L'Abbraccio
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L'Abbraccio

Verso una cultura dell'incontro

  1. 416 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'Abbraccio

Verso una cultura dell'incontro

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Informazioni sul libro

Questo libro è la cronaca di una scoperta, di un viaggio durato tre anni, durante il quale l'autore percorre la Spagna per incontrare una realtà fino ad allora sconosciuta: gente di oggi, che vive con valori di duemila anni fa.
Abituato a vivere in una società perennemente insoddisfatta dal punto di vista materiale e alimentata dal dolore e dall'insoddisfazione, se non dall'odio, Azurmendi entra in contatto con una presenza fondata sul dare tutto senza clamore, gratuitamente e non prestando alcuna attenzione ai benefici ricavabili, resa possibile dall'attivazione di un immenso amore per l'altro.
E scopre che questo modo di vivere genera una gioia esistenziale duratura e una grande certezza. In altre parole, qualcosa di diverso dalla nostra società, in cui l'altro è spesso percepito come portatore di incertezza e rischio.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2020
ISBN
9788831801317
1.

SINTONIZZATO CON GENTE NUOVA

Fernando

Te ne stai nel letto come un pupazzo malandato. Ci vogliono ore prima che sorga il sole. I tuoi occhi semichiusi a malapena percepiscono il chiarore oltre l’impenetrabile finestra della stanza. Anche quando non è del tutto spalancata, lasci le tende raccolte. Sei nella posizione di guardare, guardare dal tuo letto il cielo raramente stellato. Anche allora, delle sue luminarie la notte farà brandelli. Proprio adesso, qualche stella che tu non vedi sta brunendo la quercia più grande del giardino. Pensi questo per un intarsio di splendore tra le foglie. Tra lo sdraiato e il seduto su tre guanciali aspetti l’aurora. E mediti mentre attendi. Quanto tarda la notte a diradarsi, così reclusa nella cella del suo saio nero!
Hai la radio accesa. Così come le sue voci e musiche, sei interessato ad ascoltare il filino di ossigeno. Come un dolce insettino si sta trascinando dentro alle tue aperture nasali. Quell’animaletto fresco fischia nel tuo naso dalle olive fissate dietro la nuca e introdotte nelle due cavità. Un lungo tubicino di plastica trasparente si estende per diversi metri fino a uno stridente apparecchio elettrico che produce ossigeno. La radio che ascolti sembra sostenere il russare continuo ma spossato di quella macchina. È sabato e finalmente arrivano le sei. Chiudi gli occhi e ti disponi ad ascoltarlo.
Un mese di ospedale e tanti altri percependo i rumori della notte e maneggiando la manopola della radio ti hanno insegnato a scegliere una voce unica del weekend: quella di Fernando. Di primo acchito generò in te stranezza: ninnava appena, ma nemmeno aveva bisogno di addolcirsi in quella mellifluità adulatrice del conduttore radiofonico di prima mattina. Quello che ti assorda le orecchie con smancerie nottivaghe. Non strideva né tantomeno cercava di entusiasmare. Non appena la udisti, ti sembrò la voce di un conduttore da quattro soldi, che faceva un grande sforzo per accantonare una certa cadenza andalusa. Ti sorprese quanto sommamente docile fosse al compito di informare. Informare da tutti gli angoli della verità, lontano dall’ideologia, senza nascondigli falsati né esagerazioni da parrocchia. Una voce, quasi senza impalcatura ideologica. Una voce che ti sostiene nella pura ricezione e trattiene il tuo corpo nella sua percezione, fino a quasi smettere di sentirla. È una voce che lascia scorrere il programma come un buon fantino il suo cavallo docile e fresco, senza frustarlo alla guida, senza manipolare la notizia, senza affettare indignazione o dilungarsi in consigli. E non dice mai «ohohoh!» al suo cavallo per sfuggire verso la musica. E porta sempre con sé un assioma incorruttibile: «L’altro è come me, come se fosse me stesso. Che nessuno lo umili, per favore, perché lo fa a me».
Di qualunque cosa parli, Fernando ti fa capire che le relazioni sociali non sono puramente economiche, bensì etiche, e che in esse si gioca sempre il fatto che le persone vengano o non vengano usate per scopi altrui. Perciò immediatamente avverti che le sue parole fustigano la mancanza di solidarietà, i due pesi e le due misure, l’additare la pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma mai la trave nel proprio. E la menzogna, ah la menzogna e la falsità, come se ne fa beffe questa voce! Le sue notizie sottolineano quanto sia negativo che qualcuno si serva dell’altro per i propri fini. E questo in politica, nelle relazioni internazionali, e anche nell’insegnamento, negli ospedali, nei laboratori, o nelle triviali vicende della vita quotidiana. Allontanandosi dall’ideologia e dalla nevrotica ricerca di un campanilistico «noi», che addita l’altro come nemico o straniero, il suo resoconto risulta verace fino alle viscere. Risulta umano. Come se dentro di lui risuonassero le voci di gente messa in un angolo. È una voce di voci. Voci dai balconi, di donne grasse che accettano con noncuranza le loro maniglie dell’amore e adiposità, di bambini che preferiscono rimanere a casa a giocare con la sorellina piuttosto che andare a scuola, di tassisti mansi che parlano al cellulare con la moglie mentre attendono al posteggio. O voci dei clienti di un bar, dei visitatori in uno zoo, di ragazzini neri che corrono sul bagnasciuga. Da Fernando esce sempre qualche voce umana intrisa di luci, inaspettata come una riva di uccelli.
Lo scelsi per i weekend in modo irrecusabile. Dopo quasi tre anni continuo ad ascoltare Fernando dalle sei del mattino fino a quando abbandona l’emittente radio, verso le 8.25. Anch’io allora la chiudo del tutto, sia che stia trafficando in cucina, facendo i miei chilometri quotidiani sull’ellittica o passeggiando con i miei cagnolini. Allora spengo la radio e rifletto sulla foto. Perché Fernando si accomiata sempre da noi, i suoi ascoltatori, con una foto. Una fotografia tratta da qualche quotidiano del giorno, che lui ti fa visualizzare. Nelle tre dimensioni dell’ammaliante immaginazione: verità, bontà e bellezza. Si tratterà sempre di qualche immagine umana, di cui lui te ne evidenzierà un tratto. Qualcosa di molto reale, eminentemente reale. La foto di Fernando è sempre aggrappata alla realtà. E mediante la sinestesia (ossia, il contrario di anestesia), attraverso le più mansuete sensazioni, egli inizia a creare un vortice di emozioni sparse, allarmi nascosti, presenze insospettate. Con quella magia, riesci immancabilmente a scorgere qualche grande speranza. Ovvero, cominci a fidarti. In lui si trova un’intelligenza astuta, ma al contempo un prodigio di forza carnale che ti accelera la voglia di vivere. È proprio nella voglia di vivere che trasmettono che consiste l’immensa bellezza delle sue fotografie.
Esporrò due prototipi di foto, entrambi di questa settimana di marzo 2017, in cui si dà inizio alla mia scrittura. Sono stati trascritti esattamente come sono stati registrati dal mio cellulare e riporto letteralmente il discorso. Mi sarebbe impossibile trascrivere il tono caldo delle parole e della sua cadenza romera.1 Sarebbe chimerico riprodurre alcuni suoni più tonali, usciti dalla sua gola a mo’ di intenzionali e impulsive battute di ferro di cavallo, analoghe, in alcuni aspetti, alla protasi di un’antifona gregoriana. Così, per esempio, quando maledice la clientela dei postriboli, o quando insulta «quei porci» che comprano il corpo di una donna. Come potrei rendere conto qui di quei toni incerti nel crollo di alcune sue frasi che ho dovuto riascoltare tre o quattro volte? Il discorso conferiva loro il carattere di riposo nebuloso, simile in qualche modo al finale di una qualsiasi canzonetta infantile. Quell’epilogo quieto, persino muto fa sì che Fernando appaia come se stesse sprofondando la voce su una poltrona. E tu riposi completamente e mediti sulla bellezza di aver ascoltato quanto è stato detto.

Un sabato di marzo

Oggi ho scelto una foto delle pagine interne de «La Vanguardia»; è un ritratto molto particolare. I due terzi dell’immagine sono occupati da una parete imbiancata a fondo ruvido e su quella parete la luce della primavera ormai alle porte. Davanti a questa parete, una donna nera con indosso un parka nero. La donna, che si chiama Rita, si copre il volto con le mani. Sono mani dalle dita sottili, mani provate dal lavoro, mani consumate. Oggi Rita lavora come donna delle pulizie, la sua giornata comincia alle 5 e mezza del mattino.
La luce della primavera, ormai prossima, illumina con uno scintillio che sembra di speranza la fronte e i capelli di Rita. L’altro terzo della foto, un po’ sfocato, ritrae una strada trafficata che sembra una finestra su un futuro promettente. Rita è nigeriana, viene dal sud-est della Nigeria. Era parrucchiera, una parrucchiera serena fino al giorno in cui una delle sue clienti le ha rubato questa serenità con la promessa di farla arrivare in Spagna per diventare parrucchiera nel nostro Paese.
Cliente malvagia, che in realtà lavorava per una mafia coinvolta nel traffico di esseri umani!
Fu un viaggio lungo, attraverso il Niger, l’Algeria e il Marocco. A Rabat, Rita visse in condizioni di miseria e poi trascorse tre giorni in mezzo al mare senza mangiare né bere. Da Malaga viaggiò fino a Barcellona e a Barcellona non c’era né un salone da parrucchiere né nulla di simile. Lì c’era la sua cliente, quella cliente malvagia, che obbligò Rita a prostituirsi. Clienti malvagi che comprano sesso, che comprano carne sfruttata, che accettano il commercio carnale di donne trasformate in merce!
Rita rimase due anni a battere sulla Rambla. Quanto è difficile immaginarsi come si sveglia e va a dormire una, come si guarda allo specchio quando tutti i giorni ci sono quei porci che con la forza la usano come una schiava.
Perché Rita, come ogni donna, è nata per ascoltare parole d’affetto, per essere accarezzata solo con mani di tenerezza, con mani di rispetto, con mani di devozione. Mani che le ricordino che lei è il centro dell’universo e della storia. Rita, che come ogni donna è nata per questo, per essere amata con rispetto, per due anni fu maltrattata, sfruttata sessualmente. Un gesto coraggioso tirò fuori Rita dall’inferno e fu accolta in una casa di monache Adoratrici e in quella casa le parole d’affetto si tornarono ad ascoltare. In quella casa tornarono le mani di tenerezza.
Perché c’è anche una Spagna che funziona, non esistono solo lo Stato e il mercato!
E in quella casa delle Adoratrici Rita tornò a essere ciò per cui era nata: una donna amata, una donna trattata con rispetto, una donna trattata con devozione. In quella casa delle Adoratrici Rita studiò cucina e spagnolo, in quella casa ritrovò le mani di tenerezza che aveva perduto. Rita adesso vuole mettere su un salone di parrucchiera, Rita lavora da prima che il sole sorga fino a molto tardi. Rita ora risplende sotto il sole della primavera ormai alle porte.
In tutte le nostre città, su tutte le nostre strade, in tutti i nostri angoli, ci sono Rite che aspettano mani di tenerezza, mani di compassione, mani che facciano sentire le donne di nuovo come ciò per cui sono nate: che si sentano di nuovo regine, centro dell’universo, centro della storia. Ci sono donne come Rita che aspettano uno sguardo di tenerezza, uno sguardo di vita.
Vi auguro uno stupendo sabato.
Quella donna nera che il quotidiano «La Vanguardia» chiamava Rita io ho continuato a vederla, se non tutti i giorni, almeno in ogni telegiornale che ci desse notizie relative agli immigranti. In quei momenti in cui ti rendi veramente conto che altri vivono nell’inferno, mentre noi aggrottiamo le sopracciglia per continuare anestetizzati. O come se fossimo anestetizzati. In quei momenti di telegiornale in cui ti ricordano che tra l’anno 2000 e 2014 nel mar Mediterraneo annegarono ventiduemila emigranti africani. Uomini e donne come te. Per loro quel viaggio in Europa fu il più pericoloso della loro vita. Fu fatale. E ti torna in mente Rita, che non annegò e allora fu costretta a prostituirsi.

Una domenica di marzo

Oggi scelgo una foto de «La Vanguardia», è una foto che occupa due pagine. L’uomo protagonista di questa immagine ha 67 anni, si chiama Josep Borrell. È un payés (paesano della Catalogna; NdT) con barba e capelli bianchi e dimostra meno anni di quelli che ha. Posa per la foto sdraiato a terra, con indosso una maglia rossa, e posa sotto un piccolo mandorlo, non più alto di un metro, un mandorlo che è esploso in fiore e in piccoli miracoli bianchi, delicatissimi, il fiore del mandorlo che è pegno di una primavera che sta per arrivare, annuncio certo di giorni soleggiati, di campi che trasudano fecondità, di vita che rinasce. Il fiore del mandorlo è speranza nelle giornate ancora fredde, nelle giornate ancora grigie, nelle giornate ancora corte. Il fiore del mandorlo è speranza che l’estate non è lontana, che tornerà la gioia, che maggio si avvicina, che i rigori dell’inverno non sono eterni. Il fiore del mandorlo è garanzia e sostegno per quelli che, come noi, arrancano, hanno bisogno di aiuto, devono avere qualcosa davanti agli occhi per mantenere viva la speranza. Josep Borrell, il payés della foto, posa sotto il mandorlo, che è un’esplosione di promesse, un’esplosione di promesse bianche. Bianchi i fiori, bianchi i suoi capelli, bianca la sua barba. Dietro il tronco del mandorlo tramonta il sole, tramonta per sorgere nel giro di alcune ore, perché il buio non dura per sempre. Josep Borrell è un cacciatore, un raccoglitore di alberi in fiore, da 46 anni annota nel suo quaderno il momento in cui le nuove gemme, i nuovi germogli, si aprono e si trasformano in fiori: sugli olivi, sui meli, sui mandorli, sui susini e sui noccioli. Josep Borrell è un uomo di campagna, un uomo abituato a guardare, un uomo paziente che sa vedere ciò che a noi passa inavvertito. A noi, che siamo sempre intrappolati nei nostri pensieri, in quello che siamo o non siamo riusciti a fare, e stentiamo a guardare, stentiamo a vedere, stentiamo a uscire. Noi non conosciamo più la terra, ormai non sappiamo vedere e guardare altro che schermi, vedere e guardare fiori, gemme che noi stessi abbiamo fabbricato. Adesso i libretti di Josep sono stati utilizzati dagli esperti per documentare le prove del cambiamento climatico e sono stati molto importanti perché, ovviamente, innumerevoli annotazioni prese per anni e anni permettono di trarre interessanti conclusioni sull’anticipo della primavera. Certamente ha un grande merito scientifico Josep, ma in questa domenica mi piace vedere in Josep l’uomo che occorre riscattare: l’uomo che guarda, l’uomo alla ricerca di gemme che si trasformano in fiori, l’uomo alla ricerca di pegno di una speranza certa di giorni migliori.
Vi auguro una stupenda domenica.
Fernando non ha esibito nessun argomento. Solo piccoli miracoli bianchi di mandorlo. Albi come la speranza che «l’inverno non è eterno». Fiore bianco di mandorlo, icona di vita per quelli che, come noi, arrancano, questo ha detto lui. A me arrancano i polmoni, spesso arranca anche il mio fuoco mentale ma dico a me stesso che anch’io ho un quaderno come quello di Josep Borrell. Proprio questo che, appena iniziato, stringo adesso tra le mani. È domenica e il conduttore ti ha lasciato alle 8,26, meditando se sei un uomo capace di guardare e palpare la realtà, speranzoso di riscattare giorni migliori.

Javier

A Javier parlai di Fernando. Non so esattamente a che pro. Gli stavo raccontando la mia lunga degenza in ospedale e l’interminabile riabilitazione polmonare a base di esercizio fisico, assistito o meno dalla respirazione meccanica. Parlammo di filosofia e concordavamo sulla critica all’Illuminismo. Degli illuministi lui sottolineava il fatale abbandono culturale di qualunque orizzonte che non fosse empiricamente referenziale. Sosteneva che, in tal modo, si amputò alla ragione il suo ruolo di stupore davanti all’infinita vastità del reale. Io sottolineavo l’abbandono illuminista dell’orizzonte etico della perfettibilità umana dietro a un’azione virtuosa. Non mi sorprese che gli interessasse molto l’ermeneutica, specialmente Paul Ricoeur, che era stato il mio filosofo di riferimento e con il quale mantenni una corrispondenza.
Lui era di passaggio verso le Asturie con altri due amici sacerdoti. Sono soliti ritrovarsi là una volta all’anno con una manciata di compagni. Chiacchierano, pregano, vedono film e cose così. Gli consigliai Tangerines, un film georgiano-lituano, e risultò che era già tra la decina di titoli che avevano scelto di portare. E così, partendo da una guerra atroce in quell’ex Paese sovietico del film, arrivammo a parla...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Avvertenze
  4. 1. Sintonizzato con gente nuova
  5. 2. Una tribù di gente rinnovata
  6. 3. L’arte di educare
  7. 4. Bocatas
  8. 5. La bellezza disarmata
  9. 6. Gesù di Nazaret
  10. 7. Tradizione viva: trasmettere, consegnare
  11. 8. Questa grazia, cos’è?
  12. 9. Veritàe stile di vita
  13. Ci siamo!
  14. Post scriptum all’edizione italiana
  15. Copyright