L'Italia si è rotta
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L'Italia si è rotta

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L'Italia si è rotta

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"Il nostro è un Paese perduto. Travolto dalla cattiva politica, da partiti e governi incompetenti e corrotti dalla brama di potere. Sempre più diviso tra ricchi e poveri. Guastato dalle ruberie di personaggi pubblici e privati e dall'inosservanza delle leggi da parte di molti. In questi ultimi anni mi sono sempre più spesso domandato: che cosa ci accadrà domani? I miei ultimi lavori guardavano al passato, questo si spinge nel futuro." Con queste parole dolenti Pansa avrebbe iniziato questo libro rimasto incompiuto e nel quale descrive con ferocia l'Italia sottosopra che intravvedeva. Un Paese dove i vecchi sono le prime vittime degli effetti nefasti della crisi politico-economica. Insieme agli italiani onesti e alle donne, vittime di mariti e compagni violenti. Il Narratore è un giornalista settantenne che vive a Roma e racconta la deriva dell'Italia a cominciare dal 2020, anno bisestile e maledetto. Tra grandi bufere invernali, estati torride e una crisi economica senza uguali, l'Italia appare un territorio abbandonato a se stesso. Dove buona parte dei politici sono degli irresponsabili che urlano proclami irrealistici. Dove il degrado sociale e civile lascia gli anziani in balia di teppisti giovanissimi. Il finale è a sorpresa, perché anche nelle grandi crisi si nasconde sempre qualche fermento nuovo e inaspettato.

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Informazioni

1

Bambino della guerra

L’editore di questo libro mi ha pregato di presentarmi ai lettori con una succinta autobiografia. Gli ho replicato di aver già pubblicato molti lavori e che non credevo di essere un autore sconosciuto al proprio pubblico. Ma lui ha insistito: scrivila lo stesso, adeguandoti al contenuto bizzarro di L’Italia si è rotta. Senza inutili formalità, ma con un po’ di malizia sorprendente. Ho accettato ed ecco il risultato.
Sono nato nell’autunno del 1935 e quindi, al momento, mi sto dirigendo verso gli ottantaquattro anni. Sono un bambino della guerra. Quando è finita avevo nove anni e quasi sette mesi e l’ho superata senza danni grazie a mia madre, a mio padre e alla nonna che viveva con noi. Devo a loro se ho di quel periodo ricordi famigliari buoni e se mi hanno tenuto al riparo della tragedia che tutti, anche noi bambini, abbiamo vissuto. La guerra non escludeva nessuno.
Sono ormai un vecchio signore, con tutti i vizi della quarta età. A cominciare da quelli che riguardano le donne. Le donne sono state le figure che hanno popolato la mia infanzia e il miraggio dell’adolescenza. Poi non hanno mai smesso di esserlo.
Ai giovani d’oggi l’altra metà del cielo non sembra essere importante come era per la mia generazione. Se uno è gay è gay, e non c’è niente da fare: stravede soltanto per esseri umani del suo medesimo sesso. Si accompagna a loro, spasima per loro, affronta qualunque difficoltà per coricarsi con loro.
Per chi non sia gay, le femmine sono soltanto le partner indispensabili per fare un po’ di sesso. Mentre per me, e per molti altri maschi della mia generazione, rappresentavano l’oggetto di un desiderio che veniva prima di tutti gli altri: prima della cultura, prima dell’impegno politico, prima della ricerca della professione o di un lavoro. Era il divertimento per eccellenza.
Noi, gli anziani di oggi, siamo cresciuti sotto un unico sole: la voglia di essere accolti da una donna, di solito più adulta di noi. Da adolescente ho avuto la fortuna di perdere la mia illibatezza grazie a due signore che vivevano nel nostro caseggiato. La prima era la moglie quarantenne di un fascista repubblicano in carcere per aver combattuto nell’ultima guerra di Mussolini. Le altre donne del palazzo non le rivolgevano la parola: uno sgarbo senza un motivo, se non quello del fanatismo politico. A me invece piaceva molto, perché era sempre pallida e quando cercava di prendere un po’ di sole si sedeva in cortile e si toglieva le calze, rivelando delle gambe bianche come la neve. Non parlava con nessuno, in un caseggiato dove le donne non smettevano mai di chiacchierare da una ringhiera all’altra.
Un giorno mi fermò mentre stavo per salire la scala che conduceva al nostro alloggio. E si limitò a dirmi: «Vieni in casa mia». Ci andai. Viveva in due stanzette davvero povere. Una faceva da soggiorno e da cucina. L’altra era la camera da letto. Su una parete campeggiava un ritratto della Madonna. Si girò dicendo: «È bene che Maria non veda quello che stiamo per fare». Poi iniziò a spogliarsi e mi ordinò: «Devi farlo anche tu». Mi afferrò e mi aiutò a entrare dentro di lei.
La seconda donna era una sarta cinquantenne, trascurata dal marito. Aveva una passione per un politico socialista che si chiamava Umberto Calosso. Oggi pochi ricordano chi fosse questo personaggio: un astigiano di Belveglio che, mentre infuriava la Seconda guerra mondiale, parlava da Radio Londra. Un giorno la sarta mi chiese se sapevo chi fosse questo Calosso. Le dissi tutto quello che conoscevo sul suo conto. La sarta rimase sorpresa e mi premiò facendomi entrare nel suo letto. Era una vera porcella e mi insegnò tutto quello che dovevo sapere per soddisfare una signora.
Non era una sessuologa, ma conosceva che in qualsiasi maschio si nasconde una femmina. E lo stesso accade alle donne: molte vorrebbero essere un maschio e desiderano coricarsi con un’altra femmina. La sarta mi obbligò a prendere atto del lato segreto di me stesso. Lo fece costringendomi a indossare indumenti intimi da femmina, poi mi saltò addosso, mandandomi in estasi. Alla fine di quell’incontro bollente, mi disse: «Giampa, non dimenticare mai quanto ti è accaduto in questo pomeriggio. Ti servirà per non fare il fanciullo sciocco il giorno che incontrerai una donna che mi assomiglia».
Poi mi diede un consiglio che non ho più dimenticato: «Quando andrai a caccia di femmine, devi dedicarti soprattutto alle signore che vengono considerate anziane, quelle tra i cinquanta e sessant’anni. Ti saranno grate delle tue attenzioni e ti serviranno a dovere. Non pensare che siano ormai prive di desideri. Ne hanno, eccome! Scoprirai che sono delle amanti fedeli, pronte a soddisfarti senza chiedere nulla in cambio. Non ti tradiranno mai. Riveleranno di essere delle porcelle sgenate e al tempo stesso delle mamme. Disposte a obbedire a qualsiasi tuo ordine. I loro corpi saranno un po’ consunti, ma la loro sensualità si rivelerà intatta. E la metteranno tutta al tuo servizio».
Entrambe le donne mi aiutarono a uscire dalla minore età. E da loro appresi un principio che in seguito ho realizzato. Per essere accolto da una donna dovevi essere gentile, buono, altruista, sempre disposto ad aiutarla. E dopo avere ricevuto quanto cercavi, era sbagliato dimenticare il regalo che ti era stato fatto e, se possibile, dovevi ricambiarlo.
Mi sono sempre comportato così. E senza essere un dongiovanni o un superdotato, di donne ne ho incontrate molte. E le ho amate tutte, per periodi lunghi o brevi. Sono anche stato un marito infedele. E ho avuto due amanti che si presero cura di me a lungo: una ragazza molto giovane e una signora sposata, oggi scomparsa per una malattia che non dà scampo. Anche da loro ho avuto ben più di quanto ho donato. Lo stesso posso dire della mia moglie di oggi: Adele.
A lei devo la vita. Dopo la morte improvvisa del mio unico figlio, un uomo di cinquant’anni, un esperto di finanza e della gestione di grandi imprese industriali, confesso che ho sperato di morire anch’io. Anzi ho pensato di farlo. Con una piccola pastiglia di cianuro che avrei potuto procurarmi con la complicità di un farmacista. A salvarmi è stata Adele che mi ha dato una nuova ragione di vivere e di lavorare.
Questo libro è il risultato di racconti molto diversi tra loro. Storie vere, storie inventate, storie a metà tra le prime e le seconde. Che cosa mi ha spinto a scriverlo? L’abisso nel quale sta precipitando l’Italia, la mia patria.
Il nostro Paese è perduto. Travolto dalla cattiva politica, da partiti e governi incompetenti e corrotti, sempre più diviso tra ricchi e poveri, guastato dalle ruberie compiute da personaggi pubblici e dall’inosservanza della legge. In questi ultimi anni mi sono sempre più spesso domandato: che cosa ci accadrà domani? I miei ultimi lavori guardavano al passato, questo si spinge nel futuro. Ho ceduto al fascino della fantapolitica? No, mi illudo di avere scritto qualcosa che la supera. Ho mescolato le carte e adesso prego i lettori di non giudicarmi con eccessiva severità.
Anche alla mia età non più verde mi piace sempre scrivere, seguendo i percorsi suggeriti da una fantasia che ancora non si è spenta. Non ho paura del mio domani. Una volta superata la barriera degli ottanta, che cosa mi può accadere? Nulla, tranne che morire. Mi terrorizza una cosa sola: perdere la memoria. Però sono troppo vecchio per beccarmi una malattia che sembra diventata di moda e che rinchiude nella prigione della demenza senile uomini e donne che diventano incapaci di ricordare persino il loro nome e le persone care.
Oggi la mia regola di vita è diventata: non pensare al domani, vivi giorno per giorno e rispetta con gratitudine chi ti vuole bene. A cominciare da mia moglie Adele. Speravo di avere accanto a me anche mio figlio Alessandro. Non so dire se a lui questo libro sarebbe piaciuto. Come tutti i figli unici maschi era sempre molto severo sui risultati del mio lavoro. Ma lui non c’è più. Ha lasciato un grande vuoto dentro di me. E adesso ho l’obbligo di parlarne.
2

Lettera al figlio

Caro Alessandro, la tua scomparsa improvvisa mi ha costretto a prendere atto di alcune verità. La prima è che nella vita di tutti i giorni può accadere ciò che di solito avviene quando c’è una guerra. Che cosa succede in una nazione coinvolta in un conflitto? L’ho visto con i miei occhi di bambino negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale: a morire sono sempre i giovani, mentre gli anziani la scampano. Insomma, la guerra rovescia lo stato naturale delle cose. Ma può accadere così anche se il mondo si trova in pace.
Te ne sei andato a cinquantacinque anni. Mentre io sono ancora vivo quando ne ho ottantatré compiuti da poco. Ti confesso che più di una volta mi sono domandato: perché il Padreterno non ha preso me, invece di te? Lo so, è una domanda senza senso: il perché lo conosce soltanto Lui. E anch’io avrei inflitto un grande dolore alla persona che amo di più al mondo: la mia cara Adele. Ma l’ho pensato e credo che ci metterò del tempo prima di non chiedermelo più.
In compenso ho scoperto che esiste l’infarto posteriore o dorsale. Come mi ha spiegato il mio vecchio cardiologo, corrisponde a una fucilata improvvisa che ti uccide in pochi istanti. Di solito colpisce soggetti tra i quaranta e i cinquant’anni, spesso maschi, che non hanno mai avuto problemi cardiaci. Pensano di essere del tutto sani e invece muoiono nel volgere di pochi istanti. Il professore mi ha rivelato che, per sua fortuna, la vittima di quel colpo di fucile non si accorge di morire. Avverte soltanto un grande dolore alla schiena e al torace. Poi se ne va all’altro mondo.
Dopo la tua scomparsa, mi sono reso conto con gioia che avevi una vita intensa di affetti e di amicizie forti. Non la conoscevo anche se eri il mio unico figlio. Accanto a te c’era un gruppo di amici, molto compatto e solidale. In parte erano stati anche loro allievi del liceo classico Manzoni che avevi frequentato a Milano, in parte erano allievi di altri licei della città. Tutti professionisti affermati, nella finanza, il tuo campo di attività, nelle banche e nella grande editoria libraria. Stavate bene insieme. Il lavoro che avevate scelto vi piaceva. Non so dire quali fossero le vostre opinioni politiche, di cittadini che sanno di vivere in una nazione complessa, ma le credo simili tra loro. Però ammetto che, tra amici, questo può essere un problema secondario e la mia deformazione professionale lo ingigantisce senza motivo.
In questi giorni di lutto, un mio amico mi ha chiesto come tu la pensassi a proposito dei partiti italiani. Non ho saputo rispondergli, anzi non ho voluto. La memoria mi ha restituito soltanto l’Alessandro all’età di sedici anni, quando si era preso una cotta politica per Sandro Pertini, diventato presidente della Repubblica nel 1978. Avevi addirittura imparato a memoria il suo discorso d’insediamento. Allora lavoravo a «la Repubblica». Il direttore, Eugenio Scalfari, l’aveva detto al presidente e lui ti aveva invitato al Quirinale insieme a me. Quel giorno eri davvero soddisfatto!
Pertini lo ritrovasti ad Alessandria, dove era stato invitato da Roberto Cassola, un senatore socialista mio amico, oggi scomparso anche lui. Fu una giornata indimenticabile. Davanti a un mare di gente festante, il vecchio Sandro esordì dicendo: «Cittadini di Vigevano, è la prima volta che vengo nella vostra bella città sul Ticino…». Noi due giornalisti chiamati a intervistarlo, Gianfranco Piazzesi del «Corriere della Sera» e il sottoscritto, pensammo: adesso la piazza ci lincia! Invece tutto si risolse in un applauso interminabile per il vecchio partigiano.
Non so dire se i tuoi figli, Giacomo e Angelica, conoscano questo episodio. Ma quel che conta è la fortuna di avere avuto un padre sempre molto sollecito, anche se immerso in un mare di impegni. Da adolescenti non esitavano a criticarti e io la consideravo una prova che insieme a tua moglie Costanza eravate stati capaci di crescerli da ragazzi liberi, senza soggezioni. Così la penso ancora, pur riconoscendo di aver saputo poco della tua vita privata e famigliare.
E adesso mi inoltro su un terreno minato. Dove incontro un lato importante del tuo carattere. Eri un uomo consapevole delle proprie capacità e dunque molto tenace nell’affrontare le sconfitte momentanee. La più dura emerse nel 2014 quando il governo di Matteo Renzi, insediato da qualche settimana, mandò via i capi di tutte le aziende partecipate dallo Stato. In quel momento eri l’amministratore delegato della grande Finmeccanica. Conoscevi tutto di quel gruppo poiché ci lavoravi da dodici anni, salendo gradino dopo gradino.
Da un anno, dopo che era scoppiato il terremoto giudiziario che aveva eliminato ben due numeri uno dell’azienda, avevi preso il loro posto. E, insieme a un gruppo ristretto di giovani dirigenti, ne avevi retto il timone con mani salde. Con me non parlavi mai della tua caduta, ma avvertivo l’amarezza mista a rabbia. Un giorno mi spiegasti: «Mi hanno cacciato senza neppure dirmi grazie!».
Del resto perché mai quel governo e quel premier avrebbero dovuto riconoscere il tuo lavoro? La politica era ormai diventata un mattatoio di bande che si azzannavano. Però quello che io non ho sopportato allora, e continuo a non sopportare adesso, è la vergogna che mi suscita un Paese che sceglie chi è fedele a un boss ed è magari mediocre, mettendo da parte i migliori. Tu, Alessandro, eri tra questi. Eliminato nel pieno della maturità intellettuale e professionale, com’è accaduto e accadrà ancora a molti altri. Un danno immenso per le sorti di questa Italia senza pace.
Come avrei potuto proteggerti, figlio mio? Nel mondo della politica non avevo amici importanti e mi ero fatto la fama di essere un qualunquista anarchico. Inoltre sono stato da sempre un padre ingombrante anche perché mi ostinavo a scrivere articoli e libri scomodi, pur avendo già superato l’età della pensione. Ingombrante e spesso assente. Ecco un’altra scoperta: non ho mai conosciuto il tuo giudizio sul mio lavoro. Soltanto negli ultimi anni, da quando ero passato prima a «Libero» e poi alla «Verità», tu compravi il giornale la mattina della domenica e nel pomeriggio mi telefonavi per dirmi che cosa pensavi del Bestiario.
Oggi mi rendo conto che in realtà la mia professione non ti attirava, come invece sembra accada a molti figli di giornalisti. Anche da piccolo mantenevi delle riserve sul mio conto. Mentre frequentavi le elementari pubbliche di via Crocefisso a Milano, arrivò una nuova maestra che volle conoscere la professione paterna di ciascuno degli alunni che le erano stati affidati. Quando arrivò il tuo turno, la maestra commentò: «Il famoso giornalista!». Tu replicasti, scettico: «Famoso? Dipende…».
Sempre alle elementari, consegnasti il tema che mi riguardava: «Mio papà fa il giornalista e, quando ritorna a casa la notte, svuota il frigorifero». Infine per tua madre Lilli nutrivi un amore sconfinato. Era la tua Ginevra e tu eri il suo Artù, mentre io, finché sono rimasto in casa, ero un cavaliere della Tavola rotonda. Con la tua partenza, quel mondo è finito del tutto.
Da parecchio, la notte non traffico con il frigo. Cerco di dormire. E ci riesco soltanto perché mi accuccio addosso al fianco di Adele. Cerco di non pensare che tu, caro Alessandro, te ne sei andato chissà dove. E ti confesso che ho il terrore di sognarti.
Però, mio bel fieu, mio bel ragazzo, ti accoglierò sempre a braccia aperte. O con un cazzotto sulla spalla. Come facevo quando venivi a trovarci nella nostra casa in Toscana. Mi piacerà ascoltare di nuovo la tua voce che mi dice: «Fai bene a scrivere contro questi nuovi politici che stanno portando il nostro Paese al disastro». Ritroveremo così quell’intesa che a volte ci è mancata. Ti voglio bene.
Il tuo papà

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. A chi legge. di Adele Grisendi
  5. L’Italia si è rotta
  6. 1. Bambino della guerra
  7. 2. Lettera al figlio
  8. 3. Il Narratore
  9. 4. Signore del Quarantasette
  10. 5. Le donne e la guerra
  11. 6. La sottana tentatrice
  12. 7. Ambiguità
  13. 8. La moldava
  14. 9. Salone di bellezza
  15. 10. Matrimoni imprevisti
  16. 11. Morte di Berlusconi
  17. 12. Il delitto Mauro
  18. 13. Nuovo terrorismo
  19. 14. Il vizietto del senatore
  20. 15. La Tenda rossa
  21. 16. La caccia ai vecchi
  22. 17. La rivolta dei Forconi rinati
  23. 18. La Padania austriaca
  24. 19. Il Soviet di Bologna
  25. 20. Putin sconfitto in Versilia
  26. 21. Sequestri di persona
  27. 22. La Casta si dissolve
  28. 23. Capodanno in camicia da notte
  29. 24. Un generale premier
  30. 25. L’emiro innamorato
  31. 26. I mercatini della povertà
  32. 27. E adesso basta
  33. 28. Il Partito delle Donne
  34. 29. La Lega delle badanti
  35. 30. La ribellione del couscous
  36. 31. La premier nera
  37. Progetto
  38. La Turandot di Giampaolo Pansa. di Pietrangelo Buttafuoco
  39. Copyright