Storia e politica
eBook - ePub

Storia e politica

Novecento secolo delle tenebre

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Storia e politica

Novecento secolo delle tenebre

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Partendo dalle ambiguità che ancora avvolgono la vulgata tradizionale della storiografia del Novecento, Mieli esamina in questo libro i nervi scoperti di un secolo complesso e ricco di contraddizioni e mette in guardia dalla tentazione di forzare l'analisi dei fatti per far quadrare i conti sull'oggi. Dalla Prima guerra mondiale al fascismo, dalla Resistenza agli anni della contestazione, l'autore dà spazio a eventi e figure spesso lasciati ai margini della "memoria ufficiale": sfilano così tra gli altri in queste pagine l'attentatore anarchico che nel 1926 cercò di uccidere con una bomba Mussolini, i giovanissimi che, pur sapendo di stare dalla parte dei vinti, si arruolarono nell'esercito di Salò, i comunisti italiani che finirono nei gulag di Stalin. Con rigore e obiettività, Mieli affronta le zone d'ombra delle versioni imposte dai vincitori e mostra perché solo una discussione onesta e imparziale può far nascere una coscienza pubblica capace di cementare lo spirito civico del nostro Paese.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Storia e politica di Paolo Mieli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storiografia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831803601
Argomento
Storia
Categoria
Storiografia

Passato e presente

La memoria e l’oblio

È Ulisse la chiave giusta per entrare nella stanza misteriosa in cui si parla della memoria e dell’oblio? Chi meglio del figlio di Laerte può guidarci nella selva intricata in cui si può provare a disfarci della memoria? Attenzione però, in questo inizio di millennio l’espressione «disfarsi della memoria» è considerata alla stregua di una bestemmia. Sono ancora troppo recenti i lutti del secolo che si è appena concluso: chi vuole smettere di ricordare, abbandonarsi all’oblio, è guardato con sospetto. Eppure l’oblio ha una sua nobiltà, un suo posto nella storia dei miti e della grande letteratura per cui non può essere ridotto a contraltare abietto del ricordare. Per i greci antichi, Esiodo, Pindaro, la divinità della dimenticanza, Lete, formava una coppia di opposti con Mnemosine, la dea della memoria. Quasi a sottolineare che c’è una profonda connessione tra saper dimenticare e saper ricordare. Lete è poi – come ricordano i lettori di Virgilio, Dante e John Milton – il nome di un fiume degli inferi a cui le anime si abbeverano per liberarsi della loro precedente esistenza e poter quindi tornare alla vita in un nuovo corpo.
Riprendiamo, dunque, l’oblio nella dovuta considerazione. E, attraverso le prime pagine di un libro di Harald Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, lasciamoci guidare in quei canti dell’Odissea – dal nono al dodicesimo – nei quali Omero più di una volta si sofferma su questo tema. Nel settimo canto, Ulisse era giunto naufrago sull’isola dei feaci dove la figlia del re Alcinoo, Nausicaa, lo aveva accolto con onore, rifocillato e gli aveva armato una nave per poter ripartire in direzione di Itaca. Nella festa che precede il ritorno sui mari, Ulisse si lascia convincere a raccontare la sua storia. Ed è qui che entra in campo l’oblio. Nel nono canto Ulisse riferisce di quando la sua flotta composta ancora di dodici navi approda alla terra dei mangiatori di loto. Il loto è un frutto dal gradevole sapore di miele che procura il «dolce oblio» a chi lo mangia. Alcuni suoi marinai lo assaggiano e non vogliono più ripartire. L’eroe omerico li strappa alla beata ebbrezza e li riconduce a forza sulle navi. Qui, a dispetto delle loro lacrime, li incatena alle panche dei rematori e riprende il largo.
Nel decimo canto è la maga Circe che, prima di trasformarli in maiali, dà agli uomini di Ulisse una «fatale droga» che procura l’oblio. Solo grazie a un antidoto fornito da Ermes, il nostro riesce a rendere innocua la bevanda magica. Ma Circe riesce lo stesso a vincerlo con un incantesimo d’amore anch’esso legato in modo molto evidente all’oblio. E Ulisse rimane un anno intero su quei lidi, immemore del passato e con ciò indifferente al futuro. Ripresa la navigazione, Ulisse si imbatte una terza volta nella tentazione dell’oblio. È la ninfa Calipso a usare, come Circe, l’arma dell’amore. Stavolta però gli anni in cui l’eroe, cibandosi di nettare e ambrosia, rimane paralizzato e dimentico dei suoi destini sono sette. Sarà di nuovo Ermes, spedito da Zeus, a strapparlo da quella quiete prolungata e a rimetterlo sulla via dei mari.
Fin qui gli episodi legati al duro confronto con la tentazione dell’oblio. Ma nell’undicesimo canto dell’Odissea c’è qualcosa di più: il vaticinio di Tiresia su cui da sempre i lettori del poema si interrogano, il cui scopo trasparente è quello di dare un senso a tutte le peregrinazioni di Ulisse. Il veggente tebano annuncia al figlio di Laerte, come compimento della sua missione, un ultimo viaggio verso la terra che non conosce il mare, le navi, i remi, il cibo condito con il sale; terra che lui sarà in grado di riconoscere quando incontrerà un altro viandante che scambierà il suo remo per una pala da grano. Lì potrà finalmente incontrare la morte, una morte misteriosa che assume significato proprio perché lontana dalle acque del mare.
La profezia di Tiresia era il punto d’origine da cui si era dipanato L’ombra di Ulisse, un interessante studio di un anglista italiano, Piero Boitani. In seguito Boitani è tornato sul tema pubblicando Sulle orme di Ulisse, un gran bel libro in cui mescola con eleganza e spessore il racconto della sua vita personale di «maniaco» del mito di Ulisse con riflessioni e approfondimenti sull’eroe di Omero e sul protagonista del romanzo di James Joyce. È la storia di un cinquantenne (Boitani, appunto) che da bambino si imbatte in un libro non famosissimo, il Romanzo di Ulisse di Luigi Ugolini, e resta folgorato dalla profezia di Tiresia che gli si deposita nel subconscio cosicché, senza esserne consapevole, trascorre gli anni della giovinezza e della maturità a cercare di capirne il significato.
Com’è noto, l’Odissea si conclude con la vittoria di Ulisse a Itaca, terra tutt’altro che lontana dal mare e dove neanche uno degli abitanti potrebbe mai confondere un remo con una pala per il grano. Talché il vaticinio di Tiresia è stato spesso considerato come un finissimo artificio retorico per annunciare che la peregrinazione di Ulisse sarebbe ricominciata di lì dove finiva l’Odissea alla volta di «una meta che non c’è». Un modo per dire che il senso di quel viaggio è in sé, nell’incontro – favorito dal movimento – tra civiltà diverse che si donano l’un l’altra qualcosa, nella sfida che spinge costantemente l’uomo verso il nuovo, verso l’ignoto. Questa sarebbe l’essenza della sofferente modernità di Ulisse. Ma, forse, in quella profezia c’è, come vedremo, qualcosa di più profondo.
Torniamo però, in compagnia di Boitani, «sulle orme di Ulisse». Con una misura tutta anglosassone, l’autore ripercorre episodi della sua vita di docente universitario, dai primi passi alla successiva affermazione, tra l’Italia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone, Israele. Sempre imbattendosi in tracce dell’eroe omerico. Una sottile ossessione in cui sono coinvolti i suoi genitori, sua moglie, i suoi figli. Il tutto, beninteso, sul registro dell’understatement, dell’autoironia. «Ho tentato» afferma «di fornire alcune risposte parziali e passeggere sfiorando un tema sostanziale: è possibile vivere il mito? Possono l’esistenza e il lavoro di un uomo d’oggi, alle soglie del Duemila, prendere forma dallo stupore di un racconto antichissimo?» «Quel che mi interessa ora» continua «è cercare di capire se un mito può influenzare, o interagire con la vita di un singolo individuo, che è cosa... quasi inafferrabile.» La sua Penelope è la moglie Joan, irlandese come la Molly Bloom di Joyce. La sua personale terra del Loto la trova in un college dell’Ohio nei primissimi anni Settanta. Il suo è poi un costante viaggio di ritorno verso Roma, città nella quale individua «fitti legami» con l’eroe omerico e dalla quale, comunque, altrettanto costantemente si allontana.
«Per esplorare questa zona d’ombra» specifica Boitani «non posso che utilizzare la vita che conosco meglio, la mia, garantendo soltanto aderenza divertita e dolorosa ai fatti, che sono veri, e per i quali sono pronto ad esibire le prove.» «In questo libro, le storie e le memorie sono dunque personali, e inevitabilmente mescolate alle riflessioni sui testi che ho attraversato. Si tratta insomma di un racconto autobiografico dai tratti saggistici, composto da uno che conosce fin troppo bene i segni della fiamma antica: dell’intossicazione letteraria che domina chi si dedica al mito e alla poesia.»
Per spiegarsi meglio, Boitani si rifà a una riflessione di Thomas Mann. A proposito di uno studioso viennese di scuola freudiana, Ernst Kriss – che si era cimentato con il tema di come le biografie antiche accogliessero nella storia dell’eroe atteggiamenti ed eventi fissi, ordinati secondo uno schema tipico, secondo la veridicità del «come è sempre stato», «come sta scritto» – Thomas Mann si era soffermato sui meccanismi che regolano il «ritrovare l’antico nel nuovo», il «vivere la vita vissuta, la vita come imitazione e citazione», il «ricalcare le orme». Vivere la vita nel mito consente di fondere il presente con il passato più remoto, con l’eterno e con ciò che si ripete. «Mito è infatti fondazione di vita,» scrive l’autore di Giuseppe e i suoi fratelli «è lo schema senza tempo, la formula religiosa in cui la vita, dopo aver attinto dall’inconscio i tratti del mito e averli riprodotti, confluisce.»
Boitani si inoltra coraggiosamente lungo questi sentieri. Fermandosi a riflettere al crocevia in cui il percorso di Ulisse si incontra con quello della tradizione ebraica, alla quale appartengono tanti di quegli autori che nella prima metà del Novecento hanno scelto di confrontarsi in qualche modo con l’eroe omerico: Ernst Bloch, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Elias Canetti. E ancora: Kafka, Mandel’štam, Brodskij. Il punto di contatto tra i due miti, tra quello dell’ebreo errante e quello del figlio di Laerte vagabondo per i mari, costituisce una tentazione per chiunque si occupi di questi argomenti. E Boitani decide così di inventare un incontro – preoccupandosi solo che sia filologicamente impeccabile – tra Ulisse stesso e Abramo.
È la parte sicuramente più scintillante del libro. L’Ulisse di Boitani per un attimo spera di essere giunto alla meta finale, di veder avverata la profezia di Tiresia, di aver trovato il luogo in cui un remo può essere confuso con una pala per il grano. Ma poi un lungo e affascinante dialogo sul sale e sul mare lo convincono che quella non è la landa annunciata dal veggente tebano: la terra che non conosce le navi, i remi, il mare, il cibo condito con il sale. «Sappi ospite» gli dice Abramo «che il sale è per noi uno dei nove elementi essenziali della vita. Con esso facciamo frizioni ai nostri neonati. Con esso devono essere conditi tutti i nostri sacrifici a Dio, perché è segno della nostra alleanza con Lui. Usiamo addirittura l’espressione “di sale” per dire che quell’alleanza è perenne e inviolabile. Viene, il sale, da lontane miniere e presto potremo, temo, raccoglierlo da uno specchio di acqua morta col quale Dio pare intenzionato a coprire le rovine di due città vicine [Sodoma e Gomorra].» Lo stesso è per il mare: «Non conosco il mare... ma la nostra storia ci tramanda che quando Dio creò il cielo e la terra vi era tenebra sull’abisso che tu chiami oceano – o forse è il tuo caos? – e il vento divino correva sulla superficie delle acque. Dio creò quindi la luce per illuminare l’universo, e poi il firmamento, il cielo, per dividere le acque di sopra da quelle di sotto. Radunò quest’ultime in una sola massa e le diede il nome di mari, e questi devono essere come quelli di cui dici tu». Dopo il lungo dialogo, Ulisse si persuade che l’uomo che ha di fronte non è quello della profezia di Tiresia. Che, dunque, quella non è la meta. E riprende il cammino.
Qui, però, a nostro avviso, non finisce – ricominciando – la storia del figlio di Laerte. Che è sì storia di un lungo peregrinare. Ma con un traguardo che deve restare quello fissato dalla predizione di Tiresia. E dobbiamo soffermarci ancora una volta a formulare ipotesi che ci consentano di individuare il senso più profondo di quel vaticinio. Essendo esso collocato in quella parte dell’Odissea dove, come abbiamo detto a proposito del libro di Weinrich, per ben tre volte si torna sul tema dell’oblio, si può avanzare l’ipotesi che il mito prendesse in considerazione due diversi generi di perdita della memoria. Il primo, temporaneo, che consente di rimuovere provvisoriamente il ricordo di qualche avversità, provoca un benessere effimero, ma si risolve nel momento in cui la memoria, inevitabilmente, riprende il posto che le spetta, e aggiunge un di più di dolore a quelle sofferenze che si proponeva di alleviare. Il secondo, definitivo ma tutt’altro che ultraterreno, è nella quiete che risolve i problemi della memoria fino a farli scomparire in un remoto passato.
Forse la meta prefigurata da Tiresia è quella del secondo tipo di oblio, in cui si riesce a dividere il presente dal passato e a trasformare il passato in storia. Laddove la storia è qualcosa su cui si può provare a costruire una conoscenza. Conoscenza che consente all’uomo di abbandonare le navi fino a dimenticarle, di fermarsi, di edificare sulla terra quel che è impossibile mettere in piedi sulle acque, di considerare quel pezzo di legno un utensile atto a dare nutrimento (la pala da grano) piuttosto che uno strumento (il remo) per dare velocità a un’eterna fuga-ritorno. Il grande oblio, che non ha niente del fugace stordimento dei lotofagi ma è piuttosto quello che fa dimenticare per sempre mari, navi, remi e sale di stagioni precedenti. E che si può conquistare qui sulla terra sconfiggendo quel tanto di vendicativo e selvaggio che si annida nei meandri della memoria. Poi saranno probabilmente nuovo mare, nuove navi, nuovi remi e nuovo sale. E di lì ripartirà la storia.

Il fascino del despota

Gli ultimi trent’anni del quinto secolo a.C. furono tra i più travagliati nella vita di Atene. Nel 429 la «peste» aveva ucciso Pericle. Dopodiché gli ateniesi avevano riportato due importanti vittorie militari, a Mitilene (428) e a Sfacteria (425), ma nel 424 erano stati sconfitti dagli spartani ad Anfipoli e a Delo. La morte di Cleone e Brasida, i due maggiori esponenti del partito della guerra di Atene e Sparta, aveva aperto la strada alla pace di Nicia (421). Ma Atene, nella quale stava emergendo la figura carismatica di Alcibiade – l’unico leader politico e militare che avrebbe potuto essere un degno erede di Pericle – si preparava a una nuova guerra contro Siracusa. Con quella spedizione, voluta e guidata da Alcibiade, avrebbe soggiogato l’intera Sicilia ritrovando la sua grandezza. La notte prima della partenza delle navi, però, furono mutilati i busti del dio Ermes, ne nacque uno scandalo per il quale fu ingiustamente incolpato Alcibiade. Alcibiade fu costretto a lasciare il comando e, per ritorsione, scelse di mettere il suo talento a disposizione di Sparta. Risultato: l’assedio di Siracusa si risolse per Atene in una catastrofe (413); Sparta, su suggerimento di Alcibiade, conquistò Decelea, una località al centro dell’Attica, occupando la quale riuscì a impedire gli approvvigionamenti di Atene e si alleò, sempre in funzione antiateniese, con la Persia. Dopo qualche tempo Alcibiade litigò con Sparta e si rimise a disposizione di Atene. Per conto della sua città sconfisse la flotta spartana ad Abido (411) e a Cizico (410) e nel 408 poté rientrare trionfalmente in patria. Ma il partito che lo avversava era sempre molto forte e riuscì a metterlo da parte. Gli ateniesi guidati da amici di Alcibiade riportarono un’ultima grande vittoria contro Sparta nella battaglia navale delle isole Arginuse (406). Gli spartani, che avevano trovato in Lisandro un grande capo militare, nel 405 travolsero definitivamente la flotta ateniese. L’anno successivo Atene, ridotta alla fame e al cannibalismo, fu costretta ad arrendersi.
Sparta, vincitrice, affidò la gestione della città sconfitta a quelli che sarebbero passati alla storia come i «Trenta tiranni». «Il dominio dei Trenta» afferma Detlef Lotze nella sua Storia greca «assunse sempre di più i tratti di un regime terroristico e fece ben millecinquecento vittime.» Capo indiscusso dei Trenta fu un politico intellettuale, Crizia, il cui potere divenne quasi assoluto dopo che ebbe messo a morte il più cauto Teramene. I democratici ateniesi furono costretti a lasciare la città e si rifugiarono al Pireo. Di qui, guidati da Trasibulo, organizzarono la resistenza contro il regime dispotico dei Trenta. Finché, con la benevola neutralità di Sparta che nel frattempo aveva assunto sotto la guida di Pausania un atteggiamento più moderato volto a contrastare lo strapotere di Lisandro, grande protettore dei Trenta, mossero alla riconquista di Atene sconfiggendo i tiranni e costringendoli a riparare, assieme alle loro milizie, a Eleusi. Qui i despoti con il loro seguito trascorsero tre anni, dopodiché i democratici ateniesi li attirarono in un tranello e li fecero fuori.
Da molto tempo Luciano Canfora è particolarmente attratto da questo periodo della storia greca. In particolare dal quindicennio che va dallo scandalo delle erme che interruppe l’ascesa di Alcibiade (415) all’«agguato democratico» di Eleusi (400). Anni di misteri, di strani processi, di improvvisi cambiamenti di campo, di equivoche commistioni tra opposti schieramenti. Canfora scrive e riscrive di queste cose in modo davvero affascinante, lasciandosi sempre una porta aperta per un ulteriore approfondimento. Sullo sfondo del suo aggirarsi in quegli anni si intravedono riflessioni, quasi mai esplicitate, sul Novecento. Su quanto sia ingannevole fidarsi di quel che appare. E su come, se ci si ferma a osservare (o meglio: a riflettere), quel che era già stato guardato possa esser visto in modi assai diversi da come la storia ce lo ha tramandato. Stavolta è il caso di alcuni grandi intellettuali e del loro ambiguo rapporto con il potere. Il libro, a essi dedicato, si chiama Un mestiere pericoloso e ha come sottotitolo La vita quotidiana dei filosofi greci.
Si parte da Socrate per far luce su alcuni conti che non tornano in merito al suo rapporto con i diversi regimi di quegli anni. Socrate fu maestro di Alcibiade e di Crizia, e scelse di «restare in città» (cioè di non unirsi ai democratici che lasciarono Atene per guidare la resistenza dal Pireo) all’epoca della dittatura dei Trenta. E non già da quei despoti, bensì dal regime democratico, nel 399 fu processato e costretto a bere la cicuta. Singolare, no? Di più. Dopo la battaglia navale alle isole Arginuse, l’ultima vinta dagli ateniesi nell’agosto del 406, i generali vittoriosi, Trasillo e Pericle il Giovane, furono sottoposti a quello che Canfora definisce il «più inquietante processo politico che la democrazia ateniese abbia celebrato». A fini di lotta politica interna, i generali vincitori furono accusati dal partito nemico di Alcibiade di non aver salvato i naufraghi travolti da una tempesta dopo la battaglia. Socrate, scelto a sorte, faceva parte del consiglio dei cinquecento che avrebbero avuto funzioni di giurati in quel caso giudiziario. E si trovò dalla parte di Eurittolemo, cognato di Alcibiade, che si batteva per salvare dalla pena di morte gli accusati. Rischiando di veder cadere anche la sua testa. Inutilmente. A maggioranza i cinquecento si espressero per la messa a morte dei generali. Quel processo assurdo decapitò gli alti ufficiali ateniesi compromettendo il futuro militare della città a tutto vantaggio dello spartano Lisandro. E indusse il filosofo ad amare riflessioni su quell’esempio perfetto «della forza delle élite, o minoranze organizzate, la cui azione» osserva Canfora «è irresistibile e in tanto ha successo in quanto porta la “maggioranza” a ritenere di esercitare la propria sovrana volontà di maggioranza».
Quella decapitazione costò ad Atene la sovranità. Nell’aprile del 404 la città capitolò e per essi si aprì la strada alla stagione dei Trenta. Crizia, il loro capo, era un personaggio molto interessante. Grande amico di Euripide gli aveva conferito, dopo la morte, onori che l’Atene democratica non gli aveva mai tributato: tra i due, sostiene Canfora, «c’era una vicinanza intellettuale che fa pensare all’apporto di Elizabeth Hauptmann o di Helene Weigel alla drammaturgia di Brecht». Il tiranno aveva anche intensamente frequentato Socrate e questi, come s’è detto, fu tra coloro che «restarono in città» all’epoca della sua dittatura. Anche se presto si trovò in rottura con quegli autocrati imposti da Sparta. Perché non si unì alla resistenza di Trasibulo? Ce lo spiega un altro filosofo che come lui «rimase in città», allievo di Socrate nonché nipote di Crizia: Platone. Nella Settima lettera, Platone chiarisce i motivi per i quali aderì al regime dei Trenta finché esso non entrò in urto con Socrate: «Alcuni fra costoro erano miei familiari e conoscenti e mi coinvolgevano con l’argomento che la nuova situazione si addiceva a me». Riteneva inoltre che i Trenta «avrebbero liberato la città dall’ingiustizia e avrebbero imposto un giusto sistema di vita». Poi Crizia volle coinvolgere Socrate in una misteriosa operazione politica, probabilmente la cattura e liquidazione di uno dei generali delle Arginuse che era riuscito a fuggire dopo il processo. E, al suo rifiuto, gli impose il divieto d’insegnamento. Sufficiente per far sì che i libri di storia potessero esaltare la «rottura» tra Socrate e i Trenta. Ma non per indurre i democratici, tornati al potere, a risparmiarsi di procedere contro di lui, antico sodale di Alcibiade. Ed eccoci così a un nuovo processo che sembra essere una coda di quello delle Arginuse. Si accusa Socrate di aver «corrotto i giovani» e di voler «introdurre nuove divinità». In realtà lo si porta alla sbarra in quanto amico di Alcibiade (e, sia pure per poco, di Crizia). I cinquecento giurati si dividono: 220 votano per la salvezza di Socrate, 280 per la sua morte. Socrate beve il veleno. E i dubbi che aveva avuto all’epoca del processo contro i generali delle Arginuse sui meccanismi della democrazia ateniese ne escono confermati.
Un altro di quelli che all’epoca dei Trenta non «lasciarono la città» è Senofonte. Anzi Senofonte faceva parte dei cavalieri (Canfora, con un’analisi sofisticata e convincente, arriva a individuarlo come uno degli ipparchi, cioè i due comandanti della cavalleria) che costituivano il corpo militare più esposto a difesa dei Trenta. Seguendoli anche nella loro Salò, cioè a Eleusi. Quando alla fine prevalsero i democratici di Trasibulo, nonostante i proclami di amnistia e pacificazione, Senofonte non si sentì affatto tranquillo. Ruppe con Socrate che lo invitava a fare come lui, cioè a restare ancora una volta ad Atene. E, per sfuggire a un destino non dissimile da quello che si preparava per il filosofo, si unì alla spedizione in Persia (voluta da Sparta) per sostenere la causa di Ciro il Giovane contro il fratello Artaserse II. Da cui, dopo la morte di Ciro, sarebbe tornato con un viaggio in Asia Minore durato sedici mesi che avrebbe raccontato mirabilmente nell’Anabasi. Ritorno beninteso non già ad Atene dalla quale era stato condannato all’esilio ma in altre località sotto la tutela di Sparta. E molti sono i passi nell’opera di Senofonte che Canfora individua come autodifesa di un «collaborazionista» filospartano che si sente minacciato dal regime «democratico» edificato dai «partigiani» di Trasibulo.
Anche Platone, nipote come s’è detto di Crizia, collaborò con il regime dei Trenta. Era però più giovane degli altri, aveva ventisei anni all’epoca della tirannia, e quando venne l’amnistia di Trasibulo, pensò di poter restare ad Atene. Per poco. Al momento del processo a Socrate lasciò la città assieme ad altri del gruppo dei socratici: per Platone, sostiene Canfora, la guerra civile era stata soltanto una «brutta parentesi»; «il vero trauma, indelebile, era il processo mostruoso con cui la democrazia restaura...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. STORIA E POLITICA
  4. Introduzione
  5. Passato e presente
  6. Fascismo e antifascismo
  7. Comunismo e anticomunismo
  8. I libri di cui si è parlato
  9. Copyright