Figlie e ribelli
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Figlie e ribelli

  1. 384 pagine
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Figlie e ribelli

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La storia travolgente di una ragazzina ribelle in una famiglia aristocratica e piuttosto stravagante: i Redensdale, leggendari Lord del Regno Unito. Cinque sorelle che invadono le pagine dei rotocalchi e due genitori eccentrici a cui sembra volgare che Nancy scriva romanzi e Diana sposi un miliardario come Guinness, ma non aprono bocca sulla passione di Unity per il nazismo. Jessica è la pecora nera della famiglia: socialista e appassionata, pagherà un prezzo molto alto al suo generoso idealismo. Figlie e ribelli è un ritratto di famiglia, un racconto d'avventura, uno spaccato sociale del periodo tra le due guerre e una miniera di aneddoti su Churchill, Hitler e altri personaggi della scena politica e mondana. Ma è soprattutto la storia di un amore che rompe le regole sociali, sfida le convenzioni, sa essere più forte di qualunque altro legame. Un gioiello della letteratura: raffinatissimo, toccante e pieno di ironia.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2020
ISBN
9788831800884

Figlie e ribelli

A Constancia Romilly (The Donk)

Prologo

I ricordi di famiglia esercitano un fascino pressoché universale. Esistono in quasi tutte le case, riposti in soffitte o sugli scaffali più alti, una fila delle prime scarpine del Piccolo, l’articolo scritto dal Fratello e premiato sul giornale della scuola, il velo da sposa della Sorella, telegrammi sbiaditi di congratulazioni, e cose così. Quasi tutte le case riportano anche le cicatrici di chi ci ha vissuto – i segni delle pallottole del fucile ad aria compressa azionato da una mano infantile malferma, il buco nel tappeto davanti al caminetto provocato da una festa troppo allegra.
Dopo la mezza età questi trofei iniziano a riscuotere un notevole interesse, perché è allora che ci riportano a eventi dimenticati, ricordi completamente sepolti sotto una montagna di giorni ormai trascorsi, regalandoci una felicità inattesa. La prima volta che sono tornata nella casa di mia madre, nel 1955, a trentotto anni, dopo esserne stata lontana per diciannove, anch’io mi sono sentita preda dell’incantesimo. Però è vero, le testimonianze del mio passato sono diverse da quelle che si trovano nella maggior parte delle case inglesi.
Sulle finestre si vedono ancora le svastiche incise nel vetro con il diamante di un anello, e per ogni svastica sono stati accuratamente tracciati una falce e un martello. Opera mia e di mia sorella Unity, da bambine. Alle pareti sono appesi ritratti e poesie in cornice – quadretti bizzarri, fantasiosi, interessanti, alcuni minuscoli e pieni di dettagli microscopici, altri enormi e splendidi realizzati da Unity quand’era ancora giovanissima. Il ripostiglio degli Hon, dove io e Debo trascorrevamo gran parte del tempo, ha ancora lo stesso speciale odore di chiuso e la stessa promessa incantatrice di rifugio inaccessibile agli Adulti.
In soggiorno ci sono scaffali di libri di famiglia: Memories (Memorie), di Lord Redesdale, la colossale e deprimente autobiografia del nonno; Writings of a Rebel (Scritti di un ribelle), raccolta di lettere al «Times» dello zio Geoff, stampato privatamente; Out of Bounds (Fuori dai vincoli), e Boadilla: la mia guerra di Spagna di Esmond Romilly; un paio di volumi di Sir Oswald Mosley; un imponente scaffale di romanzi di Nancy, sia in inglese sia in traduzione.
I più affascinanti sono le decine di voluminosi album di ritagli di mia madre, tomi enormi accuratamente catalogati o per argomento o per periodo. Uno è consacrato per intero a ritagli di giornale riguardanti la famiglia: «Ogni volta che in un titolo vedo stampato “Figlia di un nobile”» commentò una volta in tono piuttosto triste, «so che riguarda una di voi ragazze». Un altro è una collezione delle fotografie dei matrimoni dei suoi figli. Quello di Diana con Brian Guinness, il più sfarzoso, occupa gran parte del volume e le fotografie seppia sono così grandi che entrano a fatica nelle pagine immense. Ci sono tutte le pose, Diana in dettaglio, Diana in piedi accanto al camino, Diana in primo piano, Diana di tre quarti, in tutte la stessa virginale espressione da sposa. Poi c’è il matrimonio di Nancy, con dieci paggetti in raso bianco, alcuni avvolti in scialli di kashmir per ripararsi dal freddo. Pam e Debo sono state trattate ingiustamente, perché le foto dei loro matrimoni sono davvero poche: Pam si era sposata in comune e Debo nel bel mezzo della guerra. Sepolta in quell’album nuziale c’è un’istantanea un po’ sfocata con l’etichetta «Matrimonio di Decca»: io e mio marito seduti con aria imbarazzata ma sprezzante sull’orlo di un letto sfatto in una stanza d’albergo. «Mi dispiace, piccola D., ma era l’unica che avevo» mi ha detto mia madre con voce dolce.
Guardare al passato non fa parte della mia natura, ma dopo averlo fatto ho deciso di scrivere ciò che ho visto. Immagino che questo sia il posto giusto per affermare che ci saranno inesattezze e deformazioni, perché è ciò che accade sempre quando ci si affida interamente al ricordo; d’altro canto, per un racconto come questo bisogna contare soltanto sulla propria, a volte inaffidabile, memoria.

1

La campagna delle Cotswold, antica e pittoresca, infestata da spettri e leggende, è oggi al centro delle rotte turistiche. Dopo aver «fatto» Oxford sembra quasi una vergogna non percorrere altri trenta chilometri per vedere alcuni vecchi villaggi dai nomi caratteristici – Stow-on-the-Wold, Chipping Norton, Minster Lovell, Burford. I paesi stessi hanno reagito bene a tutte queste attenzioni. Anzi, Burford è diventato una specie di Stratford-on-Avon minore, le vecchie locande sono state attentamente ristrutturate per unire le comodità moderne a un’atmosfera Tudor. Ci si può trovare anche la Coca-Cola, anche se forse viene servita a temperatura ambiente, e i negozietti sono pieni di souvenir dell’Antica Burford che riportano la scritta discreta Made in Japan.
Per qualche ragione Swinbrook, che dista solo cinque chilometri, sembra essere sfuggita al turismo ed è rimasta come me la ricordo, più di trent’anni fa. Nel minuscolo ufficio postale del paese gli stessi quattro tipi di caramelle – toffee, pastiglie agli agrumi, le morbide Edinburgh Rocks e le caramelle dure al burro – stanno ancora in vetrina negli stessi quattro grandi vasi di vetro smerigliato. Nel retro sono appese, da due generazioni, stampe dalle cornici vivaci di due bellezze vittoriane molto diverse, la prima una giovane delicata dai capelli dorati e dai luminosi occhi azzurri, le morbide spalle bianche avvolte in un drappo di gusto preraffaellita, la seconda una fanciulla dalla bellezza birichina i cui capelli neri e incredibilmente fitti ricadono in grandi riccioli regolari. Da bambina trovavo che somigliassero in maniera incredibile alle mie sorelle maggiori, Nancy e Diana. Accanto a loro, i visi innaturalmente bianchi e rosa di re Giorgio V e della regina Mary guardano ancora il mondo con occhi benigni.
Gli unici altri edifici pubblici sono una scuola con una sola aula e la chiesa. Intorno, una decina di villette in pietra grigia se ne stanno accovacciate come pecore delle Cotswold, silenziose e immutabili. Dentro la chiesa, le file di panche in quercia laccata – donate da mio padre dopo la Prima guerra mondiale, con i soldi di una scommessa vinta all’ippodromo per il Grand National – sembrano comunque troppo moderne tra quelle lastre di pietra, quei contrafforti, quelle colonne e quegli archi medievali. Lo stemma dei Redesdale, con il suo motto timidamente sicuro, «Dio si prende cura di Noi», appeso sopra le nostre panche, sembra un po’ troppo lustro e contemporaneo accanto ai monumenti funebri in pietra grigia e friabile di una ben più antica famiglia di Swinbrook, le cui statue sono lì distese e rigide da quattrocento anni.
A tre chilometri dal villaggio, sopra una collina, sorge una grande struttura grigia e rettangolare a tre piani. Lo stile non è né «moderno» né «tradizionale» e nemmeno finto antico; ha piuttosto l’aspetto pratico di un edificio schiettamente istituzionale. Potrebbe essere una piccola caserma, un collegio femminile, un manicomio privato o, in America, un country club. Nella sua breve storia, ha svolto funzioni molto simili. Si tratta di Swinbrook House, costruita da mio padre per soddisfare le necessità, com’erano valutate allora, di una famiglia con sette figli. Ci trasferimmo lì nel 1926, quando io avevo nove anni.
Swinbrook aveva per molti aspetti l’aria di una fortezza o una cittadella medievali. Dal punto di vista degli abitanti era autonoma, nel senso che non era necessario, né generalmente possibile, uscirne per occuparsi delle più comuni attività umane. Un’aula con istitutrice per l’istruzione, stalle e campi da tennis per l’esercizio fisico, sette bambini per una mutua compagnia, la chiesa del villaggio per la consolazione spirituale, le nostre camerette come corsie d’ospedale anche quando era necessaria un’operazione – c’era tutto, in casa o raggiungibile a piedi. Per gli estranei era impossibile entrarci, nella circostanza piuttosto improbabile che lo desiderassero. Secondo mio padre, gli estranei comprendevano non solo i crucchi, quei mangiarane dei francesi, gli americani, i neri e tutti gli altri stranieri, ma anche i figli altrui, la maggior parte dei conoscenti delle mie sorelle maggiori e quasi tutti gli uomini giovani – cioè l’intera formicolante popolazione terrestre, fatta eccezione per alcuni amici (anche se non tutti) e pochissimi vicini, campagnoli vestiti di tweed dalle facce arrossate, che per qualche ragione gli stavano simpatici.
Però non aveva «pregiudizi» in senso moderno. Dagli anni Trenta, questa parola ha iniziato a indicare un odio appassionato e concentrato verso determinate razze o credo religiosi, neri, orientali o ebrei; la parola «discriminazione» è diventata quasi sinonimo di pregiudizio. Mio padre non «discriminava»; anzi, in genere non era consapevole delle differenze tra diversi tipi di stranieri. Quando una nostra cugina sposò un argentino di pura discendenza spagnola, lui commentò: «Ho sentito dire che Robin ha sposato un nero».
Nancy, Pam e Diana, le tre figlie maggiori, portavano avanti un costante braccio di ferro con Farve per avere il permesso di ricevere alcuni amici. Dal momento che le piaceva avere ospiti, spesso mia madre era una loro alleata, e spesso insieme vincevano queste battaglie. Gli amici di mio fratello Tom – giovanotti robusti dai capelli chiari che Nancy soprannominava i «Biondi Tondi» – facevano eccezione; loro ottenevano sempre il permesso.
Si riteneva che per le tre figlie più piccole, cioè io, Unity e Debo, la compagnia reciproca fosse più che sufficiente. Tranne alcune rarissime visite di cugini, crescemmo completamente isolate dai nostri coetanei. Mia madre pensava che la compagnia degli altri bambini fosse superflua e troppo stimolante. Tuttavia c’era stato un periodo in cui, in alcune rare occasioni, ci avevano portato a feste di compleanno o a caccia di uova pasquali nelle case di alcune famiglie del luogo.
Ma questa limitata vita sociale si interruppe bruscamente, per non riprendere mai più, quando avevo nove anni – e fui io a causarne inavvertitamente la fine. Frequentavo un corso di danza settimanale, che si svolgeva a turno nelle case di diversi vicini. Bambinette in vestitini di organza e scialli di kashmir, accompagnate da bambinaie inamidate, venivano consegnate dagli autisti nel luogo stabilito per attendere l’insegnante, che arrivava da Oxford in autobus. Un pomeriggio fatale l’insegnante era in ritardo di un’ora e io colsi l’occasione per condurre le altre bambine sul tetto e comunicare loro alcune piacevoli informazioni, appena apprese, riguardanti il concepimento e la nascita. «E... perfino il re e la regina lo fanno!» aggiunsi in tono solenne. Quella storia riscosse un grande successo, soprattutto perché nel raccontarla non riuscii a fare a meno di inventare qualche dettaglio. Mi implorarono di continuare e giurarono solennemente sulla Bibbia di non ripetere una sola parola ad anima viva. Parecchie settimane dopo mia madre mi mandò a chiamare. Aveva una faccia da temporale; bastò uno sguardo e capii cosa doveva essere accaduto. Nella terribile sgridata che seguì, scoprii che una delle bambine si era svegliata parecchie notti di seguito in preda a urla e incubi. Era dimagrita e pallida e sembrava sull’orlo di una crisi psicologica. Alla fine la sua istitutrice le aveva estorto la verità e aveva scoperto tutto dell’orribile episodio sul tetto. (Fortunatamente per me, non rivelò che avevo tirato in ballo anche il re e la regina). Subito dopo ebbi la giusta punizione. Le mie lezioni di danza furono bruscamente sospese; tutti capirono, me compresa, che dopo quell’episodio non potevo essere considerata una compagnia adatta a delle bambine per bene. L’enormità di quel gesto sconsiderato, la portata e la durata delle sue conseguenze furono tali che anni dopo, quand’ero ormai una debuttante di diciassette, venni a sapere da una cugina più grande che a due giovanotti del vicinato era ancora proibito frequentarmi.
Io, Unity e Debo fummo abbandonate più o meno a noi stesse. Come una tribù perduta, separata dal consorzio umano, sviluppa gradualmente caratteristiche ben definite del linguaggio, del comportamento e dell’aspetto, noi sviluppammo idiosincrasie che senza dubbio agli occhi di altri bambini della nostra età sarebbero apparse un po’ eccentriche. Anche per l’Inghilterra, in quei giorni lontani di metà anni Venti, la nostra educazione non fu esattamente convenzionale. Le nostre doti, i nostri hobby e divertimenti acquisirono forme del tutto inconsuete. Quindi, a un’età in cui gli altri bambini erano occupati con bambole, sport di squadra, lezioni di piano o danza, Debo trascorreva ore in silenzio nel pollaio a cercare di imitare esattamente l’espressione di dolorosa concentrazione delle galline quando depongono un uovo, e ogni mattina controllava e appuntava metodicamente su un taccuino il numero di bambini nati morti riportato nelle statistiche pubblicate dal «Times». Io mi divertivo nell’impartire a mio padre un quotidiano Allenamento alla Paralisi, che consisteva nello scuotergli dolcemente la mano mentre beveva il suo tè: «Tra qualche anno, quando sarai molto vecchio, probabilmente ti verrà la paralisi. Ti posso aiutare ad allenarti un po’, prima, così non ti cadranno continuamente le cose di mano».
Io e Unity inventammo una lingua vera e propria che si chiamava boudledidge, che capivamo solo noi, e nella quale traducemmo parecchie canzoncine sconce (per poterle cantare senza pericolo davanti agli Adulti) e lunghi brani dell’Oxford Book of English Verse. Io e Debo organizzammo la Società degli Hon, di cui io e lei eravamo amministratrici e uniche socie. Le riunioni si svolgevano in honorese, la lingua ufficiale del club, una specie di miscuglio tra l’inglese dell’Inghilterra del Nord e quello americano. Diversamente da quanto ha affermato recentemente uno storico riguardo all’origine degli Hon, il nome derivava non dal fatto che io e Debo eravamo figli di un Honourable, ma dalle galline che avevano un ruolo così importante nelle nostre vite.1 In effetti quei volatili erano la principale fonte di reddito della nostra economia privata. Ne avevamo a decine, mia madre provvedeva al loro mangime e in cambio ci comprava le uova – una specie di variante benevola del sistema della mezzadria.
L’attività principale degli Hon era prendere in giro e sconfiggere gli Orrendi Anti-Hon, di cui Tom era il massimo rappresentante. «Morte agli Orrendi Anti-Hon!» era il nostro slogan mentre ci correvamo dietro per tutta la casa con lance costruite da noi. Inventammo un gioco Hon a cui giocavamo continuamente, «Ure, Are, Ure, Cominciare» (a subire un dolore insopportabile), gara che consisteva nel vedere chi riusciva a sopportare meglio dei pizzicotti fortissimi. Era la versione perfezionata di un gioco precedente detto «darci dentro lentamente», che consisteva nel prendere in maniera discreta la mano di una persona più grande, di solito Tom, mentre stava leggendo un libro. Con molta delicatezza, all’inizio, e con pazienza infinita, bisognava grattare in un punto. Lo scopo era far uscire il sangue prima che la vittima notasse cosa stava accadendo. «Ure, Are, Ure», invece, richiedeva la cooperazione attiva di due giocatori. Il primo doveva pizzicare il braccio del secondo, aumentando la pressione e cantando in tono lento e ritmato «Ure, Are, Ure, Cominciare» quattro volte. Il giocatore che riusciva a sopportare in silenzio fino alla quarta volta vinceva. Ci sembrava un gioco meraviglioso e non facevamo che pregare Tom, che studiava legge, perché si informasse sulla possibilità di depositarlo per lo sfruttamento commerciale – ogni volta che fosse stato giocato una percentuale sui diritti sarebbe stata versata alla Tesoreria degli Hon.
Tom, il nostro unico fratello, occupava un posto speciale nella vita di famiglia. Lo chiamavamo Tuddemy, in parte perché era la traduzione in boudledidge del suo nome, in parte perché secondo noi rimava con adultery, «adulterio». «Sei sorelle e un solo fratello! Dovete volergli molto bene. Dev’essere molto viziato» dicevano gli estranei. «Volergli bene? Vorrà dire che lo detestiamo» era la consueta risposta Hon. Quando un incaricato del censimento chiese a Debo come ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Christopher Hitchens
  4. Introduzione all’edizione del 1989
  5. FIGLIE E RIBELLI
  6. Copyright