Storia, definizione ed evidenze scientifiche
La dieta mediterranea fa vivere bene e più a lungo di qualsiasi altro regime alimentare. Il biologo americano Ancel Keys (l’inventore della proverbiale “razione K”, dotazione di alimentazione di base delle truppe americane durante la Seconda guerra mondiale), morto centenario nel 2004, ha speso la maggior parte della propria esistenza per dimostrarlo.
È partito da una domanda semplice, frutto di evidenze statistiche: quali sono le ragioni per le quali le popolazioni affacciate sul bacino del Mediterraneo si ammalano meno e vivono di più? Si è trasferito nel Cilento (in provincia di Salerno, a Pioppi) e per anni, tra il 1962 e il 1980, ha studiato le abitudini di vita degli abitanti del luogo. La risposta che ha ottenuto è quasi banale: consumare i prodotti tipici dell’alimentazione mediterranea aiuta a prevenire in modo rilevante la comparsa delle principali malattie dei Paesi sviluppati: patologie cardiovascolari, tumorali, neurodegenerative, metaboliche e gastrointestinali.
Altri studi, protrattisi fino all’inizio di questo millennio, hanno confermato le sue osservazioni epidemiologiche e, più di recente, sono stati ideati sistemi di misura atti a valutare “quanto” una dieta possa definirsi mediterranea. Il più valido è un indice che misura il rapporto tra le calorie ingerite attraverso gli alimenti in essa prevalenti (frutta, verdura, cereali, olio di oliva, legumi, pesce, vino rosso), al numeratore, e quelle provenienti da alcuni dei meno presenti (carni rosse, dolci e formaggi), al denominatore. Il numero che ne deriva viene chiamato IAM, Indice di Adeguatezza Mediterranea; sarebbe troppo complesso definirne qui il funzionamento, basti sapere che quanto maggiore risulta meglio è, e che un valore di 4 o 5 si può già considerare ottimale.
Uno degli aspetti principali della dieta mediterranea è quello di non esaltare un alimento rispetto a un altro, ma di valutarli nell’insieme, sottolineando l’importanza della loro combinazione. Infatti, sebbene siano state dimostrate, per i singoli alimenti che ne sono alla base, proprietà nutrizionali di spicco, è il concetto di “collettivo” a risultare vincente e sarebbe un errore scomporre la dieta pensando di ottenere benefici dai singoli cibi.
Facciamo qualche esempio. Naturalmente l’olio extravergine di oliva è un alimento meraviglioso. Oltre a essere squisito, contiene una quantità elevatissima di polifenoli, vitamine e acidi grassi monoinsaturi; inoltre, una vasta documentazione scientifica lo identifica come protettore nei confronti delle malattie cardiovascolari e tumorali. I legumi, per la ricchezza in fibre e antiossidanti, ci aiutano a tenere lontani i rischi di infarto. I cereali integrali sono indispensabili per far funzionare bene l’intestino e prevenire il diabete, grazie ai betaglucani e alla crusca. Ma se noi consumassimo questi alimenti singolarmente oppure li inserissimo in un contesto di western diet (la classica dieta nordamericana ricca di carne rossa, grassi e condimenti), tutti i loro “vantaggi” verrebbero quasi completamente meno. Con una metafora irriverente potremmo dire che una squadra di calcio non può vincere un torneo con un giocatore solo, per forte che sia, se gli altri non si passano mai il pallone.
Nel 2008 un ricercatore italiano, Francesco Sofi, analizzando i dati provenienti da molte ricerche indipendenti tra loro, ha potuto dimostrare che, alzando di soli due punti l’Indice di Adeguatezza Mediterranea, si riduce del 9% la mortalità totale, del 9% quella cardiovascolare, del 6% quella tumorale e del 13% l’incidenza del morbo di Parkinson e di Alzheimer. Studi successivi hanno scoperto che chi segue la dieta mediterranea soffre in minor misura di depressione, sindrome metabolica e diabete.
Perché siamo arrivati a queste conclusioni così tardi, mentre la diffusione della dieta mediterranea si sta pericolosamente riducendo?
La difficoltà di studiare i comportamenti alimentari
Effettuare studi scientifici in campo nutrizionale è estremamente difficile. In generale, quando si intraprende una ricerca sull’efficacia e i rischi di un nuovo farmaco, le strade per disegnare il protocollo di studio sono ben definite: prima va identificato un gruppo con una determinata patologia (formato da soggetti omogenei e liberi da farmaci potenzialmente interferenti), quindi lo si osserva confrontandolo con altri gruppi ai quali viene somministrato, in contrapposizione, un farmaco già noto o un placebo.
L’effetto – benefico, nocivo o indifferente – del nuovo farmaco è facilmente riconoscibile, dal momento che di solito la molecola studiata è una sola e di conseguenza ogni variazione può esserle attribuita con elevata probabilità; inoltre, i tempi per raccogliere il frutto delle ricerche raramente sono più lunghi di due anni.
Quando si studiano le azioni degli alimenti, evidentemente non esiste il modo di lavorare con una molecola soltanto. Neppure l’uso di un singolo alimento (che comunque di molecole ne contiene migliaia) è ipotizzabile: imporre a un gruppo di pazienti di mangiare una sola cosa per qualche anno e al gruppo di controllo di assumerne uno diverso o, peggio ancora, un placebo è semplicemente impossibile. Inoltre, se anche per assurdo si trovasse qualcuno disposto a farlo, i dati verrebbero falsati dagli effetti nocivi determinati dall’assunzione di una alimentazione monotematica, carente e squilibrata.
Così, l’impatto di un singolo alimento in un modello alimentare è molto difficile da analizzare. Anche per questo appare surreale il credito del quale godono, a seconda delle mode, alcune ardite pubblicazioni che esaltano un particolare cibo (a volte addirittura indicato come superfood).
Pertanto, la maggior parte delle ricerche in materia riguarda studi epidemiologici. Questi si realizzano osservando un gruppo molto vasto di individui che segue un determinato regime alimentare, lo si mette a confronto con uno o più gruppi che mangiano diversamente e si valuta il relativo stato di salute, la longevità, il ricorso a esami diagnostici eccetera. Tali studi acquistano forza solo se coinvolgono gruppi di persone molto numerosi per tempi lunghi, ma così facendo diventa inevitabile la perdita di rigore e di omogeneità nel campionamento e nella valutazione clinica.
Infine, ci sono gli studi di intervento. Questi, necessariamente prospettici, pensati e organizzati in modo preciso, servono a capire se modificando grossolanamente i regimi alimentari (per esempio, aumentando l’assunzione di frutta e verdura, o di cereali integrali, o di pesce, piuttosto che riducendo il consumo di carne rossa o bevande zuccherate) sia possibile fare prevenzione sulla perdita di peso o, addirittura, su alcune patologie.
Evidentemente, però, queste ricerche non possono essere condotte “in cieco”, vale a dire senza che il paziente sia consapevole di ciò che mangia. Ciò rappresenta un limite in termini di analisi perché l’aspettativa di un paziente che viene invitato a seguire un regime alimentare, migliore di quello che praticava in precedenza, condizionerà di molto la sua risposta: il solo fatto di pensare a come fare la spesa e cucinare, quanto e quando mangiare, modifica inconsapevolmente la sua attenzione verso il cibo e diventa difficile capire se il beneficio eventualmente ottenuto si sarebbe verificato anche mantenendo la dieta precedente (per esempio diminuendo le quantità).
Inoltre, questi protocolli agiscono quasi sempre sulla prevenzione e non sulla cura e ciò, inevitabilmente, richiede tempi di riscontro – il cosiddetto follow up – lunghissimi, anche di decine di anni, che dilatano il raggiungimento delle conclusioni, con il rischio di perdere per strada molti pazienti (il tasso di coloro che abbandonano lo studio, fenomeno chiamato drop out, non è indifferente). Quindi, anche qui, dare credito a chi consiglia comportamenti alimentari spacciando come certi i risultati provenienti, per esempio, da un solo anno di studio, è assolutamente sconsigliabile.
La piramide alimentare
Come si è accennato, il modello mediterraneo prevede un’alimentazione basata fondamentalmente sul consumo di cereali, frutta e verdura (fresca, di stagione e possibilmente locale, al massimo regionale), legumi, pesce, olio extravergine di oliva e vino rosso. Negli ultimi decenni, questo elenco è stato allargato ad altri alimenti non tipicamente mediterranei ma che per le loro caratteristiche sono certamente utili alla salute, come la soia, le mandorle e il cioccolato fondente. Non esclude il consumo di carne, latte, formaggi e dolci, a patto che siano consumati in quantità minori rispetto ai primi.
La proporzione dei macronutrienti di base dovrebbe seguire le linee indicate dai LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento dei Nutrimenti) che prevedono: 40-65% di carboidrati (al massimo un 15% di zuccheri semplici); 20-35% di grassi (10% saturi, 10-15% monoinsaturi, 5-10% polinsaturi); 10-15% di proteine. Sarebbe molto complesso tradurre queste cifre in quantità precise di consumo e pertanto, in ambito di educazione alimentare, la migliore e più efficace rappresentazione delle raccomandazioni relative ai LARN viene identificata nella piramide alimentare (figura 1 alle pagine 36-37).
L’immagine ha avuto in termini di comunicazione un successo straordinario. È infatti chiarissimo come la base sia formata dagli alimenti che devono essere consumati a ogni pasto (gradino più esteso di consumo consigliato). Subito sopra troviamo gli scalini più stretti, che identificano consumi più ridotti rispetto ai precedenti, ma ancora giornalieri. Salendo si moltiplicano i cibi da assumere in minor misura fino a raggiungere il vertice, rappresentato da quelli voluttuari.
Non viene demonizzato nessun alimento, salvaguardando la componente di gusto, piacere e tradizione, perché il benessere di ciascuno non passa solo dall’aspetto fisico; in una accezione olistica, anche l’aspetto psicologico ed edonistico sono fondamentali.
Come si può apprezzare, questo modello alimentare, non dividendo gli alimenti in buoni o cattivi, affida l’obiettivo salute alla corretta educazione. Lo fa, peraltro, con estrema semplicità: basta imparare quali sono i cibi ricchi dei nutrienti dei quali il nostro organismo, per stare in salute, non può fare a meno e quali può, o meglio dovrebbe, consumare saltuariamente. Conta dunque l’equilibrio, la proporzionalità e la varietà, perché non esiste un solo tipo di alimento – neanche un solo gruppo alimentare, in verità – in grado di fornire macronutrienti, micronutrienti e molecole bioattive in modo completo, adeguato o sufficiente.
Ogni nutriente compie una funzione specifica: i carboidrati offrono energia pronta; i grassi forniscono calorie, vanno a comporre le membrane cellulari, rivestono le fibre nervose, veicolano alcune vitamine e danno origine a molti ormoni; le proteine servono a costruire i tessuti e a permettere le reazioni chimiche cellulari. Sebbene, in caso di necessità (come nel digiuno o in altre condizioni carenziali), i nutrienti possano in parte sostituirsi gli uni agli altri, non lo fanno mai in maniera ottimale e senza conseguenze metaboliche.
Non una DOP
I vantaggi innegabili della dieta mediterranea non devono però farci cadere nell’errore di considerarla come una denominazione che identifica e delimita in modo preciso procedure alimentari afferenti a un territorio in particolare. Sebbene appaia evidente come in alcune aree del pianeta sia possibile vivere benissimo senza farvi ricorso (gli Inuit, che mangiano poca o nessuna frutta e verdura fresca, non soffrono di malattie cardiovascolari), i dati epidemiologici evidenziano che in numerose aree geografiche chiaramente estranee al bacino mediterraneo le popolazioni possono ridurre di molto alcuni rischi in termini di salute semplicemente arricchendo la propria alimentazione di cereali integrali, legumi, pesce, olio di oliva, frutta, verdura, noci e mandorle. A queste conclusioni è giunto uno studio condotto in 195 Stati per venticinque anni.
Purtroppo, altri dati ci dicono che negli ultimi quarant’anni i Paesi del bacino mediterraneo sono andati lentamente perdendo le proprie caratteristiche alimentari, sposando un modello ricco di carne o a base di zuccheri semplici e raffinati. Anche per questo motivo parlare di dieta mediterranea oggi può sembrare fuorviante in termini di identificazione geografica. Insomma, ciò che conta è la composizione, le quantità e le proporzioni di un regime alimentare, non il luogo in cui lo si sperimenta. Pertanto, la dieta mediterranea non va concepita come una definizione DOP (Denominazione d’Origine Protetta), ma al contrario può essere adottata con benefici in contesti geografici anche molto diversi, dove le condizioni climatiche e di territorio consentono la crescita e la coltivazione di prodotti congeniali alla genetica delle popolazioni residenti, rispettosi delle loro culture e tradizioni – ovvero diversi come tipologia alimentare e preparazione –, ma più o meno equivalenti in termini di composizione nutrizionale a quelli del bacino mediterraneo.
Al riguardo, è indispensabile sottolineare quanto siano importanti qualità, freschezza e stagionalità dei prodotti. Questo dato spesso viene ignorato: pur di mangiare un determinato alimento considerato salutare ci si dimentica di considerare da dove viene, quanto ha viaggiato e in che condizioni lo ha fatto, e tale considerazione è rilevante non solo al fine di ridurre inquinamento e costi.
È al momento della raccolta che ogni prodotto della coltivazione esprime il meglio di sé e offre la maggior parte dei propri principi nutritivi; poi questi si riducono o addirittura scompaiono, soprattutto se non si è prestata sufficiente cura (circostanza purtroppo assai frequente) nel rispetto di alcune regole durante il trasporto per garantire la giusta temperatura, umidità, esposizione ai raggi solari eccetera.
Si è portati a pensare che l’importanza della proporzionalità degli alimenti non riguardi il mondo vegetale, ma è una cosa del tutto falsa. Se da una parte è vero che l’eccesso di carne, dolci e fritture rappresenta un reale pericolo per la salute, anche frutta e verdura, consumati in eccesso, possono determinare disturbi gastrointestinali: per un abuso di FODMAP, ovvero l’insieme delle sostanze fermentabili, o per la presenza eccessiva di alcune sostanze chiamate antinutrienti, che interferiscono nel corretto assorbimento di minerali o di vitamine assunti contemporaneamente. È quest’ultimo il caso degli inibitori delle proteasi presenti nei legumi che ostacolano la digestione delle proteine, o quello dei fitati e ossalati che abbondano nelle verdure a foglia larga e nei cereali integrali che si legano a ferro e calcio riducendone l’assorbimento, o delle goitrine presenti nei cavoli e nei cavolfiori che interferiscono nella metabolizzazione dello iodio.
Neppure il consumo di prodotti di origine animale va demonizzato. Evidenze scientifiche dimostrano come il corretto impiego di proteine e grassi animali, oltre a fornire un necessario apporto di macronutrienti, oligoelementi e vitamine, svolga un ruolo determinante nello stimolare il senso di sazietà e ridurre l’introito calorico. In questa prospettiva, la varietà di alimenti suggeriti dalla dieta mediterranea, se assunti nelle proporzioni corrette, rappresenta il modello più salutare per le popolazioni occidentali. Probabilmente benefici analoghi potrebbero essere sperimentati anche su altri gruppi umani, ma allo stato attuale, in assenza di dati in merito, la circostanza non è scientificamente dimostrabile.
Una parola va spesa per i cereali. Dovrebbero costituire la principale fonte energetica di una sana alimentazione e al loro riguardo una maggiore conoscenza e divulgazione delle informazioni nutrizionali è fortemente auspicabile. Rappresentano infatti una gamma immensa di risorse nutrizionali (soprattutto se consideriamo quelli integrali), con potenzialità variabili secondo le tipologie, mentre sono oggetto di una irrazionale demonizzazione sia in quanto fonte di calorie (a causa dei carboidrati che contengono) sia, per una buona parte di loro e ancor più irrazionalmente, di glutine.
Una parola infine sul vino rosso. Al suo riguardo è opportuno sottolineare riserve e dubbi. Il vantaggio della sua assunzione è da ricercare esclusivamente nell’aspetto culturale e gastronomico e non in quello salutistico. I polifenoli presenti nel vino – che hanno giustificato inizialmente la sua presenza nella dieta mediterranea come teorici forieri di salute – si trovano in q...