In quell’estate orribile, la nostra vita di genitori è morta assieme a quella delle nostre due figlie. Una è stata ammazzata con l’amica del cuore dalla violenza cieca di un uomo senza pietà; l’altra, sopravvissuta per miracolo, è stata privata per sempre del suo sorriso. La nostra è stata una vita di sacrifici, fondata sul lavoro e sulla famiglia. Abbiamo insegnato ai nostri figli il rispetto per l’altro e il valore del servizio verso chi è più povero. Spesso ci chiediamo: «Perché proprio a noi questo male che ci ha travolto?». Non troviamo pace. Neppure la giustizia, in cui abbiamo sempre creduto, è stata in grado di lenire le ferite più profonde: la nostra condanna alla sofferenza resterà fino alla fine.
Il tempo non ha alleviato il peso della croce che ci hanno messo sulle spalle: non riusciamo a dimenticare chi oggi non c’è più. Siamo anziani, sempre più indifesi e siamo vittime del peggiore dolore che esista: sopravvivere alla morte di una figlia.
È difficile da dirsi, ma nel momento in cui la disperazione sembra prendere il sopravvento, il Signore, in modi diversi, ci viene incontro, donandoci la grazia di amarci come sposi, sorreggendoci l’uno all’altro pur con fatica. Lui ci invita a tenere aperta la porta della nostra casa al più debole, al disperato, accogliendo chi bussa anche solo per un piatto di minestra. Aver fatto della carità il nostro comandamento è per noi una forma di salvezza: non ci vogliamo arrendere al male. L’amore di Dio, infatti, è capace di rigenerare la vita perché, prima di noi, il suo Figlio Gesù ha sperimentato il dolore umano per poterne sentire la giusta compassione.
Signore Gesù, ci fa tanto male vederti percosso, deriso e spogliato, vittima innocente di una crudeltà disumana. In questa notte di dolore, ci rivolgiamo supplichevoli al Padre tuo per affidargli tutti coloro che hanno subito violenze e iniquità.
* * *
Dov’era Maria?
Stazionava lì, in mezzo alla folla, supplicando pietà per quell’innocente. Lacrimava, lo seguiva. Partecipava a quello strano funerale di un uomo vivo, era parte in causa del corteo: un’accompagnatrice, una frequentatrice, una poveretta, una mendicante. Fino a quel venerdì non aveva chiesto mai nulla per sé: un miracolo, un’attenzione, un gesto di riguardo. Adesso, però, chiedeva quello che tutte le madri tengono in sospeso per una vita sulla punta delle labbra: «Abbiate pietà per il Figliolo mio: è innocente, credetemi!». I piedi stanchi, le gambe forse gonfie, le vene ad annunciarsi sui suoi polpacci. Anche Lei era salita fin lassù, sul Golgota. Aveva una sua scorta personale: in caso di combattimento, la donna scorta la donna. Tre madonne le stavano giusto appresso. «Che non le succeda qualcosa di male, povera! Senti che botte danno al Figlio!» Dicendolo, si mettevano le mani alle orecchie: il dolore era sin troppo forte da immaginare, mentre l’ascoltavano.
È giusto dire che nessuno le fece lo sgambetto o qualche dispetto: «Povera crista!». La chiamavano così, col nome del Figlio, ma intanto lo battevano, incuranti della Madre. Questo è l’uomo: «Lei non sapeva che al contrario lui era venuto a cambiare l’uomo» (Charles Péguy).
Pareva non più lei, quasi che gli anni le fossero franati addosso d’un tratto, tutti assieme: una foresta di calendari volati via salendo verso la cima. Vecchia pareva, d’una vecchiaia strana; di quelle che ti rovinano addosso a causa d’una grande tribolazione. Tutti contro li sentiva: persino tra nemici si erano fatti amici pur di sbarazzarsi del Figlio. Ch’era colpevole d’aver amato troppo il mondo.
Inebetiti com’erano dallo spettacolo che andava in scena sulla montagna, pochi s’accorsero che Maria, povera crista, stava percorrendo la sua via crucis. «Prima stazione, seconda stazione, quarta stazione: Salome, quanto manca?» avrà bisbigliato all’amica, in lacrime pure lei. Giunta lassù, le aveva fatte tutte le stazioni, anche se forse non se n’era nemmeno accorta: in certi momenti, anche la testa di una mamma va in confusione. Tanti, invece, le sanno tutte a memoria le stazioni, ma non le hanno, forse, mai percorse. Dunque non è mai stata vera Via Crucis.
In cima, picconando il Figliolo, i soldati la guardavano di sbieco: aveva le guance devastate, scavate, segnate. Le lacrime avevano fatto solchi tremendi sulla pelle, come un aratro riga la terra. Gli occhi le ardevano, quasi bruciavano: non si ricordava di aver mai pianto così in vita sua. Il piangere le rinfrescava la memoria: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». Parole di trent’anni fa, dolore di oggi: «E anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35).
Se l’è fatta tutta in silenzio quella salitaccia in verticale. Addosso soltanto l’abito delle grandi occasioni: il silenzio. È lei: «Seguiva, piangeva, non capiva molto bene» (Charles Péguy). Capiva poco o nulla; l’unica cosa che capì fu che era esattamente quello il tempo di mantenere la grande promessa: «Io non ti abbandonerò mai, Figlio mio. Costi quel che costi». Il Calvario somigliava all’aula bunker di un tribunale: seduta tra la folla, alla Madre era ormai evidente che, quasi sicuramente, il Figlio non l’avrebbe scampata.
Il Figlio, torturato sulla croce, ribolliva di convulsioni, febbre, singhiozzi. A occhi chiusi, vide la Madre di traverso. Stava, stazionava, resisteva a oltranza. La mamma tiene il bambino per mano solo per un breve tempo, ma il suo cuore l’accompagna per tutta la vita: a nessuna madre dovrebbe toccare di vivere più a lungo del figlio.
A nessuna dovrebbe capitare d’accompagnare un figlio al camposanto.
A Maria è capitato: si accorse, salendo, che il Figlio non era più suo, era di tutti eccetto che suo. Nessuno, però, pareva più interessarsi di Lui, tutti presi com’erano a imprecargli contro. Lei, però, non cercava vendetta. Avesse potuto, avrebbe semplicemente chiesto un briciolo di comprensione: «Guardatelo bene! Vi sembra un criminale uno così?». Non le dettero retta, Lei andò dritta per la sua strada. Capì, senza capire come, che doveva allargare il suo grembo come una tenda. Doveva diventare madre di tutti, di vittime e carnefici: «Il diventare Madre degli uomini le sarebbe costato il suo Divin Figlio, ma era disposta a pagare un tale prezzo» (Fulton Sheen).
Queste sono le madri: gli uomini tengono sulle spalle il mondo, le donne hanno in grembo l’eterno, ch’è fondamento del mondo. Nella matta mattanza del Golgota, Maria fiutò che avrebbe dovuto diventare la madre dell’universo intero: degli impauriti, dei fuggiaschi, dei marinai, degli esploratori, delle madri senza figli e dei figli senza più madri. Dei bestemmiatori, degli adoratori. Dei naufraghi, dei poeti, di chi l’invocherà. Dei crocifissi. Dei crocifissori, di suo Figlio, dei discendenti del Figlio suo. Ho letto da qualche parte che Giuda, prima di impiccarsi, era andato a cercare Maria. L’avesse incrociata, chissà!
Si fece tutta la salita in silenzio. «Risparmiamo il fiato e la voce. La voce ci servirà dopo, quando tutto il mondo sarà afono» avrà confidato all’altra Maria. Scalò il Calvario così, come chi tiene l’acqua in bocca: Lei s’era abituata a vivere in questo modo. In tutto il Vangelo di Luca, apre bocca solo sei volte: dice una manciata di frasi eppure il mondo è aggrappato al suo coraggio. In galera conosco molti che non pregano suo Figlio ma sono invaghiti di Lei, le fanno di nascosto propositi grotteschi. Ho visto sul collo di puttane e di canaglie la medaglia con l’immagine misericordiosa di Lei, sulla pelle di bestemmiatori da trivio tatuata la sua figura a mani giunte. Ho udito miliardi di volte il nome della Madonna in bocca a uomini e donne: per collera, per stizza, per meraviglia, per una buona o cattiva notizia, per uno che cadeva e poteva essersi ferito, per una morte, per un nonnulla.
Sempre e solo il suo nome, Maria!
Resiste, Maria.
È resistente, la Madonna.
È la resistenza fatta carne.
Quando, straziato, Cristo morì, Maria, straziata, resistette sotto la croce.
Non tutte le mamme soffrono alla stessa maniera: più delicato è il cuore, più acuto sarà il loro soffrire. Morì il Figlio, non la Madre. «Se tu mi hai dato la vita» ha scritto in un tema Luca, sei anni, per il compleanno della mamma, «vuol dire che per un giorno sei stata Dio. Sei grandissima, mamma.» Capite? La mamma, da quella di Dio fino alla mia, fa tutto il possibile, sfida l’impossibile.
Spesso, però, le madri dimenticano di stupirsi per quanto questo significhi.
Dopo morto, glielo hanno rimesso in braccio: i due amici del crepuscolo, Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, appoggiarono una scala alla croce, come si appoggia la scala alla pianta, salirono, staccarono il corpo. Lo deposero nelle sue mani. Finalmente: Cristo era ritornato a casa sua, la casa da cui era partito più di trent’anni fa. Poggiato nel grembo di Maria, come una rosa appassita. Come se il Figliol prodigo fosse rientrato a Nazareth, nella culla di Betlemme.
Tra le braccia della Vergine, come poco più di trent’anni prima.
Poi – anche se non era ancora sazia di guardarselo – accettò il regalo dei due amici: lo consegnò perché fosse sepolto.
Nemmeno per un istante ho provato la tentazione di abbandonare mio figlio di fronte alla sua condanna. Il giorno dell’arresto tutta la nostra vita è cambiata: l’intera famiglia è entrata in prigione con lui. Ancora oggi il giudizio della gente non si placa, è una lama affilata: le dita puntate contro tutti noi appesantiscono la sofferenza che già portiamo nel cuore.
Le ferite crescono con il passare dei giorni, togliendoci persino il respiro.
Avverto la vicinanza della Madonna: mi aiuta a non farmi schiacciare dalla disperazione, a sopportare le cattiverie. Ho affidato a Lei mio figlio: solamente a Maria posso confidare le mie paure, visto che Lei stessa le ha provate mentre saliva il Calvario. In cuor suo sapeva che il Figlio non avrebbe avuto scampo al male dell’uomo, ma non l’ha abbandonato. Stava lì, a condividerne il dolore, facendogli compagnia con la sua presenza. Immagino che Gesù, sollevando lo sguardo, incrociasse i suoi occhi pieni d’amore e non si sentisse mai solo.
Così voglio fare anch’io.
Mi sono addossata le colpe di mio figlio, ho chiesto perdono anche per le mie responsabilità. Imploro su di me la misericordia che solo una madre riesce a provare, perché mio figlio possa tornare a vivere dopo aver espiato la sua pena. Prego di continuo per lui perché, giorno dopo giorno, possa diventare un uomo diverso, capace di amare nuovamente se stesso e gli altri.
Signore Gesù, l’incontro con tua Madre, lungo il cammino della Croce, è forse il più commovente e doloroso. Tra il suo sguardo e il tuo poniamo quello di tutti i familiari e gli amici che si sentono straziati e impotenti per le sorti dei propri cari.
* * *
Sono anni che non riesco più a recitare lo Stabat Mater di Iacopone da Todi senza sentirmi addosso lo sguardo delle mamme delle persone detenute: le incrocio fuori dalle sbarre di galera. Le contemplo sotto la pensilina attonite, mute coi loro fagotti di bucato profumato, qualche pacco di biscotti da far entrare oltre le sbarre. Senza trucchi o abiti alla moda, sotto il sole d’agosto, la nebbia d’autunno. Gli uomini che stanno dietro le sbarre sono usciti da loro, sono frutto del loro grembo: per il mondo sono delinquenti, briganti. Per loro restano pur sempre figli, carne da amare e custodire. Dietro le sbarre abitano loro, davanti alle sbarre stanno le loro madri, donne capaci di rimettere in scena ogni mattino la figura di quella Madre sotto la croce.
«Stabat Mater dolorosa»: ieri, oggi e sempre.
Le chiamano povere donne. Di loro qualcuno si intenerisce, qualche altro forse le prende in giro: eppure non cambia nulla dentro quel cuore capace solo di amare a oltranza. Perché una cosa è il delitto, altra è l’uomo che lo compie.
Il primo va condannato, il secondo va amato senza giustificarlo.
Ascoltate questa storia.
Emanuele – quello del tema, lui! – nasce il 6 maggio di quasi quarant’anni fa nella splendida Sicilia. Il 6 maggio di ventuno anni fa per lui si spalancarono le porte del carcere: la sua vita, come per ogni ergastolano, è un binario morto da abitare giorno dopo giorno, senza soccombere alla dispe...