I prigionieri di Porta Giovia furono separati. Il 25 maggio Ludovico e Rodolfo vennero trasferiti al castello di San Colombano, mentre Bernabò fu rinchiuso nel castello di Trezzo sull’Adda. Era un sito imprendibile e il Visconti, cacciato nelle segrete di una torre, seppe subito con certezza che non ne sarebbe uscito. Aveva ottenuto che lo accompagnasse in quell’ultima dimora Donnina de’ Porri che, stando alle affermazioni di Gian Galeazzo, Bernabò aveva sposato morganaticamente.
Anche i suoi figli furono in seguito rinchiusi a vita nel castello di Trezzo. Rodolfo vi sarebbe morto quattro anni dopo, nel 1389, mentre il fratello avrebbe scontato una ben più lunga prigionia. Ludovico era sposato con la cugina Violante, la sorella di Gian Galeazzo, e ne aveva avuto un figlio, Giovanni, che sarebbe poi diventato signore di Lodi. Nel 1386, mentre era ancora recluso a San Colombano, la morte della moglie gli offrì una speranza di libertà, poiché Gian Galeazzo progettava di fargli sposare la figlia del re di Cipro Giacomo I, in modo da rafforzare il legame visconteo con il governo dell’isola. Alla fine, però, non se ne fece nulla e Ludovico, spostato nel carcere di Trezzo, vi sarebbe morto vent’anni dopo.
Rimangono nell’ombra i sette mesi tormentati della prigionia di Bernabò Visconti. Ormai contavano solo le gesta dell’astro nascente, Gian Galeazzo, e sul vecchio tiranno stava calando il sipario. Ma la fama popolare non si rassegnò a seppellire in totale oblio gli ultimi giorni di Bernabò, e volle attribuirgli una frase trovata incisa sul muro di una torre del castello di Trezzo: «Mi a ti e ti a mi». Se fosse stata scritta da Bernabò, si potrebbe interpretare come un’ammissione di colpa: il trattamento ricevuto dal nipote sarebbe stato lo stesso che a sua volta gli stava preparando. Quel motto ebbe lunga vita e fu adottato anche dagli Sforza.
Il silenzio delle cronache, spesso governate dai potenti, è infranto però dai poeti popolari, liberi di dar voce al signore spodestato, se pur mischiando fatti e fantasie. Il fiorentino Marchionne di Matteo Arrighi, spesso ospite alla corte viscontea, rima sul Bernabò che conosce, gonfio d’ira e bramoso di vendetta:
Io mi trovo del mio tesor rubato
figliole e figli son di me mendichi,
e io son con loro imprigionato!
Città, castelli son di me nimici;
senza mia colpa m’hanno rinnegato,
e dai miei servi son stato tradito!
Ond’io, chiaro e pulito
domando Cristo a te di me vendetta;
e mai nessun si fidi di sua setta.
Più ampi e strutturati sono i versi dei «lamenti», un genere letterario molto diffuso a quel tempo in tutta Europa. Era storia spiegata al popolo, col racconto di eccelse virtù e formidabili imprese, in un vortice di emozioni teso a un edificante finale che guardava al cielo.
De messer Bernabò tanto nomato
per l’universo la sua fama grande
più che imperio né re incoronato
duca né principe come ’l verso spande;
e rota di Fortuna l’ha bassato
in prigione con amare vivande:
se m’ascoltate io ve dirò in rima
a parte a parte dal principio in cima.
Dall’incipit si comprende che questo è il più antico dei tre Lamenti di Bernabò che ci sono giunti, scritto quasi in presa diretta perché il Visconti risulta prigioniero ma ancora vivo, un’eccezione per quel tipo di cantari, di solito apologie di personaggi scomparsi. L’ignoto autore doveva appartenere alla cerchia di Bernabò ed essere abituato all’adulazione più enfatica:
Con bei costumi pien de gentilezza
con più ardire che ’l mar non ha onda,
bene formato di tanta bellezza
ogni membro adosso li risponde
con viso bello, con vaga allegrezza;
d’ascoltare ciascuno non s’asconde
con gran giustizia el povero e ’l rico
e a nessuno era fato soperchio.
Con precisi riferimenti storici, in molte strofe celebra l’eccellenza militare e politica del protagonista, che aveva raggiunto i più ambiti traguardi:
Tanto seppe bene adoperare
che indietro fè tornar l’Imperatore
la Chieresia seppe ribassare
[…]
e tutti gli altri a casa ritornare
e tregua e pace fè per lo migliore.
Ma il preminente potere di Bernabò aveva allarmato il nipote. Il poeta sapeva della crescente tensione fra i due signori e condivideva l’opinione diffusa che la causa scatenante del colpo di Stato fosse stata l’alleanza di Bernabò col re di Francia, sancita dalle nozze tra Lucia e Luigi II d’Angiò.
Avea fatto parentato […] col fiolo del Duca
che credea esser di Puglia incoronato
di Napoli di Calabria e di quel paese
messer Bernabò tanto nomato
la sua fiola li dava palese
per trionfare e difender la sua ala.
Chi scrive è uomo di corte che conosceva bene il nefasto potere dell’invidia: erano stati cortigiani maldicenti ad aizzare Gian Galeazzo contro lo zio, e anche Bianca di Savoia, da sempre ostile al cognato, aveva avuto un ruolo decisivo:
E da Milano un so perfeto amico
al conte di Vertù subito scrisse,
dicendo – Signor mio, el ver ve dico:
guardate ben che a Milan non vegnisse,
forte e possente è lo nostro inimico. –
El conte fu savio, a la madre lo disse.
Disse la madre – Misera mi, grama!
Messer Bernabò rebassarte brama.
[…]
Sì con reale ha fatto parentato
pensa di guastar nostra signoria. –
Una drammatizzazione plausibile, che echeggiava la voce di popolo secondo cui Gian Galeazzo si era risolto ad agire perché temeva davvero che lo zio volesse eliminarlo; ma il poeta non fa sconti e accusa il conte di Virtù di tradimento:
E messer Bernabò incontro li andava
[…]
– Ben vegna il mio nevò – lo salutava.
Così andando la sua man li tocca
Iuda abbrazzò Cristo e lo baciò con la bocca
con una parola che fu si cruda:
e questi sono i saluti di Iuda.
Da testimone oculare racconta poi la facile presa della città da parte di Gian Galeazzo:
Senza ferire de lancia o de spada
acquistò il conte el nobel Milano
– Viva ’l conte – per ogni contrada
zoveni e vegi fasiano gran cridata
[…]
E mercadanti e tuti donzelli
– Viva ’l conte e mora li gabelli –
Fin qui sono narrati i fatti, ma quando si entra dietro le inviolabili mura del castello di Trezzo solo l’immaginazione del poeta può riempire il Lamento col rovello di chi amaramente ripercorre a una a una le proprie colpe:
El par che ’l core e gli sguanci se morda
lion rampante con amaro pondo;
de tredese pecati s’arecorda,
che fato avea in questo vechio mondo.
[…]
Primo pecato ch’avea dato ai cani
per diletto a mangiar cristiani.
Lamento fa con amare parole
la morte consentì de so fratello
ch’era de sangue e de sa prole;
da parte cacciò messer Luchin Novello.
[…]
Per una pernice, quaglia o altra caccia,
agli omeni cavava gli occhi dalla faccia.
Il senso di colpa lo travolge come un fiume in piena:
Ho rubato vedove, poveri e pupilli,
vescovi, prevedi, abati,
ospedal, monaster, castelli e villi.
[…]
D’esser solo in Lombardia ho sempre bramato
a fratello, a nevò non avea reguardo.
[…]
E tradimenti e lor...