhi che non vedono
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Occhi che non vedono

  1. 192 pagine
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Occhi che non vedono

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Informazioni sul libro

Felipe Díaz Carrión lavora come tipografo nel paese dove vive da sempre, dove ha vissuto il padre assassinato dai fascisti di Franco, dove si è sposato e ha avuto due figli. Quando la stamperia entra in crisi, con la famiglia è costretto a emigrare: trova lavoro in una fabbrica del Nord, e inizia una nuova vita. Ma in questa nuova esistenza - in cui frutteti e montagna sono sostituiti da strade di polvere e fango ? il figlio maggiore, Juan José, si avvicina a nuove pericolose compagnie, fino a sposare le tesi - e l'azione - del terrorismo basco, blindandosi in un'ottusa ideologia che lo porterà all'omicidio e al carcere. La vicenda del figlio dilania Felipe, che però ripercorre la storia di suo padre, e dal suo insegnamento di democrazia e non violenza trarrà la forza della salvezza. Una drammatica esperienza, la sua, come evidenzia Guadalupe Arbona Abascal nella postfazione, che è la vera protagonista del romanzo, al cui centro è il dolore di una famiglia devastata dall'ideologia e da una società ormai cieca attraversata dalla violenza.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831805988

Seconda parte

12

Di ritorno al suo paese, dove era tornato per qualche giorno durante le estati, al principio con sua moglie e con i due figli e poi poco a poco solo a volte con Felipe, buona parte di coloro che conosceva e che avevano costituito il suo mondo erano morti o ormai molto anziani, ammalati gli uni o in sedia a rotelle in ospizio, e deperiti gli altri, debilitati e malridotti, senza forze quelli che ricordava energici e gioviali e ora come spenti o spesso già solo in attesa.
Alcune case era vero che erano state ristrutturate o, come dicevano, rese dignitose, ma con un cattivo gusto nuovo e volgare, contagioso – contagioso come solo si contagia la stupidità, ricordava di aver sentito dire da suo padre –, che lì, dove il poco che c’era almeno era armonioso e già così poteva sembrare tanto, risaltava ancor di più. Né i materiali che avevano utilizzato – pensò – né le soluzioni che avevano impiegato per i ritocchi stavano bene lì né ci sarebbero mai stati bene, e questo quando non avevano buttato giù completamente le vecchie case, alcune di un valore e una distinzione indubbi, per tirar su al loro posto insulsi condomini che assomigliavano a quello in cui lui aveva vissuto negli ultimi vent’anni.
Si direbbe che a partire da un determinato momento aveva cominciato a non importare quel che si dice un fico secco – un cavolo, ribadiva, niente o in realtà meno di niente – di ciò che vi era prima in quei luoghi e di come si facevano le cose prima; che aveva cominciato a non importare un bel niente di ciò che vi era di fianco, davanti o dietro. La relazione con ciò che è contiguo, si disse, la relazione con ciò che è contiguo, e poi si mise a pensare per un momento. Tutto sembrava aver cominciato a sbattere contro tutto il resto, le linee, le proporzioni, le forme, tutto a sbattere contro tutto a eccezione di contro il cattivo gusto o la presunzione. Sarà forse questo il nuovo, la nuova epoca? Cosa sarebbe venuto poi, dopo il cattivo gusto, si chiese, cos’è che venne prima della presunzione?
Persino gli interni delle case erano cambiati e, quando era di visita, lo stesso ambiente di accumulo di chincaglieria, di mobili e di decorazioni più svariati, che sembravano addirittura fare a pugni con i loro proprietari, lo soffocava a volte proprio appena varcata la soglia. Quanto entusiasmo nel lanciarsi tra le braccia del peggio e nell’abbandonare sventatamente il poco o molto che si ha, pensava a suo modo, sarà così difficile saper accogliere il meglio del nuovo e scartare il peggio del vecchio che tanto spesso si fa il contrario, che alterigia del giudizio e che ostinazione negli occhi non corre il rischio di impadronirsi sempre di tutto?
«Lascerò tutto così com’è,» disse a suo figlio Felipe «metterò il riscaldamento, cambierò le tubature dell’acqua e i cavi elettrici, il bagno e alcune cose in cucina, e il resto rimarrà uguale. Bianco e con la stessa cassettiera e la stessa credenza e le stesse quattro sedie di sempre, che farò sistemare dal tappezziere. Che te ne pare?»
Gli pareva bene, gli pareva bene anche che suo padre avesse ora la possibilità di rifarsi una vita, di riannodarla, di tornare a respirare l’aria delle cose che aveva fatto di lui ciò che era e gli aveva dato la tempra che aveva; e tra le prime cose che riannodò, come se ciò fosse in realtà riannodare se stesso, c’era primordialmente la sua camminata per il sentiero dell’orto del fiume.
Ma quando quel giorno, che si poteva considerare il primo dopo vent’anni, riprese a fare ciò che forse mai avrebbe dovuto smettere di fare e vide che il tempo si era fatto d’improvviso burrascoso come l’ultimo dei pomeriggi in cui aveva intrapreso quel cammino dopo averlo percorso quasi ogni giorno per tanti anni, si chiese cosa voleva dire quella coincidenza, se in realtà le cose volevano dire qualcosa, o se semplicemente accadevano ed eravamo noi quelli che imploravano che qualcosa ci parlasse.
Si riannoderanno le cose quando si riannodano, si chiese come di consueto, oppure ciò che avviene è che diamo briglia sciolta alla nostalgia di qualcosa che già se n’è andato per sempre perché la sua natura, e non solo rispetto al tempo ma anche ai luoghi, è quella di andarsene in continuazione per noi e magari nella stessa esatta misura nella quale anche noi ce ne andiamo?

13

Esattamente come in quel giorno così diverso e in fondo così speculare di vent’anni prima, non appena ebbe il presentimento che gli si stesse per rovesciare addosso il temporale, raccolse tutto in fretta e furia e chiuse a chiave la vecchia porta che il tempo e l’incuria avevano reso interamente grigia. Senza soffermarsi un solo istante per non farsi sorprendere dall’acquazzone durante il tragitto, risalì il sentiero fiancheggiato dai sambuchi, dalle visnaghe e dall’ebbio, fino a prendere il cammino che lo riportava al villaggio. In tutto, dalla porticina tarlata di legno grigio fino al robusto portone con batacchio di bronzo della sua casa in paese, non saranno stati molto più di quattro chilometri per un sentiero nei campi che, più che un semplice sentiero o un semplice collegamento tra due punti, per lui rappresentava la sua forza e la sua tempra nella vita, l’indole del suo atteggiamento verso il mondo e della sua rinuncia o sparizione da esso. Era inoltre buona parte del suo sapere, come se la sua esperienza di vita e la sua relazione con le persone si fossero via via formati lungo quel tragitto, in quel lento andare e venire e meditare su ciò che vedeva e vedere ciò su cui meditava, in quel cadenzato posarsi e decantarsi delle cose vedendo quel che è comune nel diverso e vedendo anche lo stesso differente, incassando i colpi e i dispiaceri della vita – lasciandosi vincere dalle sue gioie – e attraversando poco a poco i suoi vuoti e le sue solitudini mentre sentiva il suono impenetrabile dell’acqua del fiume e del vento tra le foglie dei pioppi che lui interpretava a seconda dei giorni e della luce e delle stagioni. Da lì, molto più che forse da qualsiasi altro posto, gli veniva quella specie di silenziosa forza che tanto lo caratterizzava e quella rara saggezza taciturna e melanconica, massimamente riflessiva e al tempo stesso risoluta ed energica, che taluni attribuivano per attribuirlo a qualcosa alle sue letture.
Colto io, soleva obiettare allora; certo, leggere, quel che si dice leggere, qualcosa avrò pure letto – e indicava se era in casa le sue due o tre pile di libri letti e a vederli riletti più volte con minuziosità –, ma ciò che ho fatto più che altro è stato ascoltare, ascoltare mio padre che riposi in pace per quel poco che ho potuto ascoltarlo e ascoltare chi capitava; ascoltare e soprattutto vedere, rimarcava, vedere con gli occhi quanto più aperti mi è stato possibile o mi è stato consentito di tenere.
All’inizio, sino ad arrivare all’immensa mole del Pedralén dall’orto del fiume, il sentiero curvava due volte costeggiando a destra i pendii dei colli, mentre dall’altra parte, quella della sponda del fiume, una fitta e ampia boscaglia di filari di pioppi, il cui mormorio, a seconda del soffiare dell’aria, lo accompagnava sempre con le sue domande, estendeva la sua frescura e i suoi ricordi lungo tutto il sentiero. Era strano il suono delle foglie quel pomeriggio, come fossero nervose o a preludere altro, ed egli rasentò il pioppeto più veloce e con meno calma di quanto ricordasse. Tuttavia nonostante la fretta, nonostante non ci sarebbe stata la benché minima esagerazione nel dire che ormai il temporale gli era addosso, una volta giunto di fronte all’imponente parete rocciosa, non poté fare a meno di rallentare il passo, come già aveva fatto all’andata, e di soffermare nuovamente lo sguardo per un momento sulla modesta croce di pietra lì eretta, proprio sulla verticale del punto più alto di quel crepaccio, durante gli anni della sua assenza dal paese.
Fu agli inizi dell’autunno del settantasette, nei giorni in cui tutto nel paese sembrava ormai alla buon’ora cambiare velocemente, quando il concistoro locale decise di erigere quella croce, dalle dimensioni molto sobrie e di un solo pezzo, che misurava poco più di un metro da terra. Era stata scalpellata nella stessa pietra dell’immensa roccia che si alzava dall’altra parte del sentiero e, nella pedana che le fungeva da base, sempre della stessa pietra, erano incisi a bulino alcuni nomi. Alcuni di essi, tre, recavano cognomi e nomi completi, e altri due solo un cognome. Tra questi c’era quello di suo padre, Felipe Díaz, Felipe Díaz Díaz in realtà, che figurando solo con il nome e il primo cognome risultava che poteva essere allo stesso modo quello di suo padre o del suo secondo figlio oppure il suo. Gli sarebbe piaciuto sorridere anche in questa occasione, ma subito, come se qualcosa dentro di lui avesse virato d’improvviso su di un cardine forgiato con il torbido metallo di un enigma, sprofondò in un’espressione stranamente indecifrabile.
Dopo la gola rocciosa del Pedralén, dove faceva il nido il capovaccaio da metà febbraio fino ad agosto inoltrato, mancavano ancora tre quarti del cammino per arrivare alla casa in paese. Sull’altra sponda del fiume, ed estranei del tutto al temporale che si avvicinava, i curiosi che osservavano dagli slarghi della strada le evoluzioni degli avvoltoi sembravano continuare imperterriti il loro svago. Anzi, si aveva persino l’impressione che l’imminenza del temporale, lungi dal turbarli, aumentasse in realtà il loro diletto, e per questo li si poteva vedere contemplare estasiati, con ogni probabilità per l’ultima volta quell’anno, ché doveva mancare poco al loro migrare verso altre latitudini, il loro volo di risalita o le loro planate ad ali spiegate come a voler abbracciare l’immensità. Osservavano spensierati e distanti verso il crepaccio, osservavano i nidi, osservavano il volo imponente e intimidatorio degli avvoltoi oppure attendevano tranquilli che rientrassero dai loro lunghi spostamenti in cerca di carogne; tuttavia poteva anche essere – nulla autorizzava a smentirlo – che qualcuno si concentrasse su di lui, sui suoi piccoli e indifesi passi ai piedi dell’immensa roccia sotto il volo in cerchio magari di un capovaccaio.
I capovaccai – ricordava sempre che gli aveva raccontato lì suo padre, stupendolo oltre misura, quando era ancora piccino – sono i primi ad arrivare, tanto che a volte si poteva pensare che erano già lì prima della morte della vittima, o che avessero in qualche modo preparato il terreno e persino l’occasione. Ma la sottigliezza del loro becco, il suo scarso spessore o, se si vuole, la sua delicatezza, permetteva loro di trangugiare solo le parti molli dei cadaveri; le parti molli, gli ripeteva suo padre con un’insolita concentrazione pensando forse ad altro, le parti molli come gli occhi e la lingua. Per questo hanno bisogno che siano i grandi avvoltoi, l’avvoltoio monaco o gli avvoltoi barbuti o il grifone, gli spiegava, quelli che squartano prima i cadaveri perché loro possano poi servirsi degli altri resti molli delle vittime. La priorità degli energumeni, concludeva, e il privilegio degli scaltri. L’accordo prepotente dei necrofagi, avrebbe pensato poi Felipe Díaz Carrión, l’accordo tacito, istintivo e al tempo stesso razionalissimo dei grandi avvoltoi monaci dalle dimensioni terrificanti, superiori persino a quelle delle aquile, e dell’elegante capovaccaio bianco che tuttavia divora le interiora e lascia senza occhi e senza lingua.
Ricordava inoltre di aver sentito dire da suo padre molto spesso che, sebbene non fosse raro che una persona potesse scambiare lì per lì un capovaccaio con una cicogna, un necrofago che divora cadaveri con il volatile che è simbolo di fertilità e buoni auspici, bastava non soffermarsi solo sulla somiglianza di colore del piumaggio e osservare, anche solo per un momento, il collo e le zampe, per rendersi conto all’istante che nel capovaccaio erano in realtà molto più corti e meno longilinei di quelli delle cicogne. Certo che, questo sì, bisognava osservare con attenzione.
Era come tutto nella vita, gli diceva, alcune cose sono e altre non sono, ma queste, quelle che non sono, risulta che a volte arrivano a diffondersi molto più di quelle che sono. Misteri della vita, sottolineava – e allora a lui pareva sempre di sentire il mormorio del vento tra le foglie dei pioppi e il rumore canterino dell’acqua nel fiume –, misteri della vita e della condizione delle cose.
Per questo bisogna cercare di distinguere sempre tutto laddove si presenti e nel modo in cui lo faccia, era solito insistere, e distinguere senza partito preso già in precedenza, senza assolutismi né sventatezze né retoriche, e senza volersi sottrarre, perché dalla confusione – o dai partiti presi a oltranza – non si è soliti ricavare nulla di buono né di chiaro e chi solitamente ci guadagna sempre sono i meno raccomandabili.
Non lo capiva, sentiva l’aria sussurrare tra le foglie e tra i cespugli del sentiero quando gli parlava suo padre, ma non lo capiva nonostante, in questo non capire, gli sembrava oscuramente, non sapeva come, che annidasse già di suo una certa qual forma di comprensione che ora, molti anni dopo, vedeva che aveva poco per volta di certo dato i suoi frutti. Tutto sta nel ripercorrere una volta e un’altra ancora il cammino, pensava.

14

Lasciatosi ormai alle spalle la mole rocciosa del Pedralén, il sentiero di ritorno si ampliava impercettibilmente poco per volta e gradualmente cessava d’essere una mulattiera. Sulla sinistra, man mano che si proseguiva per la strada del ritorno, i muretti di pietra a secco, coronati spesso da roveti, segnalavano i confini delle proprietà, così come alcuni filari di pioppi o olmi che cercavano nuovamente di vincere la grafiosi. Tra quei recinti – da uno di essi si affacciavano dei melograni che quell’anno erano carichi di frutti – si estendevano gli orti fino al fiume; sulla destra, invece, come se l’uberrima fertilità dell’altro lato del sentiero avesse voluto dimostrare proprio in quel punto il suo esatto contrario come fa tante volte il corso delle cose, che muta da un momento all’altro nel suo contrario, si innalzavano scoscesi, a tratti quasi a strapiombo e senza altra soluzione di continuità che non fosse il sentiero stesso, gli aridi monti fitti di ginestroni e timo. Il sentiero andava costeggiando quei monti, i loro pendii e i loro solchi terrosi, sino a giungere all’antico mulino abbandonato, dove la terra battuta che aveva gradatamente guadagnato terreno diveniva ormai una stradina asfaltata adatta non solo agli animali da soma e agli uomini a piedi – e non si sapeva perché veniva da pensare in silenzio – lungo la quale si entrava attraverso un vecchio ponte di pietra nello sparpagliato quartiere del paese.
Mentre imboccava le prime stradine – a un cielo impeccabilmente azzurro, come in quel pomeriggio di vent’anni prima, si era sostituito ora di nuovo, si direbbe anche ugualmente all’improvviso, un paesaggio di nembi cotonosi sempre più pregni di minacce –, una raffica vorticosa aveva iniziato a un tratto a spazzar via e a sconquassare tutto come se non ne potesse più del fatto che le cose si trovassero nel luogo in cui stavano. Mulinelli di polvere e terra si sollevavano in ogni dove e direzione e le particelle di sabbia e le sterpaglie, proprio come fossero minuscoli pallini sparati a iosa, gli pungevano le guance e la fronte come piccolissimi aghi. La polvere, il turbinio di polvere nel quale sembrava si fosse trasformato tutto, s’intrufolava fra le fessure degli occhi come per accertarsi che nulla, e men che meno lo sguardo, rimanesse al riparo da quel vortice.
Quant’è difficile pensare sempre, prima che avvengano gli eventi che sconvolgeranno tutto, alla quantità di cose che possono cadere in qualsiasi momento, che possono vacillare d’improvviso e ridursi in frantumi o chiudersi di colpo per sempre; alla quantità di cose che d’un tratto possono offuscarsi. Solo alle buste di plastica, gonfie e lievi, risultava più difficile cadere; si riempivano esattamente di ciò che tutto scuoteva e così si mantenevano a galla a lungo trasportate a capriccio da un lato all’altro.
Immediatamente – non vi era più nessuno per le strade come la volta precedente, auto frettolose, porte che si chiudevano –, cominciarono a cadere le prime gocce isolate, delle gocciolone grosse, di un diametro incredibile tanto erano grosse, che si stampavano nella polvere accumulatasi sui viottoli producendo un rumore sordo, ovattato e blando, come a soffocare qualcosa di esteso e disseminato. Per un istante parve che tutto fosse rimasto sospeso, l’acqua, la polvere, i ciuffi d’erba e le borse di plastica in aria, che tutto fosse attesa o timore, imminenza e agguato, ma subito – come se si squarciasse il cielo, secondo la frase che è ormai scolpita nella mente di molti – una pioggia torrenziale, accompagnata da tuoni colossali che rimbombavano con uno strano potere evocativo, cominciò a scuotere tutto, a infradiciare tutto e a riempire tutto e a straripare da tutte le parti. I tombini non ce la facevano, e bastò un niente perché si formassero torrenti d’acqua che portavano via tutto con sé, pali, erba, plastica o lattine trascinati da torrenti scatenati che raccoglievano l’acqua dei doccioni e delle grondaie straripanti come a voler includere ogni cosa, a fare incetta di ogni cosa e inondare tutto. Il brutto – si era ripetuto Felipe, Felipe Díaz Carrión, molte volte nel corso di quei vent’anni forse col ricordo rivolto ai temporali di fine estate –, non è tanto ciò che accade, per quanto tremendo possa arrivare a essere, quanto piuttosto il fatto che la sabbia e la polvere negli occhi non ci permettano di vederlo in anticipo, e così può capitare poi qualsiasi cosa.

15

I primi di ottobre, del primo mese di ottobre che passava nuovamente nel suo paese, suo figlio Felipe gli annunciò una visita a sorpresa. Sarò lì per l’ora di cena, aveva detto prima di riagganciare il telefono in un modo che gli parve più brusco del solito. Era sabato tra l’altro e, come tutti i sabati e i festivi, a meno che non lo avessero licenziato dal ristorante o fosse capitato qualcosa – pensò – avrebbe dovuto essere al lavoro. Con quell’occupazione di fine settimana riusciva a sostenere parte delle spese dell’alloggio e degli studi a Madrid, e se ne faceva un vanto; di modo che la visita, per quanto gradita fosse, non poté fare a meno che apparirgli strana. È successo qualcosa, subodorò. Ma su un iniziale sentimento di diffidenza, che gli si era col tempo impresso sul carattere come un lichene sulla corteccia di un albero, subito prevalse l’allegria che gli produceva il rivedere suo figlio; vorrà riposare per un fine settimana, pensò, cosa ci sarebbe mai di strano in questo, oppure che andiamo a funghi per il ristorante.
Dalla fine di agosto, quando era venuto per quindici giorni a stare con lui e aveva trascorso le mattine aiutandolo nell’orto, non lo aveva più visto. Lo chiamava solo ogni tanto per telefono per sapere come stava e raccontargli alcune delle sue peripezie per Madrid e, soprattutto, per ricordare le camminate dell’estate, insieme di buon’ora lungo il sentiero del fiume. Molti tratti li passavano in silenzio mentre altri, come era stata sempre loro abitudine, commentando le piante che vedevano o la crescita e il punto di maturazione delle coltivazioni degli orti – se scendi per di là troverai i giusquiami, gli disse suo padre il primo giorno –; che stessero però in silenzio o conversando, ascoltando il rumore ritmico dei loro passi sulla terra o le voci quiete dei loro pensieri o dialoghi, entrambi apparivano di una serenità che si sarebbe detta il prolungamento o l’emanazione del sentiero stesso, del quale si poteva pensare che, allo stesso modo in cui a uno gli si poteva infilare un sassolino nella scarpa, così anche gli si poteva introdurre qualcosa nell’intimo che facesse fluire il sangue allo stesso ritmo idoneo con il quale scorreva l’acqua lungo il fiume o si adeguavano le foglie all’aria senza alcuno sforzo. Tolgono alterigia i sentieri, gli aveva detto un mattino suo padre, tolgono importanza a ciò che non ha motivo di averla per darla, ma in un modo più rassegnatamente sensato, a ciò che ne ha davvero.
Tuttavia, giunti alla piccola croce di pietra sotto la roccia del Pedralén, si fermavano sempre qualche momento; ripassavano, ripassavano i ricordi e ripassavano i nomi come chi ha la necessità di ricordarli e di leggerli sempre tutti e, arrivati a Felipe Díaz, di pensare ogni volta entrambi che avrebbe potuto essere anche il nome di uno dei due e forse in realtà era già il loro. Il silenzio che mantenevano allora, più che un sile...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Vedere attraverso la polvere
  4. Occhi che non vedono
  5. Prima parte
  6. Seconda parte
  7. Nel territorio del niente: stupore e tremore di un uomo in cammino
  8. Copyright