Una vita scapricciata
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Una vita scapricciata

  1. 416 pagine
  2. Italian
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Una vita scapricciata

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Informazioni sul libro

Il cielo primaverile di Napoli è carico di stelle, mentre da una finestra del centro storico qualcuno intona la romanza di Puccini Vincerò. È sotto questo segno che viene al mondo Marisa Laurito, protagonista poliedrica ed esuberante di oltre mezzo secolo dello spettacolo e del costume italiani. In Una vita scapricciata si racconta per la prima volta con voce squillante e autentica (pare quasi di sentire la sua inconfondibile r moscia) e con l'ironia che la contraddistingue. A formarle il carattere è Napoli, la città in cui tutto avviene in strada, dove ci si incontra, si grida, si ride, si mangia, si rappezzano i dolori. Marisa diventa così un'anima generosa e riconoscente e, infatti, in questo libro, per parlare di sé, in realtà non fa che evocare le persone e le occasioni che l'hanno ispirata, accompagnata, aiutata nel suo percorso artistico e umano: dall'amica Marina con cui affrontò i primi provini a Cinecittà (con tanto di molestie "d'uso" a cui seppe reagire con personalità) al grandissimo Eduardo, il Direttore, dal viso rosa come la camicia, per il tanto cerone messo negli anni che non andava più via.
Per ciascuno Marisa dipinge un ritratto di spessore arricchito con preziosi aneddoti, dagli episodi vissuti da squattrinata a Roma a un irresistibile déjeuner a casa Agnelli. Ci sono poi tutti, nessuno escluso, i compagni di quella geniale avventura corale che si sviluppò attorno a Renzo Arbore, che «ha spalancato una porticina nel mio cervello» e «mi ha insegnato a lanciarmi nel meraviglioso cielo dell'improvvisazione». Un sodalizio importantissimo, come quello con il migliore amico Luciano De Crescenzo, con cui Marisa parla ancora oggi all'ombra del Vesuvio, il vulcano fumante che da millenni insegna ai napoletani a ridimensionare gli affanni, a godere attimo dopo attimo e a rinascere ridendo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831803984
1

Vincerò

Lo scrittore Giuseppe Marotta diceva che a Napoli ognuno nasce sotto il segno di una canzonetta perché, mentre la madre urla per dare alla luce il bambino, sicuramente sotto casa o dal balcone di fronte o nel vicolo appresso qualcuno sta cantando una canzone che segnerà la sua vita proprio come se fosse un secondo segno zodiacale.
Mia madre mi ha sempre raccontato che il 19 aprile 1951 a mezzanotte, mentre io venivo al mondo, nella casa a fianco alla nostra, don Gennaro, appassionato di lirica, stava cantando: «Vincerò… vincerooooò…», la celeberrima romanza tratta dalla Turandot di Giacomo Puccini. Quella romanza è diventata il mio “segno musicale” e, sicuramente, ha lasciato una traccia su di me. Primo: perché nascere è già una vittoria, e poi perché la volontà, la tenacia, la caparbietà, insomma, ’a capa tosta che tengo è tra gli aspetti predominanti del mio carattere.
Quella notte del 19 aprile, a Napoli, il cielo era pieno di stelle e nella mia fantastica città, oggi come allora, mezzanotte è sempre come fosse mezzogiorno: tutti giravano per strada felici perché finalmente era arrivata la primavera, con i profumi dei fiori e dei limoni che inondavano l’aria, rendendola magica. La primavera per i napoletani è il segno che le passeggiate a Posillipo, le gite a Capri, a Sorrento, a Ischia o a Procida, con le varchiate a mare, possono iniziare. Il vento tiepido del Sud si abbassa sulle onde e fa venire fuori quel teporino che ti invoglia a spogliarti.
Un giorno, passeggiando per via Petrarca, avevo il golfo davanti, il famoso pino alle spalle, e sul muro lunghissimo a lettere cubitali qualcuno aveva scritto: M’AGGIO LEVAT’ ’A MAGLIA! Sicuramente era un napoletano che aveva voluto condividere con gli altri la gioia di essersi liberato della maglia di lana, quella della salute per intenderci.
Ma che stavo dicendo? Ah sì, che in quel 19 aprile, mentre io stavo faticando per nascere, c’era chi passeggiava piacevolmente davanti alla chiesa di Sant’Antonio, dove ancora oggi il parroco benedice gli animali – gatti, asinelli, pecore, cani – assieme alle persone che li accompagnano; qualcun altro, a Porta Capuana, nella piazza brulicante di bancarelle non tanto distante dal quartiere San Lorenzo dove sono nata io, beveva una tazza ’e bror ’e purp bollente condito con pepe, limone e arricchito da un pezzetto di ranfetella… di ranfa… che dite? Cos’è la ranfa? Oddio, come posso spiegare? Allora, il polpo in tutta Italia ha otto tentacoli, a Napoli invece… uguale, ha otto ranfe. Madonna mia quant’è difficile farsi capire. Si fa prima ad assaggiare. E la ranfa è una vera leccornia per i napoletani, una ricetta della classe più povera, descritta anche da Matilde Serao nel suo Ventre di Napoli. Purtroppo da qualche anno, a causa delle nuove regole d’igiene, la ranfa con il brodo è difficile da trovare, ma quando sono nata io ribolliva nei pentoloni fumanti e si vendeva fino a notte inoltrata.
Quella sera c’era sicuramente anche chi preferiva sgranocchiare un tarallo con sugna, pepe e mandorle, acquistato da un ambulante in via Alessio Mazzocchi, la strada dove sono nata, mentre altri chiacchieravano amabilmente a piazza Carlo III, davanti al Real Albergo dei Poveri, una colossale costruzione commissionata da Carlo di Borbone che doveva ospitare tutti i poveri del regno. Tale e quale alle politiche del welfare attuali…
A Napoli ogni occasione è buona non solo per mangiare, ma anche per chiacchierare. Non serve una scusa per conoscersi, si attacca discorso e si fa amicizia.
Mi è capitato, in una delle mie tante notti primaverili napoletane, di vedere due signore del tutto estranee, una in strada e un’altra affacciata al balcone, cominciare a parlarsi, a scambiarsi consigli, a raccontarsi la vita.
«Signo’, abita qua Antonio, o’ figlio d’o’ prevet’? O’ cunuscite?»
«E comme… Oggi abbiamo festeggiato la Cresima di mio figlio, è venuto pur’iss’. Agg’ cucinato tutt’ cose io, dalla pasta al forno fin’ e’ sfugliatelle
«Ma voi le fate col burro o con lo strutto? E ’a pasta d’a’ frolla a’ facite riposa’?»
«Vulite pazzia’? Perlomeno quattro ore. E senza lievito! Ci va l’ammoniaca. A vulite assaggia’?»
«Ma non vi incomodate…»
«E che problema c’è?»
E la signora calò dal balcone il classico panariello legato alla corda, con dentro una frolla e una riccia che l’altra si mise a gustare sul marciapiede, continuando tranquillamente a fare conversazione e dimenticando il motivo principale per cui era andata, ovvero quello di cercare Antonio o’ figlio d’o’ prevet’, che poi non era il figlio del prete, ma un chierichetto… suo prediletto. Onestamente, non mi viene in mente nessun altro posto al mondo dove sia possibile assistere a una scena del genere!
Alla Stazione Centrale, non lontana da casa mia, qualche viaggiatore, prima di partire a mezzanotte, comprava un pacchetto di sigarette di contrabbando; i più maliziosi si concedevano pure quella con lo “sfizio”, ovvero la sigaretta presa direttamente dal seno della signora che le vendeva, poi il fischio del treno, un annuncio e via, i vagoni carichi di variopinta e complessa umanità iniziavano il viaggio sferragliando verso nuove mete.
Non so se tra tutte queste persone che arrivavano, ripartivano, brulicavano per le strade, ce ne fosse qualcuna con progetti entusiasmanti, con grandi aspettative, animata da rabbia o da una particolare gioia, ma so per certo che a casa mia erano straordinariamente felici: ero nata! E nella stessa camera da letto dove era nata mia madre. Nel bel mezzo della notte, con il mio pianto salutai sonoramente il quartiere San Lorenzo, Napoli tutta intera e questa bellissima mia vita.
Ovviamente non se ne accorse nessuno a parte la mia famiglia che, al mio arrivo, era formata da papà Gaetano, per tutti Nino, da mamma Annunziata, per tutti Tina, e da mio fratello, più grande di me di quattro anni, Giuseppe, per tutti Pino. A casa mia, nessuno aveva un nome che fosse quello dell’anagrafe. Questo fu uno dei tanti aspetti in cui ruppi le regole: io sarei stata sempre Marisa, Marisa e basta. Niente Isa, Isuccia, Isetta. Già dal nome che mi avevano messo dovevano capirlo che non ero una che si sarebbe piegata alle consuetudini. Ma questo lo avrebbero scoperto col tempo…
2

Napoli

È un privilegio per me essere nata a Napoli. Napoli è nella mia mente, nel cuore, è under my skin, come cantava Frank Sinatra. E a Napoli voglio rinascere sempre, per tutte le vite che mi restano, nei secoli dei secoli, anzi, nei vicoli dei vicoli, amen.
Napoli, una città viva, originale, elegante, appassionata… “ultimo baluardo dell’umanità”, come dicevi tu, Lucia’. Abbiate pazienza, ma io al mio amico Luciano De Crescenzo parlo ancora direttamente. L’ultima volta che ci siamo fatti una bella chiacchierata io stavo in alto, vicino alla cima del Vesuvio. E lui sicuramente stava molto più in alto di me…
Per tutta la nostra conversazione istintivamente ho guardato le stelle, che brillano più che altrove viste dalla punta della mia montagna sacra.
Il Vesuvio: è lui che ci dà l’energia, questo vecchio brontolone, fumatore e vanitosamente immobile da millenni, in posa, che si fa fotografare e ammirare dal mondo. È il suo magma sotterraneo sempre in movimento, è il fuoco liquido che scorre nelle sue vene come nelle nostre, il famoso “sangue caliente”, che ci fa vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. È da lì che nasce la filosofia fatalista dei napoletani. Ci pensate? Avere l’intima, serena consapevolezza che da un momento all’altro il Vesuvio possa esplodere e tutto finisce: è questo che ci fa ridimensionare dolori e affanni, permettendoci di dare il giusto significato alla vita che stiamo vivendo. È nella natura dei napoletani sorridere, ironizzare e godere ogni momento che ci viene regalato. Gioia e dolore spesso si fondono in un unico sentimento che ci dà la forza di sopravvivere, di resistere e di rinascere sempre. Il napoletano è così: l’unica cosa che prende sul serio è il sorriso. È nei suoi geni. E quando, per qualche motivo, gli capita di passare un’intera giornata senza farsi una risata, si sente “geneticamente mortificato”.
Negli anni Ottanta abitavo a Roma e si sparse la voce circa una certa profezia, che voleva che nel week-end del 28 giugno il Vesuvio sarebbe esploso. Diciamo che sarebbe stato un week-end “col botto”. Il 27 giugno, al contrario dei tanti napoletani che prudentemente si allontanarono dalla città, io feci la valigia per ritornare a casa: non potevo immaginare la mia vita senza Napoli.
Uscendo, incrociai un mio amico che veniva proprio da lì, un attore molto bravo, Franco Iavarone. Ci ritrovammo uno di fronte all’altra, sull’uscio della mia porta. Io avevo le valigie in mano.
«Dove stai andando?»
Risposi: «Ritorno a Napoli, non hai sentito la profezia? Ne parlano tutti. Dicono che in questo week-end esploderà il Vesuvio e Napoli sprofonderà. Io non ci credo… ma metti caso che succeda veramente, io voglio morire con lei».
E lui, che per lo stesso motivo era scappato da Napoli, ammise: «Song n’omme e’ merd’! Me ne torn’ cu’ tte’».
E così ci incamminammo insieme verso un incerto destino; durante il viaggio facevamo congetture sulla profezia: «Ma ti pare che Dio, dopo averlo creato, dica: “Basta, il Vesuvio mi ha stufato, mo’ lo faccio esplodere…”? Oh, quello è Dio. Sta in paradiso, mica in manicomio». Per fortuna Dio, o chi per lui, salvò sia noi sia la città. Come avevo potuto credere, come avevo potuto dare anche una sola chance alla possibilità che Napoli sparisse per una stupida profezia, dopo essere sopravvissuta alle invasioni degli spagnoli, dei turchi, dei normanni e dei tedeschi, ai terremoti, ai maremoti, alle pestilenze e persino a un’eruzione vulcanica violenta nel Seicento? A questo proposito, la leggenda racconta che la lava avesse distrutto tutto il circondario e, navigando lenta, inesorabile e rovente verso Napoli, fosse stata fermata dalla statua di san Gennaro portata in processione con la mano alzata, che la bloccò alle porte di Napoli… sempre aperte.
Goethe definì Napoli un paradiso, Sartre ne rimase abbagliato e descrisse il suo viaggio come un’esperienza di “spaesamento sensoriale”.
Annamaria Ortese ha detto: «Se c’è una città che ci fa ancora credere in Dio, nella libertà e nella dolcezza del vivere umano, è Napoli».
Elsa Morante scrisse: «[È] la città più civile del mondo. La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola, vera metropoli italiana». Ed erano oltretutto gli anni Cinquanta, non troppo prosperi per l’Italia in generale e per il Mezzogiorno in particolare!
Ci trovavamo pur sempre nel secondo dopoguerra, in una fase di ricostruzione, ancora in bilico tra un passato difficile e doloroso e un futuro a cui si guardava con un certo, cauto ottimismo e sereno fatalismo, pensando che, tanto, peggio di così non sarebbe potuta andare.
Come spesso accadeva in quell’epoca, le varie generazioni della famiglia vivevano tutte insieme: noi, per ristrettezze economiche, vivevamo “ristretti” nella casa dei nonni, Mario e Gilda. Nonno Mario, in particolare, era il classico uomo d’altri tempi, sempre elegantissimo nella sua grisaglia grigio scuro; non usciva mai di casa senza cappello, guanti e bastone, anche se si trattava solo di fare due passi in cortile. Anzi, spesso quando usciva mi diceva, con malcelato orgoglio, di guardarlo dalla finestra perché in segno di rispetto tutto il palazzo si sarebbe affacciato per salutarlo. All’inizio ero scettica, ma dovetti ricredermi perché davvero accadeva così. Quello che non sapevo era che lui, uscendo dal portone, come uno scugnizzo suonava a tutti i campanelli ma invece di scappare si infilava i guanti con grande nonchalance e s’incamminava, salutando quelli che si affacciavano e che urlavano: «Don Ma’, buongiorno e buona passeggiata! Ma chi ha suonato? Avite vist’ a qualcuno? ’Sti scugnizz’si l’acchiapp!». E lui, da gran signore, sollevando il cappello rispondeva: «Buona giornata a voi, Margheri’!». E intanto mi faceva l’occhiolino mentre lo guardavo dalla finestra a bocca aperta.
Era un uomo così affascinante, il nonno, spiritoso e attento alle buone maniere… uno che teneva molto all’eleganza. Prima della guerra era stato gioielliere e, sebbene poi avesse perso tutto, non si era dato per vinto e, da buon commerciante, aveva continuato a vendere un altro oro di Napoli, quello vero: il caffè.
Nonno aveva fantasia e creatività, era appassionato di giochi di prestigio e intratteneva noi bambini con quelli; inventava favole, che di giorno in giorno crescevano e mutavano grazie alla sua capacità affabulatoria. Anzi, mi piace pensare di aver ereditato un pochino di queste sue abilità e di averle messe nel mio lavoro. Oltre a essere un funambolo della parola, durante le serate con gli amici dedicava con galanteria poesie d’amore alle signore, anche alle più brutte, e rallegrava tutti suonando il pianoforte, il violino e il mandolino.
Si dice che spesso una donna cerchi in un uomo elementi che inconsciamente la riconducano al proprio padre, perché in qualche modo per lei sono rassicuranti. Nel mio caso, sono certa di aver cercato per una vita qualcuno che somigliasse a mio nonno, che avesse la sua cultura, il suo charme e, perché no, anche un pizzico della sua gelosia. Un giorno mia nonna, come spesso accadeva, era andata a comprare la frutta da Filippo, il… anzi, o’ verdummaro di fronte casa. Nonno ne era gelosissimo e la teneva d’occhio dal balcone, fumando con rabbia repressa la sua pipa. Appena lei rientrò: «L’ho visto, sai? Si è attardato a passarti il pacco di ciliegie, il signorino. Che ti sussurrava alle orecchie?».
Al tempo, il nonno aveva settant’anni, la nonna settantaquattro e il “signorino” ottantaquattro suonati. A ripensarci oggi, provo una grande invidia per quell’amore inossidabile, che li vedeva tenersi per mano, dopo cinquant’anni passati insieme, a guardare in religioso silenzio la grande novità nel nostro salotto: la televisione! Ma questa è un’altra storia…...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una vita scapricciata
  4. 0. Le mie numerose vite
  5. 1. Vincerò
  6. 2. Napoli
  7. 3. L’arrivo della televisione
  8. 4. Il quartiere di San Lorenzo
  9. 5. Natale a Napoli
  10. 6. La decisione è presa
  11. 7. Mia madre e tutti gli altri
  12. 8. Il dopoguerra
  13. 9. I nostri maestri
  14. 10. Il mio primo fidanzato
  15. 11. Il ’68
  16. 12. Autostop
  17. 13. Il primo viaggio a Roma
  18. 14. I miei hotel à la page
  19. 15. Eduardo
  20. 16. Senza soldi a Roma
  21. 17. Via Flaminia 287
  22. 18. I provini
  23. 19. Tournée
  24. 20. Scherzi e risate
  25. 21. Giulio l’eroe schioppettato
  26. 22. Avanguardia, tradizionee sceneggiata
  27. 23. Marina
  28. 24. Masaniello
  29. 25. Luciano
  30. 26. Quelli della notte
  31. 27. Casa Agnelli
  32. 28. Miami
  33. 29. Marisa la nuit
  34. 30. Renzo
  35. 31. Il nostro primo scudetto
  36. 32. Venezuela
  37. 33. Piero
  38. The end
  39. APPENDICE
  40. Indice dei nomi
  41. Inserto fotografico
  42. Copyright