BRUSUGLIO, VIA DON ABBONDIO, 5o PIANO
MOLTO TEMPO PRIMA DELLA QUARANTENA
Sono cresciuto nella periferia di Milano, la parte più esterna, l’ultima linea, la tangenziale. Zone che si chiamano ancora “paesi”, ma che l’urbanizzazione selvaggia degli anni Settanta ha piano piano trasformato in sub-quartieri della città. Troppo lontani per essere Milano (dieci chilometri da piazza Duomo), troppo vicini per avere una propria identità (da casa mia al cartello “Milano” ci sono duecento metri circa, centottanta passi). Bresso, Cormano come Quarto Oggiaro, Sesto San Giovanni come Gratosoglio, Baggio. Una terra ibrida dove tendenzialmente dormi e basta, perché la vita è in centro a Milano.
Una zona di “sconfort” apparentemente, ma con dei vantaggi. È sempre in fermento, viva, in continua trasformazione. È qui che il mondo arriva prima, il mondo vero, famiglie con usi e costumi variegati. Abbiamo più strada da fare, sì, ma anche più strade, niente di già scritto, le opportunità te le devi creare, anche se nel territorio sono poche, però hai Milano a due passi, dove c’è tutto quello che vuoi. Sei dentro al mondo e fuori dagli schemi, sei vicino a una terra fertile e nel tuo orto i solchi sono così poco profondi, che sono poche le radici che ti frenano.
Brusuglio è una frazione di questi posti. A fine Ottocento queste zone erano terra di villeggiatura: i ricchi nobili milanesi compravano terreni e costruivano ville per la loro estate. A Brusuglio venne persino a vivere Alessandro Manzoni: ereditò una villa qui e ci passò molto tempo, in fondo era solo a un’ora di carrozza da Milano. Scrisse qui Il cinque maggio, parte dei Promessi sposi, l’Adelchi (“soffri e sii grande” cit.). La mia casa è in un supercondominio tra la villa più importante della letteratura dell’Ottocento e il Parco Nord.
Il supercondominio è stato costruito per soddisfare i bisogni crescenti della nuova classe operaia degli anni Settanta e del ceto medio, pensando poco all’estetica e al design, cioè hanno fatto le cose un po’ a cazzo.
Mia mamma impiegata in una multinazionale, mio papà operaio. Il loro legame durò solo sei anni, perché papà aveva un Tinder inside che riusciva a geolocalizzare un milfone a chilometri di distanza. Mia mamma un’estate trovò una macchia di rossetto sulla sua camicia e, considerando il fatto che in reparto tra gli operai giuntisti nel ’72 non c’erano donne, esausta dai tradimenti pronunciò la frase: «Basta! Me ne torno da mia madre!». Prese me e mio fratello, uscì di casa, prese l’ascensore e si fermò al piano terra, dove abitava mia nonna.
Insomma, posso dire di essere cresciuto con genitori separati in condominio. Erano abbastanza distanti da tutelare la loro libertà, ma sufficientemente vicini per farmi girare la testa in ogni istante: «Vai di là da papà» era diventato: «Vai su da papà». Il risultato? Identico: il padre parla e il figlio non ascolta, il padre suona il figlio e il figlio capisce che conveniva ascoltarlo.
Il confine da non superare, per noi della via Don Abbondio, era via dei Bravi: fino ai dieci anni non potevo oltrepassarla, se no rischiavo le legnate, ma non da mio padre: quelle erano garantite dal suo mantra «Ricorda che quando torni ti do il resto». Erano le compagnie degli altri cortili il pericolo.
Tra tutti i cortili c’erano complessivamente oltre duecento bambini dai cinque ai tredici anni. La cosa più figa che poteva capitarti era essere ammesso alle battaglie tra quartieri, che avevano l’obiettivo di distruggere la capanna generale degli altri, solitamente costruita su un albero. Ovviamente la capanna più bella di tutte era quella di via Cadorna, perché loro la costruivano dentro la Villa Manzoni a sud.
Il campo di battaglia era il nostro condominio. Armati di sparaelastici e bussolotti, nelle sere d’estate aspettavamo gli attacchi dei rivali. Di solito i genitori ci lasciavano fare, se gli scontri si limitavano alle armi di ordinanza. Quando però si arrivava alle mani intervenivano, molte volte, più che altro, per allargare la rissa. Era il mio mondo, un Fortnite analogico. Io l’adoravo, anche quando presi uno schiaffone da un mio compagno più grande del mio stesso cortile. Gli stavo sul cazzo perché ero piccolo e lento nella ritirata, diceva che le avrei prese di brutto e per farmelo capire subito mi diede uno schiaffone dritto sul coppino.
A diciannove anni me ne andai di casa. Pensai: “Perché prendere schiaffoni solo nel cortile quando c’è tutto il mondo che ti aspetta per darteli?”.
Sono tornato a quarant’anni, quando è morto mio padre e mi ha lasciato la casa. Da quel momento in poi il mio cortile per me è stato solo il posto dove parcheggiare la macchina.
DURANTE LA QUARANTENA
Vista Giargiana. Dal mio balcone vedo la punta degli alberi della Villa Manzoni, il palazzo di fronte è distante circa un campo di calcio dal mio e sotto vedo il cortile vuoto. E il lockdown non c’entra niente. Ci sono pochissimi bambini e quelli che ci sono non giocano più in cortile, perché quello è solo un parcheggio, per tutti. E poi da sedici anni l’accesso nell’area giochi è vietato, causa disputa tra i condomini. Con il tempo, la rissa si è spostata dal cortile alle riunioni condominiali.
Affacciato al balcone c’è Giancarlo Longoni. Vive in questa casa da cinquant’anni ed è la prima volta che gli parlo. Lui è nato a Brusuglio il 30 marzo del 1930. Lo so bene perché mi racconta l’aneddoto del maresciallo: quando Longoni era a naja, un maresciallo compilò una scheda scrivendo 33 marzo 1930. Il suo capitano si accorse dell’errore e gli gridò:
«Maresciallo, venga qua! Ma questo soldato che giorno è nato?», e il maresciallo rispose:
«Il 33, capitano».
«Ma come il 33?»
«Me l’ha detto lui» rispose il maresciallo, indicando il soldato Longoni, che ribatté:
«No, mi to di’ 30-3-30, no 33».
La lucidità nel racconto del Longoni è impressionante. Mi dice che il cortile dove ho trascorso la mia infanzia prima ancora era un allevamento di conigli. Mi ha distrutto l’immagine poetica, artistica, di ispirazione letteraria che avevo di questo luogo. Io mi immaginavo il Manzoni camminare dove cammino io mentre cercava di chiudere la frase “Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro…”, ma probabilmente davanti ai suoi occhi non c’era un’effige di Napoleone, bensì una gabbia di conigli destinati al macello. Poi realizzo: quando quelli delle altre capanne ci attaccavano gridando: «Conigli conigli», figa, avevano ragione!
Il colpo di grazia. Longoni mi dice che Villa Manzoni durante la guerra divenne la base dell’esercito tedesco e che le persone qui cominciarono a mangiare quando arrivarono gli americani, prima erano solo attenti a non fare arrabbiare i tedeschi. Mi indica il Seveso, che da casa mia si vede, e dice che lì andavano a imboscarsi i “crucchi” con le amanti del paese:
«Una volta io e degli altri ragazzini avevamo trovato una bomba! Ci eravamo avvicinati dall’altra parte della riva per vedere bene due di quelli là che si stavano infrattando! E abbiamo lanciato la bomba a mano nell’acqua, e ci fu un’esplosione, ma un’esplosione che quelli là si misero a correre nudi nel parco, scappavano a gambe levate! Che soddisfazione vedere gente che fa il passo dell’oca coi pantaloni a pinguino… Eh, bei tempi…».
La cosa che mi colpisce è che li rimpiange quei tempi, eppure erano tempi di guerra. Ma per lui sono solo la sua adolescenza. Poi mi sorprende riattaccando a parlare tutto esaltato e con una freschezza giovanile:
«Qua tutti i ca...