Il bello di vivere due volte
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Il bello di vivere due volte

  1. 276 pagine
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Il bello di vivere due volte

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Informazioni sul libro

Sharon Stone racconta la propria storia: un cammino di rinascita, ostinato e pieno d'amore

Nel 2001 Sharon Stone, una delle attrici più celebri al mondo, fu colpita da un grave ictus cerebrale che, oltre alla salute, le distrusse carriera, famiglia, patrimonio finanziario e fama internazionale. Ne Il Bello di Vivere Due Volte ripercorre la strada aspra e faticosa che ha dovuto affrontare per ricostruire la propria vita e per recuperare a poco a poco salute fisica e serenità. In un settore in cui non sono ammesse crisi né debolezze, in un mondo dove troppe persone sono costrette al silenzio, lei ha trovato la forza di tornare, il coraggio di far risentire la propria voce e la voglia di lasciare un segno per i diritti e il benessere di ogni essere umano sul pianeta.
In queste pagine intime, autentiche e trasparenti come una chiacchierata con un amico, Sharon Stone racconta come ha interpretato i suoi ruoli più importanti, le amicizie che le hanno cambiato la vita, i peggiori fallimenti e i più grandi successi. Allo stesso tempo svela come, dopo un'infanzia segnata da traumi e violenza, sia approdata a una carriera di successo in un mondo in cui gli stessi soprusi venivano perpetrati in forma diversa e nascosti dietro il paravento del denaro e del fascino. Da ultimo mostra come solo i figli e le sue iniziative umanitarie le abbiano dato la forza di intraprendere un percorso di rinascita che le ha permesso di riconciliarsi con la famiglia e tornare a coltivare l'amore.
Sharon Stone è apprezzata non solo per la bellezza e il talento che la contraddistinguono, ma anche perché, per sostenere le proprie idee, si è sempre rifiutata di compiacere chicchessia. Il Bello di Vivere Due Volte è un libro per chi si sente ferito e per chi si reputa un sopravvissuto, è l'esaltazione della forza e della resilienza femminili, è un bilancio di vita e una chiamata alle armi. E dimostra che non è mai troppo tardi per alzare la voce e farsi sentire.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831803731
Argomento
Art

Gabbie

Al liceo avevo una professoressa di arte formidabile, era la migliore di tutti, Mrs Kluz. In estate faceva delle gite e registrava i suoni dei luoghi che visitava. Poi ce li faceva ascoltare in classe e ci chiedeva di dipingerli. Proprio così: dipingere i suoni. Era emozionante immaginare un luogo solo attraverso l’ascolto. Ricordo che una volta ci portò i rumori della metropolitana di New York e io ne rimasi affascinata. Che razza di rumori erano? Cos’era quello stridio e quel rombo di tuono? Di cosa parlava tutta quella gente? Dove stava andando? Che cosa succedeva in continuazione, senza sosta? Non sapevo ancora che un anno e mezzo dopo mi sarei ritrovata in mezzo a quel fragore a fare la modella.
Un giorno, Mrs Kluz ci assegnò un progetto in cui il metodo usato per disegnare corrispondesse al soggetto prescelto. Io disegnai un labirinto con la parola “unico” e lei lo mostrò alla classe come esempio di ciò che intendeva. È stata la prima volta che mi sono sentita davvero speciale. In un certo senso mi aveva liberato. Quello stesso anno le venne un ictus che le paralizzò tutta la parte destra del corpo. Tornò a scuola e imparò a disegnare con la mano sinistra. Era giovane e bellissima, aveva stile e non si arrese, continuò a insegnare. Mi fu di grande ispirazione, allora come oggi.
C’è disciplina nell’onorare se stessi.
Ogni tanto mi domando se l’ictus non mi sia venuto perché mi sono allontanata troppo dalla mia natura e dal mio vero percorso di vita. Il corpo si ribella e grida forte quando non seguiamo la nostra verità profonda, quando vogliamo per forza infilare un tassello quadrato in un buco tondo, invece di essere solo noi stessi, nel mio caso Sharon l’artista, Sharon la mamma, l’amica, la sorella, l’amante, la figlia, la vicina, il membro della comunità. Tutti quei ruoli a me consoni, che mi vengono spontanei.
Nel corso della mia esistenza ho capito che spesso, quando si parla di abuso, molte persone non comprendono il meccanismo per cui è il carnefice ad apparire più forte, persuasivo e controllato. Le vittime invece sembrano dissociate e mentalmente disturbate, come se fossero drogate o bugiarde, o in un certo senso troppo fragili per meritare fiducia o essere credute. La loro disperazione appare astrusa e incerta, inaffidabile. È ovvio che il carnefice sia più forte, sicuro ed equilibrato, visto che è una persona che ne sottomette altre con la violenza e le minacce.
E purtroppo spesso sfugge che, in ultima analisi, la persona debole, instabile e travagliata, cioè il vero malato mentale, è proprio il carnefice, e che la vittima impreparata, ignorando le mosse successive del suo seviziatore, vive nel terrore di essere uccisa o subire altre violenze. Se poi vede perpetrare quelle stesse violenze su un’altra vittima al posto suo, la paura aumenta ed è più profondamente implicita.
Anche quando il suo aguzzino si pavoneggia di fronte ad altri, la reazione della vittima è discrepante e la fa apparire squilibrata. E pure quando il primo viene scoperto a mentire, l’errore sembra sempre spiegabile o giustificabile, perché la vittima è troppo disperata o chiusa in sé per dire come stanno veramente le cose.
Se qualcuno riesce a sottometterti anche solo una volta, ci sono altissime probabilità che ti ricapiti, perché chi abusa degli altri riesce a scovare le possibili vittime, come se le fiutasse. Per uscire da questa trappola bisogna confidarsi con qualcuno, farsi aiutare, raccontare la verità a chi la sa ascoltare, affrontare una psicoterapia per curare lo stress post-traumatico e mettere tutto agli atti. È essenziale rivolgersi a un vero professionista, per proteggere se stessi e i propri cari. Ed è anche molto importante tenere un diario, descrivere ogni cosa nel dettaglio, comprese le date degli abusi, poi conservare tutto su un computer protetto o in un’agenda che l’orco del caso non possa trovare. Il diario personale è un documento legale, diventerà il proprio migliore amico e il proprio portavoce in caso di bisogno. Può salvare la vita.
Chiunque stia vivendo una situazione del genere spero che accetti e segua questi consigli che mi sento di dare per esperienza diretta.
Quando studiavo la mia parte in Difesa a oltranza – Last Dance, andai in un penitenziario femminile del Tennessee e mi feci rinchiudere in una cella di massima sicurezza per un giorno. Non ero mai stata in un posto del genere e non avevo mai parlato con un detenuto in quelle condizioni, ma dovevo interpretare una donna che aveva commesso un omicidio all’età di diciotto anni e che, dopo essere stata processata come un’adulta, stava passando la vita in prigione. Così avevo contattato il carcere e avviato una corrispondenza con una loro detenuta che volevo incontrare al termine della mia giornata di prigionia.
Non appena arrivata, fui perquisita da capo a piedi e in ogni orifizio del mio corpo: naso, orecchie, ano e vagina. Poi mi tolsero di dosso tutto ciò che avevo, compresa la dignità, mi misero le manette ai polsi e i ceppi alle caviglie, e, in quello stato, dovetti attraversare diversi corridoi della prigione fino alla mia cella nel braccio della morte. Il direttore mi aveva assicurato che la mia identità non era trapelata, ma mentre superavo le altre celle, il percorso sembrò diventare sempre più lungo, a causa del baccano provocato dai colpi sulle sbarre e dalle urla che si levavano in mio onore, del tipo: «Vaffanculo, Sharon Stone, vaffanculo, puttana, vaffanculosharonstoneputtana» e varianti simili. Nel tragitto le catene ai piedi cominciarono anche a scorticarmi le caviglie.
Nella piccola ala del braccio della morte c’erano solo nove celle. Giunta a destinazione, imparai subito diverse cose. Ad esempio, per parlare con i vicini di cella si usava lo stesso sportello di sicurezza da cui si sporgevano le braccia per farsi togliere o rimettere le manette, che ricordava un forno. Quindi lì dentro “chiudi il forno” assume immediatamente un nuovo significato. Per andare alle docce dovevi sporgere le mani per farti ammanettare e, quando si era nella doccia, dovevi sporgerle di nuovo per fartele togliere: non potevi andare da nessuna parte senza i ceppi e le manette. Le mie vicine non apprezzavano la nuova compagnia e il coro di “vaffa” mi accompagnò per tutta la mia permanenza: quando usai il WC di metallo senza sedile, quando mi accucciai sul letto di ferro dove non potevi stare seduta senza picchiare la testa sulla cuccetta di sopra, vuota; e anche quando guardai fuori dalla finestra con il vetro talmente sporco da impedire a un singolo raggio di sole di filtrare attraverso. La cella era troppo piccola per camminarci in tondo, e forse anche in lungo. Faceva freddo, troppo freddo per riuscire a riscaldarsi con l’unica coperta grezza su quel materasso sottile. Ma stiamo parlando del braccio della morte, mica di un albergo a cinque stelle.
Alla fine della mia giornata da detenuta, le guardie vennero a prendermi, mi rimisero i ceppi e le manette e, con la tuta arancione ancora indosso, mi portarono a colloquio con la detenuta a cui avevo scritto. Ci incontrammo in una stanza asettica, con il pavimento di linoleum e un tavolo in tinta con due sedie. Era una donnina bionda, da giovane doveva essere stata molto bella e conservava ancora un’aria da intellettuale. Con noi c’era anche un responsabile della prigione. Parlammo della vita in carcere, della sua compagna di cella, del loro rapporto, di cosa facevano per passare le loro giornate interminabili. Di come si formavano amicizie dentro e dello svanire, col tempo, dei rapporti con l’esterno.
Le chiesi perché era lì. Come molte altre detenute, e quasi tutte quelle nel braccio della morte, aveva ucciso il marito. Le domandai il motivo, ma sulle prime non volle dirmelo, in realtà non lo aveva mai detto a nessuno. Era stata processata e condannata senza difendersi. Il suo avvocato ci aveva rinunciato. Prima di commettere il reato, lavorava in un ospedale come capoinfermiera e suo marito era uno dei primari. A detta di tutti, una sera lui era tornato a casa e lei l’aveva ucciso così, senza alcuna “ragione apparente”. Mmm. Come noi donne ben sappiamo, non è così semplice.
Per recitare bene la parte avevo bisogno di capire e, oltre a quello, pensavo che almeno una persona dovesse sapere come mai quella donna aveva deciso di lasciare i suoi figli, tutti maschi, senza un genitore.
Ebbene, pare che il marito avesse il vizio di infilarle bottiglie rotte nella vagina durante un atto sessuale gradito solo a lui. Andò avanti per molto, finché lei non crollò. Non volendo far sapere ai figli che razza di uomo fosse il padre, e nemmeno che a lei fosse capitata una cosa del genere, aveva accettato di farsi giustiziare piuttosto che rivelare quella terribile storia che avrebbe gettato vergogna sulla famiglia.
La capivo benissimo, e con il passare degli anni sempre di più, rivedendo in me quella stessa riluttanza a rivelare le cose tremende che gli uomini mi avevano fatto, anche se erano niente in confronto a ciò che aveva passato lei. Erano cose private, custodite in segreto, e comprendevo bene la volontà di non far conoscere agli altri, soprattutto ai figli, la realtà che aveva vissuto o viveva la madre. Era capitato anche a me e lo avevo tenuto dentro senza mai confidarmi con anima viva.
La ringraziai. Per anni dopo quell’incontro cercai di convincere lei e il suo rappresentante legale ad assumere un altro avvocato e chiedere la revisione del processo, ma fu tutto invano.
Le donne hanno una specie di legame psichico, energetico, grazie al quale riescono a comunicare tra loro, a volte solo con il pensiero. Qualcuno lo definisce intuito femminile, ma comunque lo si chiami, ce l’abbiamo davvero. E quella donna, non la dimenticherò mai.
Durante le riprese della scena di Difesa a oltranza in cui il mio personaggio ottiene una sospensione della sentenza e scende dal tavolo dell’esecuzione, tutto questo carico emotivo mi è esploso dentro ed è fuoriuscito come un uragano. Sono crollata. Nessuno sul set poteva immaginare cosa mi stesse succedendo. Ma la mia troupe, fedele e incredibilmente empatica, ha accettato di fare gli straordinari per me e di lavorare fino all’alba per finire di girare il resto della scena, dove la sospensione è revocata e la protagonista viene giustiziata. Su quella macchina della morte ognuno di noi ha sviscerato le proprie emozioni e la scena è impregnata delle nostre opinioni al riguardo. Abbiamo fatto quel terribile viaggio insieme e non finirò mai di ringraziarli per la grande professionalità e la profonda empatia che mi hanno dimostrato.
Bob mi aveva accompagnato e si era preso cura di me per l’intera durata del film. Quella sera, e per tutta la notte, rimase seduto al bar, in strada, incapace di entrare e vedermi subire l’esecuzione, ma donandomi comunque quell’aura di sicurezza e protezione di cui avevo bisogno.
Ho avuto la fortuna di lavorare con Bruce Beresford, il famoso regista di A spasso con Daisy, Esecuzione di un eroe, Tender Mercies – Un tenero ringraziamento e Crimini del cuore. Mi fa ridere e mi mette a mio agio. Grazie al cielo non è uno di quelli che ti dicono: «Bene, buona, ma possiamo farne un’altra?». No, lui preferisce dirti: «Perfetta, andiamo avanti», oppure: «È venuta uno schifo, rifacciamola, e fa qualsiasi cosa ma non quella». Lo adoro, lui e i suoi modi strambi, e sa tenermi sempre sulle spine.
Verso la fine delle riprese, dopo tre mesi di lavoro in una prigione nuova di zecca, non ancora inaugurata, il cuoco della troupe mi domandò cosa volessi come ultimo pasto e io gli chiesi il pranzo del Ringraziamento. Ne preparò uno da manuale: tacchino, purè di patate dolci, salsa ai mirtilli, torta di zucca, insomma, il menu completo. Piacque a tutti e ci riempì di nostalgia. I set sono animati dalla passione: gli spostamenti con i camper e i camion, lo scarico delle attrezzature, il modo in cui ogni reparto fa il suo lavoro, creando qualcosa dal nulla, sembra un circo che arriva in città.
Mi affeziono sempre molto alle troupe. Gironzolo qua e là, osservo gli operatori impegnati nelle loro magie e ogni volta rimango sbalordita dalla trasformazione istantanea del nulla in tutto: solo le troupe cinematografiche sono capaci di fare una cosa del genere. Certo, viviamo come zingari nei camper che diventano per mesi le nostre case, dalle quali entriamo e usciamo continuamente, passando le giornate nel caldo più torrido o nel freddo più glaciale, mangiando in piatti di carta e vaschette di alluminio, lamentandoci sempre. Però, ci prendiamo cura gli uni degli altri. Ci lega una lealtà particolare, data forse dalla consapevolezza di ciò che siamo.
Se penso all’industria cinematografica, mi viene in mente una specie di esercito hippy. Dobbiamo arrivare puntuali, ma l’appuntamento non è mai nelle classiche ore d’ufficio, tipo dalle nove alle cinque, può essere invece alle 7.13 come alle 5.06. L’orario è preciso e si spacca il secondo. Il lavoro si sospende e si riprende puntualmente all’ora programmata. Ognuno deve stare nel suo reparto. Ci sono un sacco di regole da rispettare e dobbiamo essere sempre pronti, diligenti e preparati. Non c’è spazio per chi non riesce a tenere il passo. Il tempo è denaro, peraltro un sacco di denaro. Non ci possiamo permettere di perdere dieci o venti minuti solo perché qualcuno non è in grado di recitare la sua parte. E il rispetto te lo devi guadagnare.
Se hai bisogno di andare in bagno, devi prima avvisare, di solito l’assistente alla regia, e la richiesta deve essere approvata per non mandare all’aria il lavoro degli altri. In codice si dice “10-100”, come il prefisso telefonico, e naturalmente tutti verranno a saperlo, perché viene comunicato al walkie-talkie: «Sharon è al 10-100». È ovvio che nessuno va in bagno per fare delle telefonate. La pausa pranzo è di trenta minuti, durante i quali devi mangiare, andare in bagno, lavarti i denti e, se hai una scena, tornare al trucco per i ritocchi del caso. Perciò in molti mangiano in piedi accanto al lavandino, pessima abitudine. Questo sempre che ti consentano di mangiare. Di recente ho girato con una produzione in cui preferivano pagare una multa per la mancata pausa pranzo piuttosto che sospendere le riprese; ci facevano lavorare senza sosta dalle dodici alle quattordici ore al giorno.
Nei dieci anni di splendore della mia carriera di attrice, ho trascurato molto la salute per colpa di questi ritmi serrati. Spalla lussata: sopporta. Devitalizzazione di un dente senza anestesia nel mio camper durante la pausa pranzo: questa non è stata una delle esperienze peggiori, lo ammetto, così l’ho anche rifatto stupidamente un altro paio di volte, e poi mi è toccato affrontare un intervento chirurgico alla mascella per rimediare ai danni provocati. Rottura di una cisti ovarica: imbottirsi di antidolorifici e cambio di scena, da in piedi a seduta. Piede fratturato da una controfigura un po’ troppo esuberante: stivale più grande per nasconderlo, scena girata, poi fratturato di nuovo e ingessato alla fine del film. In altre parole, stai zitto e cammina. Non c’è spazio per i piagnucoloni in questo settore, soprattutto se, come me, sei una donna e devi dimostrare il tuo valore.
Alla fine degli anni Novanta, quando iniziai a rallentare quei folli ritmi di lavoro e cominciai a curarmi le ferite di guerra, in molti dubitarono del mio medico sportivo quando dichiarò che mi avevano messo un perno in una spalla e duecentocinquanta punti di sutura (dopo essere stata investita da un automobilista senza assicurazione che guidava contromano sul Sunset Boulevard, mentre tornavo da una lezione di recitazione), altrimenti mio figlio di quattro mesi mi avrebbe fatto uscire il braccio dall’articolazione. Invece era tutto vero, compresi i lunghi interventi dal dentista che dovetti sopportare per sistemarmi la bocca a dovere e i problemi alle mie povere ovaie che non ne potevano più. A quanto pare, quando si è sottoposte a superlavoro, malnutrizione e stress oltre ogni limite, girando film e viaggiando giorno e notte per promuoverli, le mestruazioni possono anche bloccarsi.
Dopo l’intervento per rimuovere i tumori al seno – quello che anni dopo avrebbe dato del filo da torcere ai medici della terapia intensiva di neurologia – dovetti sottopormi alla chirurgia ricostruttiva. Anche in quel caso furono fatti non pochi commenti sui miei “problemi con la chirurgia plastica”. In realtà il vero dilemma fu questo: entrai in sa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Bello di Vivere Due Volte
  4. La morte mi fa bella
  5. Là dove è casa
  6. Stile
  7. Irlandesi kitchen-sink
  8. Educazione di una ragazza
  9. Lavoro
  10. Un ruolo da modella
  11. Basic
  12. Invisibile
  13. Sogni
  14. Lezioni di ballo
  15. Preghiere esaudite
  16. Gabbie
  17. Scelte
  18. Karma
  19. Speranza
  20. Il Toro
  21. MeToo
  22. Il bello di vivere due volte
  23. Ringraziamenti
  24. Guida alle risorse
  25. Copyright