1. Non saranno l’automazione e l’intelligenza artificiale a ridurre la domanda di lavoro umano
Verso la fine del secolo scorso, un accreditato economista-sociologo statunitense, Jeremy Rifkin, pubblicò un libro che preannunciava una crisi occupazionale spaventosa quale conseguenza diretta dell’avvento dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Questa sua previsione, però, non fu presa molto sul serio dagli economisti più autorevoli, tra i quali prevalse – e continua a prevalere – la tesi secondo cui il progresso tecnologico ha sempre portato con sé la sostituzione di vecchi mestieri con mestieri nuovi, producendo sì, nell’immediatezza, un aumento della disoccupazione, ma solo contingente, destinato poi a essere riassorbito. Altri ricercatori, tra i quali Daniel e Richard Susskind, hanno stimato nel 47% la percentuale dei mestieri condannati a scomparire o a subire profonde trasformazioni nel breve termine, ma prevedono la nascita di un numero corrispondente di nuove occupazioni.
Lungo l’Alzaia del Naviglio Grande, a Milano, si vedono ancora i piani inclinati di cemento o di pietra dietro i quali – nell’Ottocento e ancora nei primi decenni del Novecento – centinaia di lavandaie si inginocchiavano per svolgere il loro lavoro durissimo, con le mani immerse nell’acqua gelida proveniente dal Ticino. Nel secondo dopoguerra e in particolare negli anni del «boom economico» l’avvento delle prime lavabiancheria elettriche spazzò via quel mestiere, e le donne che lo avevano esercitato si riconvertirono in operaie di fabbrica, dattilografe, cameriere o altro. Dall’inizio della prima rivoluzione industriale l’innovazione tecnologica ha continuamente trasformato il modo di essere del lavoro, rendendolo al tempo stesso meno faticoso, più sicuro e produttivo. Lavandaie, tagliaghiaccio, persone che accendevano i lampioni o bussavano alle porte per svegliare i lavoratori di mattina non esistono più da tempo (forse dei mestieri di allora è scomparso persino di più del 47% la cui scomparsa è prevista dai Susskind per il prossimo futuro); ma da allora il tasso complessivo di occupazione è ovunque aumentato, non diminuito.
Il diagramma che segue mostra come negli ultimi quarant’anni, cioè da quando disponiamo di una serie di dati statistici confrontabili, l’innovazione tecnologica e la globalizzazione non abbiano impedito una crescita dell’occupazione, che in Italia è stata di oltre il 18%.
E se si guarda al mondo intero, oggi, i Paesi dove ci sono più robot sono anche quelli in cui il tasso di disoccupazione risulta più basso: la Corea del Sud, con 631 robot industriali ogni 10.000 dipendenti, rispetto ai 185 italiani e ai 74 della media globale, ha un tasso di disoccupazione intorno al 4%. E nelle nazioni più avanzate sul terreno dell’intelligenza artificiale il numero delle nuove assunzioni in questo settore ha fatto registrare una crescita fra il 100 e il 200% negli ultimi tre anni (per esempio, si è triplicato a Singapore, quasi triplicato in Australia, Canada e India).
Numero totale degli occupati in Italia dal 1977 al 2017
È molto convincente, a questo proposito, la visione dei due economisti Daron Acemoğlu e Pascual Restrepo, che interpretano la «corsa tra automazione e creazione di nuovi mestieri» come un fenomeno ciclico: ogni ventata di progresso tecnologico determina una riduzione del costo del lavoro, che a sua volta incentiva l’invenzione di nuove funzioni da attribuire al lavoro umano, donde un freno ai nuovi investimenti in innovazione tecnologica. L’interrogativo – avvertono – riguarda non il se, ma il quando e il dove dei nuovi posti di lavoro.
Certo, hanno ragione coloro che sottolineano la differenza assai rilevante tra il processo di sostituzione del lavoro umano mediante macchine, così come l’abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni, e quello a cui probabilmente assisteremo nel XXI secolo. Il telaio meccanico, il bulldozer, la lavabiancheria e il sistema di video-scrittura hanno sostituito lavoro umano di contenuto professionale medio-basso, obbligando a riconvertirsi a nuovi mestieri persone che avevano investito relativamente poco nella propria professionalità; oggi, invece, i robot dotati di intelligenza artificiale stanno rimpiazzando anche lavoro umano di contenuto professionale molto elevato, come quello del pilota di aereo o del neurochirurgo.
La rivoluzione che stiamo vivendo (per la verità più altrove che in casa nostra) non è fatta soltanto di piattaforme digitali, ma anche dell’Internet delle cose, che ha reso gli oggetti capaci di inviare e ricevere dati; dell’industria 4.0, cioè dell’automazione alimentata dallo scambio di dati negli ambienti dove si svolge la produzione non solo di beni, ma anche di servizi; e delle macchine «intelligenti», in grado cioè di prendere decisioni sulla base di informazioni che apprendono da sole. Le mansioni che oggi si possono automatizzare non sono più, dunque, solo quelle manuali, e neppure quelle riconducibili alle famose tre D – dull (noiose), dirty (sporche) e dangerous (pericolose) – ma anche di concetto, come quelle di un impiegato bancario, o che richiedono competenze ancora più sofisticate. Sono suscettibili di automazione tutti i lavori in cui ci siano dati da processare, regole chiare da applicare e la richiesta di un prodotto standardizzato. E la traduzione di immagini e suoni in informazioni digitalizzate al servizio di un robot consentirà presto di mietere vittime tra i medici, i radiologi, i revisori contabili, gli agenti assicurativi, i commercialisti, i capitani di nave.
Ora, è evidente che la riconversione di figure come queste verso altri mestieri di pari livello professionale è molto più complicata e costosa di quanto non sia stato insegnare a una ex lavandaia il mestiere della cameriera o della magazziniera. Questa sfida, però, non è affatto persa in partenza: certo, in alcuni casi la soluzione più ragionevole consisterà in un puro e semplice indennizzo dei losers, mediante un prepensionamento; ma in tutti gli altri sarà invece possibile puntare a una riconversione capace di valorizzare le conoscenze e l’esperienza anche del pilota e del chirurgo. Il robot-chirurgo, per esempio, oggi rende possibile un notevole incremento di operazioni che fino a ieri potevano essere svolte soltanto in pochissimi ospedali specializzati e da un numero molto ristretto di chirurghi; ne consegue un aumento della domanda di chirurghi di livello medio, di altri medici e di personale paramedico, per l’assistenza al maggior numero di persone che ora possono essere operate.
Questa visione ottimistica non deve in ogni caso farci dimenticare o sottovalutare un aspetto essenziale dell’intera questione: sul piano occupazionale, l’evoluzione delle tecniche applicate sta ponendo, e porrà sempre di più in futuro, il problema di una transizione dal vecchio al nuovo, sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo.
Di recente Bill Gates – che dell’argomento ne sa qualcosa – ha sostenuto che i robot dovrebbero pagare un ammontare di tasse equivalente a quello che pagherebbero le persone da essi rimpiazzate. Ma è davvero questa la soluzione?
Se negli anni Cinquanta del Novecento fosse stata messa un’imposta sulle lavatrici, essa non avrebbe giovato alle lavandaie chine sulle sponde del Naviglio Grande: avrebbe soltanto ritardato il loro passaggio a mestieri meno faticosi e più produttivi. Il problema non è di ritardare il progresso tecnologico, ma di redistribuirne i benefici e riqualificare le persone sostituite dalle macchine, in modo che possano dedicarsi ai molti lavori richiesti ma vacanti già oggi. Senza dimenticare che esiste ed esisterà sempre un’infinità di occupazioni che le macchine non potranno svolgere nei settori dell’assistenza medica e paramedica alle persone, dell’istruzione, della diffusione delle conoscenze, dei servizi qualificati alle famiglie e alle comunità locali, della ricerca scientifica, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Certo, stiamo parlando di funzioni nelle quali l’alfabetizzazione digitale sarà sempre di più un requisito indispensabile.
Per altro verso, davanti a noi non c’è solo la prospettiva dell’automazione, bensì anche quella dell’«accrescimento» (augmentation), per cui la tecnologia supporta il lavoro umano: lo arricchisce e lo rende più efficace. Sono già molte le situazioni nelle quali persone e macchine sono tra loro complementari: dalla telemedicina all’analisi di big data, dai controlli che assistono un pilota d’aereo o di veicoli speciali, allo stesso computer che sto usando per scrivere questa pagina. Sono altrettanto numerosi i casi di disabilità gravi che possono essere neutralizzate con l’uso delle tecnologie, consentendo di entrare nel mondo del lavoro a chi, altrimenti, ne sarebbe escluso: tra le soluzioni d’avanguardia oggi disponibili per i tecnici della riabilitazione si annoverano i sistemi capaci di creare una «realtà virtuale» con cui il disabile può interagire, la fisioterapia assistita da robot, le piattaforme per la tele-riabilitazione domiciliare. E qui il progresso tecnologico, lungi dall’essere penaliz...