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Potere, politica affari: storia segreta della magistratura

  1. 288 pagine
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Potere, politica affari: storia segreta della magistratura

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Ottobre 2020: per la prima volta nella storia della magistratura un ex membro del Csm viene radiato dall'ordine giudiziario. Chi è Luca Palamara? Una carriera brillante avviata con la presidenza dell'Associazione nazionale magistrati a trentanove anni. A quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell'organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, diventa l'emblema del malcostume giudiziario. Incalzato dalle domande di Alessandro Sallusti, in questo libro Palamara racconta cosa sia il "Sistema" che ha pesantemente influenzato la politica italiana. "Tutti quelli - colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto - che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo." Il "Sistema" è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato. È quello che succede anche a Palamara: nel momento del suo massimo trionfo (l'elezione dei suoi candidati alle due più alte cariche della Corte di Cassazione), comincia la sua caduta. "Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c'entrano." I segreti sono tutti in questo

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Informazioni

Il vivaio

Come educare i magistrati da piccoli
Quello di magistrato è un mestiere che si tramanda di padre in figlio?
A nessuno può e deve essere preclusa la possibilità di diventarlo. Io sono rimasto orfano a 19 anni, e la morte di mio padre rappresentò uno shock violento nella mia vita. Ero visceralmente legato a lui: per me rappresentava una montagna che mi preservava da qualsiasi folata di vento, ma soprattutto un esempio da imitare per la passione che nutriva per il lavoro del magistrato. Il giorno dei suoi funerali, l’allora ministro dell’Interno Amintore Fanfani mi chiama da parte e mi dice che l’amministrazione è pronta ad accogliermi nella Polizia. La tanto vituperata Prima Repubblica era anche questo. Lo ringrazio per il sostegno ma declino l’offerta, perché nella mia testa è scattata una molla: anch’io voglio entrare in magistratura. Per un mese intero però rimango a letto e guardo il soffitto. Una mattina di marzo decido che devo reagire. In tre anni, dal marzo del 1988 al luglio del 1991, mi tolgo tutti e ventuno gli esami con la media del 30. Nel novembre del 1991 mi laureo quindi a pieni voti cum laude, a 22 anni, alla Sapienza di Roma, e nel frattempo tutte le amicizie che contavano si sono improvvisamente dileguate. Mi ritrovo solo, nel 1996 supero il concorso e il 15 dicembre 1997 inizio la mia avventura in magistratura. A differenza di tanti miei colleghi che oggi si battono il petto, non chiedo una raccomandazione al politico di turno per svernare a Roma in qualche commissione parlamentare, ma scelgo come prima destinazione la procura di Reggio Calabria, allora classificata come sede disagiata. Non avevo particolari idee politiche. Mio padre era di area socialista, fondamentale fu il suo ruolo durante il governo Craxi sulla nota vicenda di Sigonella. Prima dell’università avevo fatto tutti i cicli di studi – dalle materne alla maturità – alla scuola cattolica Cristo Re di Roma, e c’è mancato poco che mi facessi prete. Fratel Roberto, la mia guida spirituale, mi aveva prescelto come chierichetto della scuola. Quella era stata la mia educazione, e quello era il mio orientamento culturale: un cattolico moderato i cui primi voti oscillavano tra i partiti di centro.
Ma quelli sono anche gli anni di Tangentopoli e del crollo proprio di quel centro politico.
L’azione eroica e spregiudicata di Di Pietro entusiasma la mia generazione di aspiranti magistrati, ci carica di forti idealità, oltre a cambiare per sempre le gerarchie, il ruolo e l’immagine della magistratura. Siamo animati dal sacro fuoco di affermare che la legge è uguale per tutti, ma allo stesso tempo percepisco che da quel momento in poi i magistrati non saranno più grigi e anonimi burocrati, quanto piuttosto star evocate e invocate dal popolo, famosi come un attore o un calciatore, potenti come e più di un politico.
È un treno da non perdere…
Infatti quelli della mia generazione ci salgono in corsa, siamo giovani e ambiziosi, ci sentiamo investiti di una missione salvifica. Chi immaginava di fare il giudice si converte alla carriera dell’inquirente, il pm senza macchia che caccia i cattivi, che è ricercato dai giornalisti, che prima o poi finirà sui giornali e in tv.
Più che una missione assomiglia a una ubriacatura.
E in effetti lo è. Ma io più che dalle manette sono affascinato da altri aspetti di quella vicenda. Studio e ristudio i meccanismi di Tangentopoli, e non mi riferisco al merito delle inchieste. Mi intriga capire, per esempio, lo scontro di potere tra le procure di Milano e Roma per la gestione dei vari filoni, vedo il proliferare di iniziative analoghe in tutta Italia e mi chiedo: puro spirito di emulazione o c’è un disegno? E se c’è, chi tira i fili? Insomma, metto insieme i tasselli.
Quali tasselli?
Per esempio non mi torna come il Parlamento – su spinta della sinistra risparmiata dalle inchieste – possa aver approvato la legge suicida che toglie l’immunità ai parlamentari, aprendo di fatto lo sconfinamento della magistratura nel terreno della politica. Rimango sorpreso dal fatto che la strutturale dipendenza della politica dal finanziamento privato venga spacciata per banale e criminale corruzione di alcuni partiti, e che per la prima volta nel 1994 un presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi, venga raggiunto da un invito a comparire, come se dovesse essere respinto insieme alla novità che rappresentava rispetto alla politica. So che nulla accade per caso, c’è sempre un meccanismo, un sistema invisibile che si muove all’unisono. E io cerco la porta d’ingresso.
La trova?
Non subito, ovviamente. Ma noto una cosa: la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura. Quando arrivo alla mia prima sede, Reggio Calabria, rimango subito coinvolto in una rissa che diventa guerra tra il nuovo procuratore, Antonio Catanese, un onesto magistrato di Messina che nella vita aveva fatto di tutto meno che il pubblico ministero, e il suo vice Salvatore Boemi, uno che si era intestato grandi inchieste e che aspirava a diventare il capo. Inesperto, per poco ci lascio le penne perché mi schiero contro il vertice. Capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel «Sistema».
Il clima a Reggio Calabria in quegli anni è particolarmente incandescente, perché i vertici della magistratura reggina sono stati investiti dal ciclone delle dichiarazioni rese dal notaio Marrapodi, che in un drammatico confronto con il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro accuserà tra gli altri l’allora procuratore Giuliano Gaeta di aver protetto le cosche mafiose. «Siamo arrivati insieme in una realtà molto difficile» mi dice il nuovo procuratore Antonio Catanese quando ci incontriamo per la prima volta.
E cosa succede, una volta nel «Sistema»?
All’inizio nulla, mi guardo intorno, partecipo a riunioni di corrente in cui si parla tanto ma si conclude poco, un classico delle correnti di sinistra della magistratura. Però capisco l’importanza delle relazioni: quando nel weekend rientro a Roma, ne coltivo il più possibile, soprattutto tra i colleghi della mia generazione, e intuisco che un giorno potrebbero tornarmi utile e così sarà. Poco dopo ho la prima, piccola conferma che il «Sistema» funziona.
Racconti.
All’inizio del 1998, a Reggio Calabria, conosco Armando Spataro, magistrato della procura di Milano, già allora famoso e in prima linea sia nella lotta al terrorismo sia per il suo impegno politico dentro le correnti di sinistra della magistratura. Per noi giovani magistrati Spataro rappresentava un modello per il suo essere integerrimo e dedito, visceralmente, alla professione, e per questa ragione in occasione della sua elezione al Csm mi attivo procurandogli dei voti presso i colleghi del mio concorso, già allora ero bravo a fare queste cose. Spataro viene eletto e nel corso del suo mandato consiliare, nel 2001, io chiedo il trasferimento a Roma e, in alternativa, a Tivoli. La mia domanda alla procura di Roma non può però essere accolta: tutti i posti sono occupati, se voglio possono dirottarmi sulla procura di Tivoli. Io ci penso una notte e rispondo «no grazie». Ma dopo circa un mese, nel gennaio del 2002, essendosi liberato un posto a Roma, vi vengo trasferito dal Csm: in quel momento infatti ero l’unico aspirante tra i magistrati che avevano il diritto di prescelta in virtù, di una legge del 1991, per avere svolto attività per almeno 4 anni consecutivi in una sede, come Reggio Calabria, classificata come «disagiata».
Da quanto ricordo, in quell’occasione, mi arriva una telefonata da Spataro.
«Caro Luca» mi dice «a Roma si è liberato un posto per il trasferimento di un magistrato ad altro incarico come deciso dal Csm. La tua domanda è stata quindi accolta. Auguri e buon lavoro.»
Era un gesto di cortesia con il quale Spataro mi anticipava la comunicazione ufficiale, ma io lo vissi come un tentativo di aggregazione alla sua corrente del leader più potente dei duri e puri della sinistra giudiziaria, al quale sono rimasto sempre affezionato, e maturo un convincimento.
Quale?
Che io dovevo trovare il modo di farle le telefonate non di riceverle. E per questo mi serviva essere a Roma e non a Reggio Calabria, non in Magistratura democratica, corrente ideologica e non scalabile da uno con la mia storia, ma in una corrente meno strutturata e più pragmatica.
Tipo Unicost?
Sì, Unità per la Costituzione poteva fare per me, un uomo che nasce al centro politico e che ama stare al centro dei giochi, mediare. In quegli anni Unicost, corrente molto forte ma che ha al suo interno un’organizzazione di tipo feudale, è soprannominata nel nostro mondo «Unità per la prostituzione», data la sua propensione al clientelismo e alla lottizzazione, soprattutto nelle sue roccaforti tradizionali, che sono nell’ordine Napoli, Catania e Roma. La cosa non mi preoccupa, so bene già allora e per esperienza diretta che le altre correnti si dicono vergini ma, in realtà, da questo punto di vista si comportano esattamente allo stesso modo, sia pure usando metodi più sottili e parole più forbite. Quindi, insieme a Marcello Matera, in quel momento leader riconosciuto di Unicost, partecipo a un’operazione politica: da un lato trasformarla in un’organizzazione unitaria, e quindi togliere il potere ai singoli referenti locali per attribuirli all’unico segretario della corrente (in questo modo Unicost acquisirà un ruolo e un peso decisivo all’interno della magistratura); dall’altro evitare che il bipolarismo destra-sinistra possa affermarsi in magistratura, escludendo la nostra corrente.*
Come vedremo, lei riuscirà a scalare Unicost e a farla diventare in pochi anni l’ago della bilancia dell’intero «Sistema». Ma perché le correnti assumono tanto potere?
Questo è il punto, se non si capisce questo non si capisce il «Sistema». Le correnti sono il centro del potere, quindi parliamo di quattro poteri in competizione tra loro – corrente di sinistra, Magistratura democratica, oggi Area; di centro, Unicost; di destra (non intesa come destra politica bensì conservatrice), Magistratura indipendente; movimentista vicina ai Cinque Stelle, Autonomia e Indipendenza – che attraverso elezioni interne alla categoria si ritrovano insieme a governare sia l’Associazione nazionale magistrati, l’organo sindacale, sia il Csm, l’organo di autogoverno. Il potere, quindi, non sta nelle sigle Anm e Csm ma nel controllo delle correnti che di quegli organismi decidono vita e opere, e spesso anche miracoli. Nomine, promozioni, punizioni… strumenti per orientare anche l’azione giudiziaria sul campo: tutto passa da lì in un continuo ed estenuante processo di mediazione, che spesso diventa di contrattazione. Mi spiego meglio: nella Costituzione è scritto che il potere legislativo sta in capo al Parlamento; formalmente è vero, ma il potere reale è nelle mani dei segretari dei partiti che compongono il Parlamento.
Mi sta dicendo: attenzione, che via Palamara ne arriverà un altro, perché il sistema quello è?
Possono cambiare gli equilibri tra le correnti, esattamente come cambiano in politica all’avvicendarsi, per via naturale e democratica o traumatica, dei leader dei partiti. Vuol dire che per diventare procuratore dovrai passare non più sotto le forche caudine di Palamara e Ferri e Cascini, ma sotto quelle, per fare un esempio, di Davigo e Di Matteo. La ruota gira ma non diventerà mai quadrata.
Mi vedo già l’obiezione non di pochi: meglio due grandi magistrati come Davigo e Di Matteo che Palamara e Ferri.
È un’opinione, legittima come tutte le opinioni. Davigo e Di Matteo sono due importanti magistrati che non si sono mai dovuti sporcare le mani a gestire – se non in minima parte – gli appetiti, le esigenze e a volte le follie di quasi diecimila colleghi. Per farlo, hai bisogno dei voti necessari a raggiungere i posti che ti garantiscono il potere di nominare, fare e cambiare le cose, ammesso che uno ne sia capace e che esistano gli strumenti per farlo. Ma come è noto gli elettori, anche i magistrati elettori, sono esigenti e volubili. O li accontenti oppure cambiano cavallo e quindi addio voti, addio potere e si torna punto e a capo. Tutto il resto sono belle favole.
D’accordo, ma fino a qui siamo a dinamiche interne alla vostra casta. Che c’entra tutto questo con la politica, per intenderci con Lotti al tavolo delle trattative?
Le rispondo con le parole che un grande magistrato di sinistra, Francesco Misiani – ingiustamente messo sotto processo nel 1996 e poi completamente prosciolto dall’accusa di aver ricevuto una somma di denaro da Renato Squillante e passato informazioni sensibili agli imputati del processo Sme – ha affidato al giornalista Carlo Bonini nel libro La toga rossa: «I magistrati Bruti Liberati, Paciotti, Senese, Caselli e Borraccetti ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Sistema
  4. Antefatto. Hotel Champagne
  5. Il tradimento. Un abbraccio e uno sguardo
  6. Il ricatto. La cena segreta e la telefonata pizzino
  7. Il vivaio. Come educare i magistrati da piccoli
  8. L’imprevisto. Chi tocca la sinistra è fuori
  9. L’incontro. Berlusconi e le veline killer
  10. La regola del tre. Da Ruby a Fini: ecco chi comanda
  11. Il potere è controllo. Il Quirinale e la gabbia alla Severino
  12. Cane non morde cane. La marcia su Roma di Pignatone
  13. Il mercato. Per Palermo si tratta (e si cena) sulla trattativa
  14. La Repubblica del Sud. La piazza di Ingroia, il rebus Di Matteo
  15. Il «Rottamato». Da Riina al «questa è una bomba» su Renzi
  16. La condanna. Ciò che «noi umani» immaginavamo su Berlusconi
  17. La ferocia e l’inganno. Salvini e le due magistrature
  18. Miracolo a Milano. Lo scontro tra Bruti Liberati e Robledo
  19. Così fan tutti. Anche Davigo nel mare periglioso delle correnti
  20. La mattanza. Primo, ripulire la scena del delitto
  21. La spada e la benda. Fine dei giochi
  22. Epilogo. La fine o l’inizio?
  23. Appendice. Anm e Csm
  24. Copyright