I nemici della giustizia
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I nemici della giustizia

Magistratura, politica, economia: chi non vuole una giustizia uguale per tutti

  1. 228 pagine
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I nemici della giustizia

Magistratura, politica, economia: chi non vuole una giustizia uguale per tutti

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Dopo i recenti, gravi scandali, la fiducia nella magistratura come istituzione è stata fortemente compromessa, tanto da imporre un'ampia riflessione sullo stesso Consiglio superiore della magistratura e sui rapporti di potere. Nino Di Matteo, magistrato protagonista della lotta alla mafia, eletto al CSM nel 2019, rompe il silenzio. Con questo libro, sferra un attacco frontale alle tante degenerazioni del sistema giustizia in Italia analizzando, con parole finalmente chiare, il rapporto tra magistratura e potere e chiedendosi se, e come, sia ancora possibile recuperare la fiducia dei cittadini nella magistratura. In un incalzante dialogo con Saverio Lodato vengono affrontate le questioni più spinose sul tappeto: dalla riforma Cartabia con le sue storture giuridiche ai quesiti referendari; dalla degenerazione del correntismo ai rapporti distorti con la politica; dai pericoli per l'indipendenza della magistratura allo strapotere del partito degli avvocati in Parlamento. Pagine che, una dopo l'altra, esprimono la convinzione che la magistratura può e deve tornare a ispirarsi ai valori fondanti della Costituzione italiana.

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Informazioni

1

Maledizione Italia

Giudice Di Matteo, pensa che il titolo di quel vecchio film, «Solo chi cade può risorgere», possa valere anche per la magistratura?
Ne sono certo. Il re è nudo. Minimizzare, tentare di ricondurre gli scandali emersi negli ultimi anni agli appetiti di poche mele marce, sarebbe un errore imperdonabile e fatale.
I magistrati non possono sorprendersi. Non possiamo fingere stupore. Dobbiamo indignarci. Coltivare questo sentimento servirà a rinascere, per ribaltare un quadro che è il frutto di un progressivo deterioramento generalizzato, diffuso come una metastasi cancerogena nel corpo della magistratura in forme varie. E tutte pericolose: la degenerazione correntizia, il carrierismo, il collateralismo politico, la tendenza ad assecondare il sistema sulla base di criteri di opportunità politica e non di doverosità giuridica delle scelte.
Ma qualsiasi ragionamento, e la necessaria reazione, non possono prescindere da una premessa. Nell’Italia repubblicana la magistratura ha rappresentato, pagando costi inenarrabili anche con ventotto magistrati uccisi, il baluardo più esposto per la tutela dell’ordine democratico contro la spaventosa offensiva delle mafie, del terrorismo e di quei segmenti deviati delle istituzioni che da sempre hanno sfruttato la forza militare di queste organizzazioni criminali per condizionare la vita democratica del Paese. Ed è stata il principale cardine operativo per l’attuazione dei principi costituzionali, a partire da quello sancito nella seconda parte dell’articolo 3 che punta a rimuovere ogni disuguaglianza tra i cittadini.
Pretendete rispetto per la storia della magistratura? In un momento come questo non è scontato.
Mi rendo conto della sua perplessità. Ma resta il fatto che anche oggi, nonostante tutto, questo rispetto è dovuto e necessario: la storia della magistratura rimane una storia di difesa dei diritti dei più deboli contro le prepotenze fameliche delle élite dominanti, di difesa delle minoranze, dei lavoratori, del popolo. Una storia di tutela di chi non conta nulla, rispetto agli appetiti di poteri economici e finanziari privi di limiti e controlli.
Non ha l’impressione che la situazione di oggi abbia poco a che vedere con la storia della magistratura italiana che lei ci sta raccontando?
Riconoscere le patologie che si sono determinate e aggravate è doveroso. Siamo nel momento di minore credibilità dell’istituzione. Ma resto convinto che delegittimare tutta la magistratura, rappresentare l’ordine giudiziario come composto da funzionari dello Stato dediti soltanto all’acquisizione di vantaggi personali, di potere contrattuale con la politica, e persino mossi da finalità e volontà eversive, costituisca un insulto alla verità e un grave errore prospettico nell’ottica della fiducia nelle istituzioni che il cittadino deve continuare a nutrire.
Riconosce che siamo di fronte alla necessità di un’autentica rifondazione della magistratura italiana? E quanto tempo occorrerà per rimuovere macerie e detriti?
Non lo so. E non so neanche se ce la faremo. Di una cosa sono certo: la partita si gioca ora ed è ora che dobbiamo combatterla senza paura.
Ricorrendo a quali strumenti?
Al massimo dell’impegno e del sacrificio, dell’intelligenza, della capacità e volontà dei magistrati, di ogni magistrato, di guardare lealmente agli interessi dei cittadini. In altre parole, è il punto di vista, la prospettiva che deve radicalmente cambiare. Una rifondazione, come la chiama lei. La partita si sta giocando contro avversari subdoli, ben organizzati, che vogliono approfittare dell’oggettiva crisi di credibilità della magistratura per un regolamento di conti. Per vendicarsi e prevenire, da parte loro, futuri pericoli. Per ridimensionare il controllo di legalità sui metodi utilizzati nell’esercizio del potere politico, economico, finanziario, istituzionale. Si è realizzata la tempesta perfetta che rischia oggi di far trionfare chi ha interesse a salvaguardare e consolidare spazi di impunità.
A chi toccherebbe il compito di questa gigantesca ricostruzione? Agli uomini compromessi con il vecchio regime o a forze completamente nuove, fresche, non investite dagli scandali?
In tutta sincerità, da quel che vedo nel quadro politico attuale non emergono visioni di insieme, profonde e intelligenti, che si muovano nel solco del rispetto dell’autonomia della magistratura da ogni altro potere e in direzione di un rafforzamento dell’efficienza e velocità dell’apparato giudiziario. Sembra prevalere una volontà distruttiva rispetto a una reale capacità di costruire. Proprio per questo credo che la magistratura, oggetto di meritati strali e critiche fondate, debba assumere sulle proprie spalle, e sulla pelle dei suoi uomini migliori, la capacità di guidare il rinnovamento.
Nuove riforme, nuove regole, non costituiscono un armamentario troppo limitato rispetto a un’impresa del genere?
Concordo. Ho infatti parlato di metastasi. Ciò comporta che dobbiamo essere noi a far prevalere, nel nostro organismo, le cellule sane. Sono ancora tante e molto forti.
Quindi, se ho ben capito, non basteranno nuove regole, nuovi criteri di attribuzione degli incarichi, nuovi patti d’onore? Sarà invece decisiva una gigantesca iniezione di valori, di fiducia, di riscoperta della funzione alta della magistratura e dei suoi compiti e doveri?
Le due cose non si escludono. Le riforme restano necessarie, per assicurare una maggiore efficienza e velocità della macchina giudiziaria e recuperare in pieno l’indipendenza dell’autogoverno della magistratura. E non sono più rinviabili. Ma, anche così, resteremmo a metà del guado. Ciascuno di noi, in qualsiasi ruolo sia chiamato a operare, deve reagire mantenendo alte l’attenzione e l’indignazione personale e collettiva. E deve riscoprire la bellezza e l’onorabilità della funzione, girando le spalle alle sirene del potere, del prestigio personale, della corsa agli incarichi direttivi o ministeriali, alle gratificazioni scientifiche, alle ammissioni nei salotti o nei circoli del potere.
Dobbiamo ritrovare la bellezza, il fresco profumo della volontà di rendere giustizia, cercando la verità, tutelando la nostra autonomia, indipendenza e imparzialità da ogni tentativo di condizionamento che sia esterno o interno al nostro stesso ordine.
Quanto è accaduto non può essere minimizzato. E lei non sta prendendo questa scorciatoia. Non si tratta di uno scivolone, la caduta è stata un susseguirsi di precipizi, un declino costante che sarebbe autoassolutorio riferire solo a tempi recenti e recentissimi. Il sistema delle correnti (avremo modo di parlarne in maniera più ampia) viene additato in questa fase come il peccato principale della magistratura. Ma non è un peccato originario? Non va avanti così da decenni?
La degenerazione del sistema correntizio è uno degli aspetti principali e decisivi della crisi della magistratura. Le correnti, nate come centri di aggregazione culturale nel dibattito sulla giustizia, purtroppo nel tempo si sono trasformate in qualcos’altro.
Da addetto ai lavori, come descriverebbe questo sistema che ai cittadini appare ormai impresentabile?
Siamo di fronte a veri e propri centri di potere per la distribuzione «cencelliana», con il bilancino alle mani, per intenderci, degli incarichi direttivi. E sembra essere diventato questo il motore pulsante dell’attività dell’Associazione nazionale magistrati.
Siamo in presenza di gruppi agguerriti che decidono le candidature al CSM e, successivamente, persino i voti e l’operato dei magistrati che avevano contribuito a far eleggere. Un inaccettabile stravolgimento del sistema costituzionale dell’autogoverno della magistratura.
Stiamo parlando anche di magistrati di altissimo livello. Come se lo spiega?
È innegabile: molti magistrati, pur esperti e consapevoli della delicatezza della loro funzione, sia nel settore inquirente che giudicante, sia nel civile che nel penale, hanno inopportunamente cercato nella corrente, nell’adesione a un gruppo associativo, una forma di riparo e di schermo contro i pericoli insiti nella loro difficile professione. Hanno cercato un volano per alimentare e concretizzare le loro legittime e umane aspirazioni di carriera. Hanno sperato che la corrente li difendesse nei momenti di difficoltà, inevitabili nell’esercizio di una funzione tanto delicata.
Ma così facendo hanno alimentato un sistema parallelo a quello disegnato dalla Costituzione. Hanno svilito il criterio dell’appartenenza a metodo per fare carriera o per essere sostenuti e difesi nell’attività giudiziaria.
Una volta lei scatenò un putiferio scomodando persino la mafia in riferimento alla natura delle correnti. Resta di quell’avviso?
Ricordo che ricevetti critiche molto forti, anche da esponenti dell’Associazione nazionale magistrati, quando mi candidai al Consiglio superiore della magistratura. Tutto nacque dal fatto che sin dall’inizio precisai che la mia candidatura sarebbe stata autonoma e distante da ogni appartenenza correntizia. E aggiunsi che il criterio dell’appartenenza, sul quale si fonda il sistema correntizio, è simile alle logiche che regolano i sistemi mafiosi.
Non ho cambiato idea. Resto convinto che quella provocazione fosse fondata su una constatazione che non può essere negata e sottovalutata. Chi appartiene a una corrente è più tutelato, ha maggiori possibilità, impropriamente, di fare carriera. Purtroppo funziona così.
Questa provocazione ancora oggi non le viene perdonata da parecchi colleghi. Ma forse a loro volta costoro avrebbero molto da farsi perdonare agli occhi dei cittadini. Nessuno ha visto, nessuno ha parlato, nessuno ha dato l’allarme nel momento in cui la casa stava bruciando. Non è un bel vedere, dato che parliamo di ermellini, togati, sacerdoti del diritto, quelli ai quali Tommaso Campanella nella Città del Sole assegnava un copricapo di un particolare colore che li distinguesse dai comuni mortali, dai cittadini qualsiasi. Campanella era un visionario o più semplicemente oggi i magistrati non si distinguono più?
È innegabile che i vecchi mali, tornati prepotentemente alla ribalta con l’inchiesta di Perugia sul cosiddetto «sistema Palamara», dovessero essere denunciati molto prima. Non è accaduto. E ciò è molto grave. Per tanto tempo è prevalso un inaccettabile e pericoloso istinto di autoprotezione, che ha finito per rafforzare un sistema di omertoso insabbiamento di fatti che tutti eravamo in condizione di percepire. Reputo positivo il dato che alcune inchieste giudiziarie abbiano infine fatto emergere pubblicamente le patologie di quel sistema. È persino positivo che uno dei magistrati coinvolti, Luca Palamara, abbia scelto di non star zitto raccontando quello che aveva vissuto.
Non dobbiamo mai avere paura della verità. Dobbiamo affrontarla senza remore e condizionamenti di alcun tipo. Come lei mi chiedeva all’inizio, soltanto chi cade può risorgere, può rialzarsi. Invece ho la sensazione che la magistratura sia come un pugile alle corde, che tenta semplicemente di schivare i colpi più pericolosi che vengono sferrati nella sua direzione. Ma noi non siamo stati chiamati su questo ring soltanto per scansare i colpi. Dobbiamo invece reagire, parlare ad alta voce, interrogarci pubblicamente, denunciare tutti i nostri limiti, le storture del sistema, spiegando ai cittadini qual è la funzione nobile della magistratura. E senza mai pretendere sconti o indulgenze plenarie. Proprio il rispetto di quella nobile funzione ci richiede ben altro.
Mi lasci dire che non far finta di dimenticare gli scandali sarebbe già un gran passo avanti. La magistratura non può cavarsela individuando questo o quel capro espiatorio.
E aggiungo che sarebbe veramente ipocrita e ingiusto individuare in Palamara e in pochi altri coloro i quali, da soli, hanno inventato, collaudato e diretto un sistema. Il giudice Palamara è stato una pedina di quel sistema, pienamente inserita in un contesto malato, ma la magistratura farebbe un grave torto a se stessa se pensasse di aver risolto quei mali individuando e colpendo soltanto alcuni dei protagonisti di quel gioco.
A onor del vero, va anche detto che Palamara è stato una pedina che si è data molto da fare.
Lo so. Palamara è stato una pedina attiva, importante, pienamente funzionale a un ingranaggio più vasto e ben collaudato. Non l’unica. Il gioco grande della gestione del potere dentro la magistratura può fare affidamento su un consistente numero di pedine. E qualcuna di queste, mentre finge di indignarsi per convenienza, si muove sotto traccia perché nulla cambi.
La sua sta diventando un’indagine impietosa. Ma il risultato di tutto questo è che gli italiani, in fin dei conti, si sentono traditi. Ai tempi di Tangentopoli – parliamo di quasi trent’anni fa − i magistrati venivano percepiti come l’ultima chance etica, autonoma, politicamente disinteressata, in grado di spazzare via la corruzione dilagante che falcidiava la Prima Repubblica. Non dobbiamo parlare esclusivamente di magistrati contro magistrati, all’interno della magistratura. Parliamo dell’opinione pubblica. La domanda è questa: è finita in altro modo la grande stagione di Tangentopoli?
Continuo a pensare che quella stagione, legata principalmente all’inchiesta Mani pulite a Milano e a quelle sul sistema mafioso e sulle stragi in Sicilia, abbia prodotto effetti molto positivi nel contesto sociale italiano, risvegliando in tanti cittadini la passione per la legalità, per la verità, e la volontà di sostenere i magistrati che si schieravano in prima linea. Gli italiani per bene compresero che la magistratura, con inchieste che coinvolgevano politici, imprenditori, colletti bianchi e funzionari dello Stato integrati nel sistema mafioso, faceva finalmente sul serio. Intendeva restringere spazi di impunità dei potenti in ossequio al sacrosanto principio che la legge è uguale per tutti.
Che cosa si è rotto allora? È sembrato quasi di assistere a un mutamento di pelle.
Scontiamo il solito vizio italico, probabilmente, del non avere il senso della misura. Passiamo dall’esaltazione, persino dalla mitizzazione dell’attività della magistratura, come se fosse un monolite che viaggiava al livello dei suoi esponenti migliori, alla denigrazione generalizzata e alla sfiducia preconcetta.
Ne sono convinto: nella parte sana e preponderante della società italiana è ancora forte la speranza di poter riconoscere nell’istituzione magistratura il principale garante delle libertà e dei diritti di tutti, e il principale argine contro le deviazioni del potere. Tanti cittadini, al di là dell’ostile campagna mediatica in corso, non smettono di nutrire speranze e aspettative di giustizia. Sanno distinguere, proprio in un contesto avvelenato, i magistrati che continuano a fare il loro dovere, con sacrificio personale, con efficacia, con dedizione. La società italiana non ha perso la fiducia nella magistratura. È disorientata da quanto è accaduto. È sconcertata dagli scandali. Ma sta aspettando con fiducia che sia la stessa magistratura a reagire, emendandosi da tutti quei mali che ne hanno minato la credibilità.
Ma ne è proprio convinto? Quali sono i vostri indicatori?
Il fatto stesso che le procure della Repubblica siano sommerse da denunce, esposti e richieste dei cittadini, che da noi, proprio da noi, pretendono giustizia e verità, ci fa capire...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I nemici della giustizia
  4. Introduzione – Le belle storie si raccontano da sole. di Saverio Lodato
  5. 1. Maledizione Italia
  6. 2. Il demone del collateralismo
  7. 3. La politica è uguale per tutti
  8. 4. Si fa presto a dire Cartabia
  9. 5. Giustizia sì e no
  10. Conclusioni – Il passato che non passa
  11. Copyright