Se tu segui tua stella, non puoi fallire
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Se tu segui tua stella, non puoi fallire

I grandi narratori raccontano il loro Dante

  1. 400 pagine
  2. Italian
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Se tu segui tua stella, non puoi fallire

I grandi narratori raccontano il loro Dante

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Il 2021, proclamato anno dantesco, ha visto una conferma assoluta della fama della Divina Commedia attraverso le celebrazioni per il settimo centenario della morte di Dante Alighieri. L'adi, Associazione degli Italianisti, pone il sigillo sul ciclo celebrativo di quest'anno con una raccolta unica di grandi scrittori e narratori contemporanei che rivivono, condividono e rielaborano il loro personalissimo incontro con il padre della letteratura italiana. Dante rappresenta l'unico autore la cui poetica è in grado di interagire con la letteratura di ogni tempo, un imprescindibile confronto per la letteratura italiana e mondiale, come conferma la sua influenza fortissima sui narratori contemporanei. La sfida, dunque, è stata quella di realizzare non un semplice omaggio letterario ma un'opera corale che convogliasse le idee più nuove sull'autore Dante e sull'intero immaginario letterario e visuale della Divina Commedia. Tutti questi testi affrontano l'opera dantesca senza pregiudizi, inserendola in percorsi biografici o storici, andando a fondo nell'analisi delle rappresentazioni dei sentimenti e delle sfumature, aiutandoci a riscoprire personaggi noti come anche la folla dei tanti, resi eterni dalle parole del poeta-pellegrino. La grandezza incommensurabile di Dante è tale che attraverso la sua lettura ci è offerta una continua inchiesta su di noi e sul mondo. È una condivisione di bellezza, ancora oggi, addentrarsi nelle pagine della Divina Commedia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831805681
Seconda parte

Le opere di Dante rivisitate

Mircea Cărtărescu

Claritas, integritas, consonantia: i mondi di Dante Alighieri

Lasciando da parte Omero, autore leggendario, e la Bibbia, immensa impresa collettiva, Dante è altresì il primo, e il più visibile, da qualunque punto di vista si voglia osservare l’opera culturale dell’umanità, fra gli scrittori di vaglia che conferiscono all’universo il colore della propria personalità. È, probabilmente, il primo autore che dice a pieno diritto “io” e il primo che abbia l’ambizione di dire, in un unico libro esorbitante, vertiginoso, tutto ciò che sa su tutto ciò che accade o può essere immaginato. È il primo che si esprime con l’intero vocabolario a lui noto, e quando le forme esistenti non gli bastano inventa parole nuove. È il primo che comprende compiutamente, dal sublime allo scatologico fino al grottesco, tutti i discorsi, tutte le indoli, tutte le passioni, tutti i registri dell’essere umano. Parla anche di ciò che non può essere espresso in parole, cose su cui Wittgenstein avrebbe detto che occorre tacere. Esprime, come Rimbaud, l’inesprimibile. L’abiezione, la turpitudine, la bestialità che sono insite nell’uomo vengono controbilanciate nella sua opera dall’estasi, dalla magnanimità, dal genio. Al di sopra di ogni cosa, il dio di Dante è l’intelletto, rappresentato tramite la potenza illimitata della Divinità.
Nessuno è mai entrato in competizione con Dante, né come capacità poetica e satirica, né come potenza visionaria né per la ricchezza delle sfumature del male e del bene, e tantomeno come architettura dei mondi immaginari. Gli scrittori che sono venuti dopo di lui, e che sono suoi figli spirituali, hanno sviluppato solo alcune direzioni e taluni livelli dell’infinita ricchezza chiamata Commedia, organismo in cui il cervello, il cuore e le viscere (il Paradiso, il Purgatorio e l’Inferno) funzionano unitariamente, in una modalità intricata e meravigliosa, come all’interno di un corpo umano. Pochi, pochissimi hanno un’ampiezza che sia prossima alla sua: mi vengono ora in mente Rabelais, Shakespeare e Joyce. Si può in realtà dire, in qualche modo, che la cultura europea si svolge fra due giornate, apparentemente banali, della storia dell’umanità: il 25 marzo 1300, quando il personaggio dantesco inizia il suo viaggio nei tre regni sub- e ultra-mondani, a partire dalla selva oscura, il labirinto in cui tutti ci perdiamo, e il 16 giugno 1904, il giorno in cui Leopold Bloom percorre le strade di Dublino sperimentando tutto quanto può vivere una creatura umana, dapprima nella realtà, poi, attraverso Finnegans Wake, nelle profondità oniriche e plurilingui dell’essere.
Dante è, di fatto, la Divina Commedia, al fianco della quale gli altri suoi scritti sembrano opere minori, alcune tipologicamente romantiche, altre scolastiche, altre adombranti un continente ancora avvolto nelle nebbie, il Rinascimento. Se il poeta non avesse scritto questa summa, questo libro dei libri, probabilmente solo gli studenti universitari avrebbero saputo di lui e l’avrebbero apprezzato, come accade con i poeti dalla cui compagine si è staccato, Guido Guinizzelli o Guido Cavalcanti. Il Dolce Stil Novo è una realtà, un’innovazione temeraria della poesia italiana, ma non può comprendere Dante, così come il flauto non può emettere tutti i suoni di un’orchestra (e in più il mugghio del mare e il sibilo del vento). C’era bisogno che il poeta fosse condannato a morte, come Dostoevskij, e all’esilio, come Ovidio, che perdesse Beatrice, che perdesse i suoi beni e la sua famiglia, che fosse schiacciato dalla sorte e deluso in tutte le predizioni politiche, che fosse dimenticato dai suoi simili ed errasse, come un mendico, di città in città, che ricevesse odio e riconoscimento, perché la Divina Commedia potesse smussarsi, arrotondarsi, come una perla nella polpa della conchiglia ferita.
Una follia cristallina, un metodo paranoico-critico simile a quello di Dalí, un brivido come quello di Leonardo da Vinci all’ingresso della caverna che avrebbe potuto celare nelle sue profondità un mostro o un tesoro, ma in primo luogo una fiducia nelle proprie forze e nelle capacità della letteratura come forse solo gli evangelisti avevano avuto, consapevoli che non loro, ma lo Spirito Santo guidava la loro penna sul foglio, hanno spinto Dante a sfidare i limiti della cultura in cui viveva – quella dell’Antichità, della Bibbia e di pochi contemporanei –, così come il suo Ulisse si spinge al di là delle Colonne d’Ercole per vedere le stelle dell’altro emisfero, ancora mai viste da occhio umano. Dante poteva forse credere che dopo la morte sarebbe giunto per breve tempo in purgatorio, nel cerchio degli invidiosi, con le palpebre cucite con filo metallico, così da non potere più affissare, con livore, gli scritti altrui; a ben guardare, però, se l’inferno fosse esistito davvero e la sinopsi dei peccati fosse stata rigidamente rispettata, il suo posto sarebbe stato fra i colpevoli di hybris, di rivolta contro i limiti umani, così che la sua Commedia umana troppo-umana è diventata in breve tempo, grazie all’intervento ispirato di Boccaccio, Divina.
L’opera possiede più radici. Se una qualunque di esse fosse mancata, il suo tutto sarebbe stato impossibile da realizzare. La prima è quella psicoanalitica, il mito straordinario di Beatrice. Dante ha avuto due mogli, una reale, mai menzionata nei suoi scritti, Gemma, che gli ha dato almeno quattro figli, e un’altra mistica, presenza assoluta nella sua opera, che però in vita ha incontrato fuggevolmente, appena due volte. Figlia e moglie di uomini facoltosi, Beatrice è vissuta solo venticinque anni, e la sua presenza come donna ideale, santa, guida del poeta attraverso purgatorio e paradiso, subentrata a Virgilio, è inspiegabile e sconvolgente. Praticamente tutte le grandi storie d’amore del genere umano partono da qui, da questo irrisolvibile mistero. Un’altra Beatrice è la Laura di Petrarca, un’altra è la Dulcinea di Cervantes e, secoli dopo, Yvonne de Galais di Le grand Meaulnes o Daisy di Scott Fitzgerald. Venere, la donna carnale dell’antichità, conosce una sublimazione freudiana: il sesso è completamente rimosso e sostituito con la santità immacolata di Maria. In uno dei suoi splendidi saggi Borges diceva che Dante ha scritto la Divina Commedia solo per le scene con Beatrice, solo per potere rivivere, in purgatorio e in paradiso, gli incontri con lei del mondo reale.
Una seconda radice è quella della letteratura delle discese agli Inferi e della visitazione degli spazi celesti, dagli stessi Omero e Virgilio fino agli apocrifi biblici ed evangelici e alla letteratura popolare del Medioevo, piena di narrazioni apocalittiche ed escatologiche. La sorte dell’anima dopo la morte è una delle principali inquietudini dell’animo umano, che ha nutrito sempre tutte le religioni, tutte le vie della conoscenza, tutta la filosofia e buona parte della letteratura universale. La vita dell’uomo sulla terra è solo un modo per sondare la qualità morale del suo animo, mentre la vita vera, eterna, ha inizio solo dopo la morte, quando ognuno è chiamato dinanzi al Sommo Giudizio divino. Un’eternità di sofferenza attende quelli che hanno peccato e un’eternità di beatitudine i giusti. Dante costruisce nel suo libro un meccanismo metafisico infinitamente superiore a tutte le altre rappresentazioni degli spazi immaginari dell’aldilà, poiché include l’astronomia, la geometria, la storia reale e mitologica dell’universo e le molteplici culture umane in un’immagine totale, di una grandiosità stupefacente: la caduta di Satana fa allontanare inorridite le terre emerse all’inizio della creazione e una parte della massa spostata si solleva come una montagna nell’emisfero australe. È la montagna del purgatorio con in cima l’Eden, punto di partenza per il firmamento delle stelle fisse, oltre il quale si trova l’Empireo. Il viaggio attraverso i tre spazi si svolge a cominciare dal giorno effettivo della Passione di Cristo, il 25 marzo, ed è in parte scandito in giornate cronometrate meticolosamente, in sintonia col moto dei corpi celesti. La cartografia di ogni spazio è limpida come lo è un lucido sogno. L’inferno è un tritacarne scolastico, dove i peccati sono ripartiti burocraticamente, cerebralmente, come nei mondi totalitari. Svuotato di peccatori, è come il sogno melanconico di un Robespierre o di un de Sade. Pieno di persone, di grida, di lacrime, di fuoco e di ghiaccio, è un incubo dal quale, come diceva Joyce, non è più possibile svegliarsi. Il purgatorio specchiato in acque mai raggiunte da un essere umano (Ulisse naufraga prima di arrivarci) è elevato, di forma conica e idealmente bianco come il latte, simile al corno di un essere immaginifico, di un liocorno. L’anima soffre anche qui, ma per un tempo limitato, difatti l’apostolo Paolo dice che se l’opera spirituale di qualcuno sarà bruciata, costui perderà la sua ricompensa, tuttavia egli si salverà «come attraverso il fuoco». La speranza, negata alle anime dell’inferno, fa qui la differenza. Infine, al di sopra di ogni cosa, si erge lo splendore indecifrabile del paradiso, ricco di sottili distinzioni teologiche. Come diceva Tolstoj del matrimonio, esistono milioni di modi per angustiare la carne e lo spirito, ma ben pochi per renderli felici. Le gioie accumulate le une sulle altre sembrano una sola, e portano col pensiero ai paradisi artificiali generati da funghi psichedelici, droghe, endomorfine. Cos’è l’estasi suprema di quanti si reputano felici a fronte della voluttà religiosa della Santa Teresa della celebre scultura di Bernini, le cui connotazioni orgasmiche sono così facilmente rilevabili? Salvo che il sesso, con le sue voluttà, è estirpato completamente anche nel paradiso, essendo sostituito con la gioia di vedere in eterno il volto di Dio.
La terza radice è la passione politica di Dante e l’esilio che essa ha provocato. Oggi ci limitiamo a un’alzata di spalle riguardo alle differenze fra guelfi e ghibellini, fra guelfi bianchi e neri, al piccolo rimestio provinciale della Firenze di fine Duecento, pieno di personaggi effimeri, boriosi, stupidi, traditori, assassini, zotici, perfidi, ma in quel momento il giovane Dante, benché poeta soave dello Stilnovismo, era anche lui inserito appieno nei minuti, eterni scontri e vendette che portavano a crimini, violenze, espulsioni di intere famiglie dalle città. È strano vedere come uno spirito così elevato sia implicato in dispute tanto meschine, esse erano però tutto per il giovane Dante, e rimarranno parimenti importanti fino alla fine della sua vita. Non sarebbe esistita nessuna Commedia senza l’impegno, l’engagement totale del poeta nel suo mondo, tra i suoi simili che oggi sarebbero del tutto dimenticati se non fossero disseminati tra le fosse, le bolge, le cavità, le spirali e le costellazioni dantesche. Il libro è il frutto dell’amara sconfitta dell’uomo politico Dante, com’è pure il frutto del Dante innamorato senza speranza. La frustrazione, l’umiliazione, l’anonimato, lo smarrimento dell’esilio hanno portato, a livello compensatorio, all’invenzione di un mondo per il quale egli è il Creatore supremo, investito, come del resto quello vero, di un diritto di vita e di morte sui buoni e sui cattivi.
La quarta radice è la lingua italiana, ossia per lui il volgare fiorentino, che il poeta difende nella Vita nova e nel Convivio, e che egli plasma in modi diversi nelle sue varie opere. Sarebbe stato inconcepibile che la Divina Commedia fosse stata scritta in latino (o in qualunque altra lingua al di fuori dell’italiano). Più volte nel corso dell’ampio poema Dante deplora l’inadeguatezza delle parole a descrivere la ripugnanza, la follia, la meraviglia e la rivelazione, ma le descrive tuttavia tramite la sua ricchissima lingua a malapena emancipata del tempo, venuta fuori con cimiero e corazza, simile a Minerva, dalla Commedia. Ho letto molte traduzioni romene del poema, alcune a firma d’importanti poeti e uomini di cultura, ogni volta ho però gettato uno sguardo anche sull’originale, alla pagina di sinistra: la differenza è quella tra il cristallo e il vetro. Senza che conosca l’italiano, ho recitato spesso delle terzine dantesche, stupefatto dalla loro sonorità, a volte aspra, a volte profondamente intellettuale, talaltra gergale, in grado di seguire duttilmente il rigoroso intrico della riflessione, della deferenza e delle invettive dantesche.
La quinta radice è puramente estetica. Così come accadrà, un po’ più tardi, con Leonardo e Michelangelo, il poeta toscano vuole semplicemente mostrare di essere il migliore, migliore dei poeti dell’antichità e dei suoi contemporanei, “campione mondiale della letteratura”, come si autodefiniva, ironicamente, Hemingway. Lui questo lo sa benissimo e paventa un po’, accanto al peccato dell’invidia, anche quello della superbia, che sentiva come particolarmente forte in sé. Perché intanto, scrivendo nel doloroso esilio, Dante è il proprio unico lettore, infatti la Firenze natia gli è ostile, se non l’ha per caso dimenticato del tutto (ma di sicuro non mancheranno gli scontri). Ha però quella fiduciosa fede, per noi inspiegabile, nell’eternità dell’arte, «monumentum aere perennius», come scriveva Orazio, e nel giudizio della posterità. Noi viviamo oggi in un mondo in cui, secondo Andy Warhol, «ognuno di noi sarà celebre per un quarto d’ora», ma Dante credeva in Omero e in Virgilio, le cui opere erano sopravvissute per millenni, e non dubitava che il suo ampio retablo dei tre mondi ultraterreni sarebbe sopravvissuto altrettanto a lungo. A settecento anni dalla sua morte, vediamo come la Commedia rimane nella graduatoria di ogni persona colta fra i pochi libri significativi dell’umanità, e questo in primo luogo grazie alla sua straordinaria qualità estetica.
Non sono all’altezza di giudicare il valore teologico del poema. Nella Disputa del Sacramento, l’opera di Raffaello della Sala della Segnatura, in Va...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa. di Gino Ruozzi
  4. Introduzione. di Alberto Casadei
  5. Ringraziamenti
  6. SE TU SEGUI TUA STELLA, NON PUOI FALLIRE
  7. Prima parte. Dall’amore alla violenza alla grazia: Dante e i sentimenti umani
  8. Seconda parte. Le opere di Dante rivisitate
  9. Dante e gli Inferni moderni
  10. Copyright