La porta bassa nel muro
Attorno al 2500 a.C. un antico egizio scrisse che trovare la giusta lettura è come salire a bordo di una zattera. Certi libri di consolazione possiedono il potere di portarci in un luogo migliore. Questi romanzi totemici sono uno strano miscuglio di «robaccia» e «classici».
Una volta, prima di partecipare a una tavola rotonda organizzata dalla New York Public Library in cui si discuteva su quali fossero i classici ancora molto letti, l’editor e biografa Jenny Uglow venne nella mia libreria per una verifica. Il computer le diede alcune indicazioni che la sorpresero. Lasciando da parte le opere di letteratura che si portano agli esami e quelle di cui esistono adattamenti cinematografici, appariva chiaro che Elizabeth Gaskell vende ancora bene, e lo stesso vale per Hemingway naturalmente, ma soltanto per alcune delle sue opere. Middlemarch di George Eliot (pseudonimo di Marie Anne Evans) è ancora un best sellers, mentre non lo sono le opere di Henry Fielding. Benché abbia una grande influenza culturale, il ciclo Una danza alla musica del tempo di Anthony Powell vende solo saltuariamente. Al contrario, altre due corpose serie di romanzi risalenti ai primi anni Sessanta del Novecento – Trilogia dei Balcani di Olivia Manning e Il quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell – continuano a mantenersi da sole (o a «lavarsi la faccia», per usare una misteriosa espressione gergale inglese usata in economia quando si vuole indicare qualcosa che produce un profitto). Si potrebbe pensare che a rifornire i magazzini siano solo romanzi relativamente recenti, ma Robinson Crusoe (1719) e Candido (1759) vengono ancora acquistati con regolarità per il piacere di leggerli e non come testi da portare a un esame. Tuttavia le opere di Tobias Smollett, così come la Vita di Samuel Johnson di James Boswell, vengono tenute tra le scorte più per una forma di rispetto che per una necessità commerciale, considerato che se ne vendono poche copie all’anno. In trent’anni non mi è mai capitato di sentirmi richiedere Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan. L’ uomo che fu Giovedì di Chesterton, d’altra parte, è uno dei tanti intramontabili che continuano ad avere successo grazie al passaparola. L’elenco dei libri che sono amati per il loro potere corroborante – un elenco che gran parte dei librai conosce e che comprende molta fantascienza e letteratura per l’infanzia – coincide solo in parte con «il canone» dei classici della letteratura come lo intende il mondo accademico, e immagino sia giusto così. Per citare alcuni titoli, L’ atlante delle nuvole di David Mitchell, Controcorrente di Joris-Karl Huysmans, Watchman di Ian Rankin, Ho un castello nel cuore di Dodie Smith, Il giovane Holden di J.D. Salinger, Vita e opinioni di Tristram Shandy di Laurence Sterne, Il grande mare dei sargassi di Jean Rhys, Il buio oltre la siepe di Harper Lee, il ciclo di Earthsea di Ursula Le Guin, Eragon di Christopher Paolini, Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, i romanzi del Mondo Disco di Terry Pratchett, Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick, Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery, la saga di Harry Potter di J.K. Rowling, Il casello magico di Norton Juster, Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, L’alchimista di Paulo Coelho, la serie di Jeeves di P.G. Wodehouse, La fattoria delle magre consolazioni di Stella Gibbons.
Capita a volte che chi ama questi libri abbia la sensazione di dover leggere qualcosa di più «serio». A.S. Byatt, raffinata autrice di romanzi, era una fan della prim’ora di Terry Pratchett, nei giorni in cui la letteratura di fantascienza e il genere fantasy trovavano raramente spazio nella pagina letteraria dei quotidiani più prestigiosi. Nel 1990, quando venne tutta eccitata ad acquistare il nuovo romanzo della serie del Mondo Disco nella mia libreria a Canterbury, mi disse scherzando: «Adoro i libri del Mondo Disco, ma non posso farmi vedere a comprarli a Londra». Questo stato di cose è una conseguenza del sistema educativo moderno: Chaucer, Shakespeare e Dickens godevano di un eclettismo che non produceva alcun imbarazzo. La classe dirigente vittoriana adorava la storia dell’eroico dottor Brydon, unico sopravvissuto alla ritirata dell’esercito britannico da Kabul del 1842, che riuscì a salvarsi fuggendo a cavallo dopo che una Bibbia che teneva nel cappello aveva fermato il colpo inferto da una spada afghana. Tornato nelle sue Highlands e ormai anziano, Brydon smontò quel mito (che non era stato lui a creare): a salvargli la vita non era stata una Bibbia, ma un volume del «Blackwood’s Magazine», un periodico popolare che ospitava storie romantiche e racconti gotici.
La possibilità di ricevere conforto è una componente molto importante delle nostre letture, ma abbiamo bisogno di preservarla, o faremo la fine di alcuni degli studenti della professoressa Deirdre Lynch di Harvard, che si è lamentata della
vena di nostalgia che si avverte spesso nelle rimostranze degli [...] studenti di letteratura inglese [...] riguardo al fatto che la preparazione in critica e teoria letteraria a cui devono conformarsi attenua quell’amore per gli autori e la lettura che li aveva portati ai loro programmi di specializzazione.
Sovente la scoperta di un libro di consolazione è, come avviene quando ci si innamora, un’esperienza indimenticabile. Quando avevo poco più di vent’anni, mi capitava spesso di raggiungere Tite Street a Chelsea e di legare la mia vecchia bicicletta da studente squattrinato alla cancellata di un palazzo edoardiano. Quella strada aveva un fascino particolare per gli amanti dei libri: Radclyffe Hall e Oscar Wilde avevano abitato a pochi passi da lì. Prendevo l’antico ascensore diretto all’ultimo piano del palazzo e, mentre lo raggiungevo lentamente, attraverso la grata vedevo comparire sul pianerottolo due piedi che calzavano un paio di consunte scarpe di pelle fatte a mano, comprate da Tricker’s in Jermyn Street. Le mie visite allo scrittore e viaggiatore Wilfred Thesiger sfociavano in lunghe conversazioni che spesso finivano a tarda notte, mentre fuori le luci dell’Albert Bridge scintillavano sul Tamigi.
Un tempo lo chiamavano l’ultimo degli esploratori vittoriani, ma la sua avversione per il motore a combustione interna e il rispetto con cui guardava alle concezioni del mondo dei popoli indigeni ha indotto scrittori più giovani, come Levison Wood e Rory Stewart, ad affibbiargli una nuova etichetta: il primo hippy. Anche se sarà per sempre associato all’amicizia che strinse con i beduini e all’attraversamento del «Quarto vuoto», il grande deserto della penisola arabica, Thesiger era un appassionato bibliofilo, perciò con lui parlavo molto di libri: non si trova tutti i giorni una persona che possiede una copia dell’edizione per i sottoscrittori dei Sette pilastri della saggezza con la copertina fatta utilizzando il legno dell’elica di un aeroplano turco abbattuto sull’Hegiaz nel 1915, una rarità della cui esistenza tutti gli antiquari con cui ho parlato sembrano all’oscuro.
Su una scheda di archivio, nella sua minuscola grafia ordinata, Thesiger mi scrisse un elenco dei suoi sei libri di consolazione. Uno era Ritorno a Brideshead, un romanzo di cui sentivo parlare per la prima volta, ma Thesiger aveva una postilla da aggiungere: l’autore, Evelyn Waugh, che aveva conosciuto bene in Abissinia, era una «persona assolutamente insopportabile», e gli sembrava impossibile che avesse potuto scrivere un simile capolavoro. A Thesiger, che si era guadagnato l’onorificenza del Distinguished Service Order per il coraggio dimostrato combattendo le forze armate di Mussolini in Africa orientale e aveva poi servito nel neocostituito Special Air Service, dava fastidio in particolare il grande cappello floscio che Waugh sfoggiava quando da corrispondente di guerra seguiva l’invasione italiana dell’Abissinia. «Quel maledetto het» diceva scuotendo la testa a quel ricordo, ma con l’ombra di un sorriso.
Oggi, da libraio – all’epoca ero soltanto un coscienzioso dottorando in storia –, so che Ritorno a Brideshead è un libro di consolazione per uomini e donne di ogni età. Quel racconto di Waugh sulla vita dell’aristocrazia continua a vendere settimana dopo settimana grazie alla prosa elettrizzante e, almeno per me, al modo in cui evoca qualcosa di inaccessibile sulla bellezza senza violarne l’inafferrabilità.
«Ho appena letto Ritorno a Brideshead» mi ha detto di recente una giovane donna che è venuta nella mia libreria. «È così... diverso, mi ha letteralmente conquistata e per la prossima lettura ho bisogno di qualcosa che regga il confronto e che mi prenda davvero, mi capisce?»
Qualcosa di forte, che vada al cuore del piacere di leggere: ci sono libri nella cui lettura c’è un elemento di dovere e altri che ti spingono a svegliarti presto al mattino per riprenderli in mano e a rallentare verso la fine per rinviare il momento del distacco. Né Dostoevskij né Dickens sarebbero andati bene per quella ragazza, che avrebbe compreso la strana aspirazione che c’è nella scrittura di Nabokov. In una sgranata intervista televisiva degli anni Cinquanta, Nabokov aveva affermato – con una tale rapidità che ho dovuto riascoltarla varie volte per cogliere le sue parole – di non scrivere per toccare i cuori o cambiare le menti, ma «per produrre quel piccolo sussulto nella spina dorsale del lettore artista». Ci voleva una botta in vena più breve, immediata. Pensai a qualcuno dei miei libri totem; Crash di J.G. Ballard, per esempio? No, una volta per difenderlo provocai una rissa (a cui mi guardai bene di prendere parte) in un pub di Fulham. E così le ho proposto Ho un castello nel cuore, Il buio oltre la siepe, La battuta di caccia e Frankenstein. In seguito ho saputo che, come capita spessissimo, il libro di Dodie Smith le è piaciuto immensamente e si è anche chiesta come mai non fosse più conosciuto.
Nell’elenco di Thesiger c’era anche Upon That Mountain di Eric Shipton. Per anni Thesiger me ne aveva parlato come di un libro che aveva perso da molto tempo e che non riusciva a rintracciare. Ripensandoci, mi resi conto che in qualche modo non voleva ritrovarlo. Per lui quel libro era l’oscuro oggetto del desiderio, qualcosa che – per citare il capolavoro del suo amico dal disdicevole cappello floscio – rappresentava
quella porta bassa nel muro che altri prima di me, lo sapevo, avevano trovato e che si apriva su un giardino incantato, cinto tutto intorno, lontano da occhi indiscreti.
Per il potere di un libro di consolazione, essere «lontano da occhi indiscreti» è fondamentale. Questi volumi sono qualcosa di totalmente personale, che di rado si sono aggiudicati premi o sono best seller del momento; rappresentano una scoperta privata, una vera e propria epifania, che produce un’esplosione al rallentatore in un’area deserta dell’anima mai visitata prima.
Per alcuni il libro di consolazione incarna la bellezza della perdita. Upon That Mountain è tutto incentrato su una conquista deliziosamente negata. Thesiger parlava molto del Nanda Devi, la vetta himalayana «creatrice di vedove» che respingeva chiunque tentasse di violarla; il libro di Shipton era incentrato su un tentativo fallito di scalarla, il che potrebbe spiegare la sua rarità: non aveva niente a che fare con la cronaca di una «collezione di cime».
Poco tempo fa, a diciassette anni dalla scomparsa di Thesiger, ho trovato una copia del 1956 di Upon That Mountain in edizione tascabile, che ora tengo accanto alla mia copia autografata di Sabbie arabe.
Ormai non chiedo più alle persone qual è il fascino dei loro libri di consolazione perché le loro risposte sono sempre evasive. Come le spie catturate in tempo di guerra che dichiarano solo nome, grado e numero di matricola, loro si limitano a dirmi il titolo, l’autore e magari il formato, se sono in brossura o hanno la copertina rigida. Poi cambiano argomento, restie a rivelare dettagli del loro magico retroterra. Stanno proteggendo il loro rifugio sulla montagna, perché, questo è certo, un libro di consolazione rimane sempre un fatto privato. Banalizzarlo cercando di descriverlo sarebbe sbagliato, disonesto, quasi come raggiungere in elicottero la cima del Nanda Devi. Crescendo, parte del nostro potere immaginativo scivola pian piano sotto il nostro io «amministrativo», per riemergere in tempi di amore e morte, oppure quando siamo immersi nella natura o nella lettura. Shipton inizia il suo libro così:
Ogni bambino, immagino, passa una buona parte del suo tempo sognando a occhi aperti alberi, o motori, o il mare [...]. A volte questi desideri vengono cancellati, ma a volte ne resta quanto basta perché abbiano un effetto determinante sul nostro modo di vivere.
«Un effetto determinante sul nostro modo di vivere»: il libro di consolazione è dunque un mezzo per prolungare l’effetto di cui parla Shipton. Non c’è da stupirsi che le persone si chiudano nel silenzio quando se ne parla: interrogandole su quest’argomento interferisco col flusso mentale superstite della loro infanzia, che è una faccenda delicata. Da piccoli siamo liberi dalle questioni amministrative che un giorno intorbideranno quel flusso mentale. Cresciamo dando per scontato un mondo fantastico, ricco quanto Le mille e una notte.
Ho sette fratelli e Sarah, che è la minore, da bambina aveva un libro di consolazione di cui non mi aveva mai parlato finché non glielo chiesi. In The Children of the Old House una famiglia numerosa cerca di sbarcare il lunario in una casa fatiscente, e riesce a farcela pur tra mille difficoltà. Sarah è cresciuta proprio in una casa così e ha iniziato a lavorare come infermiera pediatrica al Great Ormond Street Hospital. Mi è capitato più volte di constatare che i libri di consolazione scelti nell’infanzia dalle persone prefigurino, con un grado quasi assurdo di accuratezza di cui non sempre gli stessi interessati riescono a rendersi conto, la loro missione nella vita adulta.
Stamattina, mentre stavo scrivendo questa parte del libro in un caffè di Canterbury, è entrata una giovane coppia armata di zaini e bastoni di legno. Ci siamo messi a chiacchierare e ho chiesto quali fossero i loro libri di consolazione dell’infanzia. Avevano entrambi ventun anni e stavano andando a piedi da Bordeaux in Irlanda, facendo campeggio libero e senza alcun itinerario stabilito. Zakaria Fassi era sopravvissuto alle prepotenze del padre leggendo Un uomo non piange mai di Faïza Guène, come lui francoalgerina. Leila Galin, la sua ragazza, figlia di un camionista dalla testa rasata, aveva trovato un senso alla «follia» della sua famiglia di origine leggendo un’oscura favola in cui un orco veniva ammansito dall’amore. Mi hanno descritto i due libri a bassa voce, religiosamente, e alla fine mi hanno confessato di non averne mai parlato prima. I libri definivano i contorni della loro sensibilità e ne spiegavano il desiderio di fuga meglio di mille parole.
Di recente, sul treno Londra-Canterbury, ho parlato con Sam, un’avvocatessa che tornava dall’udienza di un processo per omicidio in corso all’Old Bailey.
Io: «Qual era il suo libro di consolazione nell’infanzia?».
Sam: «Oh, mi piacevano i libri di Peter e Jane, quelli della collana ch...