Coltivare il giardino della mente
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Coltivare il giardino della mente

Il potere riparatore della natura

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Coltivare il giardino della mente

Il potere riparatore della natura

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Al giorno d'oggi, la metafora più diffusa per descrivere il cervello è quella che lo paragona a un computer: la sua struttura fisica corrisponderebbe all'hardware, la mente al software. La psiche in via di sviluppo di un neonato non sarebbe altro che un database da riempire di informazioni. Una simile visione ci porta spesso a interpretare i nostri processi mentali quasi fossero programmi, capaci di offrirci soluzioni semplici, rapide e lineari a ogni problema.
Esperienze, pensieri, ricordi e sentimenti plasmano senza sosta le nostre reti neurali, che a loro volta determinano il modo in cui pensiamo e sentiamo. Paragonarci a delle macchine, per quanto meravigliose e sofisticate, ci porta a travisare la nostra natura. Sempre più spesso, invece, la psicologia e la biologia contemporanee tendono a recuperare una metafora antica ma efficace: l'idea che possiamo coltivare il nostro io più profondo, che lo si chiami mente o animo, proprio come faremmo con un giardino. Combinando mirabilmente scienza e letteratura,
psicoanalisi e racconto, indagine teorica e consigli pratici, questo libro si propone di ricordarci una verità fondamentale, che chi lavora a contatto con la natura conosce da sempre: prenderci cura di un orto o un giardino, di piante che crescono seguendo il proprio ciclo vitale, può influire in modo positivo sulla nostra salute, il nostro benessere psicologico e la nostra autostima. I carcerati cui viene concesso di dedicarsi a coltivare un piccolo giardino hanno meno probabilità di ricadere nel crimine; i giovani a rischio che si sporcano le mani di terra hanno più probabilità di finire gli studi; gli anziani che si dedicano all'orticultura vivono meglio e più a lungo.
Dai richiedenti asilo ai giovani in carriera, dai veterani di guerra ai neopensionati, Sue Stuart-Smith ci racconta storie illuminanti di persone che lottano con depressione, lutti e dipendenze, per mostrarci quanto poco sappiamo ancora del potere rigenerativo che la natura può esercitare sulle nostre vite.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831803878
1

Esordi

Esci alla luce delle cose pura, ti sia maestra la Natura.1
William Wordsworth (1770-1850)
Molto prima di decidere che sarei diventata una psichiatra, molto prima di avere il sentore che il giardinaggio avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nella mia vita, ricordo di aver sentito la storia della guarigione di mio nonno dopo la Prima guerra mondiale.
Si chiamava Alfred Edward May, ma tutti lo conoscevano come Ted. Poco più di un ragazzo quando entrò nella Royal Navy, si formò come radiotelegrafista e diventò sommergibilista. Nella primavera del 1915, durante la campagna di Gallipoli, il sottomarino su cui prestava servizio si incagliò nello stretto dei Dardanelli. Quasi tutti i membri dell’equipaggio sopravvissero, ma furono presi prigionieri. Ted tenne un minuscolo diario in cui documentò i primi mesi di detenzione in Turchia, ma non il successivo periodo in una serie di brutali campi di lavoro, l’ultimo dei quali fu un cementificio sulle coste del mar di Marmara, da cui evase via mare nel 1918.
Fu salvato e curato su una nave ospedale britannica, dove recuperò le forze sufficienti a tentare il lungo viaggio di ritorno a casa via terra. Ansioso di ricongiungersi con la fidanzata Fanny, che aveva lasciato quando ancora era un giovane aitante, si presentò alla sua porta con un vecchio impermeabile malconcio e un fez calato sulla testa. Lei quasi non lo riconobbe, perché pesava poco più di quaranta chili e aveva perso tutti i capelli. Il viaggio di 6500 chilometri, riferì Ted, era stato «spaventoso». Quando il medico della Marina l’aveva visitato, aveva riscontrato una denutrizione così avanzata da lasciargli solo qualche mese di vita.
Ma Fanny lo accudì con devozione, dandogli piccolissime quantità di zuppa e di altri alimenti a intervalli di un’ora, finché fu di nuovo in grado di digerire il cibo. Ted iniziò il lento processo di guarigione e sposò Fanny di lì a poco. In quel primo anno restava spesso seduto per ore, passandosi due spazzole morbide sulla testa calva con la speranza che gli ricrescessero i capelli. Alla fine rispuntarono folti, ma tutti bianchi.
L’amore e una determinazione paziente gli permisero di sfidare la fosca prognosi che aveva ricevuto, ma le esperienze nei campi di prigionia gli rimasero dentro, con il terrore che lo attanagliava soprattutto durante la notte. In particolare aveva paura dei ragni e dei granchi, che strisciavano sui corpi dei detenuti mentre cercavano di dormire. Negli anni seguenti non sopportò di restare solo al buio.
La fase successiva della sua ripresa cominciò nel 1920, quando si iscrisse a un corso di orticoltura della durata di un anno, una delle numerose iniziative lanciate nel dopoguerra per la riabilitazione degli ex soldati che avevano subito traumi. Quindi partì per il Canada, lasciando Fanny a casa. Andò in cerca di nuove opportunità, sperando che lavorare la terra aumentasse la sua forza fisica e mentale. All’epoca, il governo canadese gestiva programmi per incoraggiare gli ex soldati a immigrare, e migliaia di uomini tornati dalla guerra affrontarono la lunga traversata atlantica.
Ted partecipò alla raccolta del frumento a Winnipeg, poi trovò un lavoro in pianta stabile come giardiniere in un allevamento di bestiame ad Alberta. Fanny lo raggiunse per una parte dei due anni che trascorse laggiù ma, per qualche ragione, il loro sogno di iniziare una nuova vita in Canada non si avverò. Nonostante ciò, Ted fece ritorno in Inghilterra più sano e più forte.
Qualche anno dopo, lui e Fanny comprarono un piccolo podere nell’Hampshire, dove mio nonno allevava api, maiali e galline e coltivava fiori, frutta e verdura. Per cinque anni, durante la Seconda guerra mondiale, lavorò alla stazione radiotelegrafica dell’ammiragliato a Londra; mia madre ricorda la valigia di cinghiale che portava con sé in treno, zeppa di carne macellata in casa e ortaggi freschi. Lui e la valigia tornavano poi con scorte di zucchero, burro e tè. Mia madre racconta con un certo orgoglio che la famiglia non dovette mai mangiare margarina durante la guerra e che Ted coltivava persino il tabacco.
Rammento il buonumore di mio nonno e il calore emanato da un uomo che, ai miei occhi infantili, sembrava robusto e sicuro di sé. Non era minaccioso e non sbandierava il suo trauma ai quattro venti. Passava ore a curare l’orto e la serra ed era inseparabile dalla sua pipa, con il sacchettino del tabacco sempre a portata di mano. La mitologia di famiglia attribuisce la lunga vita sana di Ted – che arrivò alle soglie dell’ottantina –, e la sua riconciliazione con alcuni dei terribili abusi che aveva vissuto, agli effetti rigeneranti del giardinaggio e del lavoro della terra.
Quando avevo dodici anni, Ted morì all’improvviso per la rottura di un aneurisma mentre passeggiava con il suo amato cane da pastore scozzese Shetland. Il quotidiano locale pubblicò un necrologio intitolato: Muore l’ex sommergibilista più giovane. Riferiva che mio nonno era stato dato per morto due volte durante la Prima guerra mondiale e che, quando lui e un gruppo di altri prigionieri erano evasi dal cementificio, avevano vissuto di sola acqua per ventitré giorni. Le ultime parole dell’articolo documentavano il suo amore per il giardinaggio: «Ha dedicato gran parte del suo tempo libero a curare il suo vasto giardino ed è diventato famoso nella regione per aver coltivato diverse orchidee rare».
In cuor suo, mia madre deve aver preso spunto da questa frase quando mio padre morì a meno di cinquant’anni, lasciandola vedova a un’età relativamente giovane. Nella seconda primavera dopo la tragedia trovò una nuova casa e si incaricò di rimettere a nuovo un giardino trascurato. In quel periodo, pur essendo io una ragazza tutta assorbita da se stessa, notai che oltre a scavare e a sarchiare si stava riconciliando con la perdita subita.
In quella fase della mia vita, il giardinaggio era una cosa in cui pensavo che non avrei mai investito molto tempo. Ero interessata al mondo della letteratura e avevo velleità intellettuali. Per quanto mi riguardava, era soltanto un hobby all’aria aperta e non aspiravo a estirpare erbacce più di quanto aspirassi a infornare torte o a lavare le tende.
Mentre frequentavo l’università, mio padre uscì ed entrò più volte dall’ospedale, e morì proprio all’inizio del mio ultimo anno. La notizia arrivò un mattino di buon’ora e, non appena spuntò l’alba, uscii nelle silenziose vie di Cambridge, attraversando il parco e proseguendo lungo il fiume. Era una giornata di ottobre, luminosa e soleggiata, e il mondo era verde e immobile. Gli alberi, l’erba e l’acqua erano in qualche modo confortanti e, in quell’ambiente tranquillo, riuscii ad accettare l’orribile realtà: il fatto che mio padre non fosse più in vita per godersi quello splendore.
Forse quel luogo verde e ricco d’acqua mi ricordò tempi più felici e il paesaggio che per primo mi era rimasto impresso da bambina. Mio padre aveva una barca sul Tamigi e, quando io e mio fratello eravamo piccoli, passavamo le nostre vacanze e i fine settimana sull’acqua, una volta facendo addirittura una spedizione fino alla sorgente del fiume, o il più vicino possibile. Mi torna in mente l’immobilità della foschia mattutina, la sensazione di libertà quando giocavamo sui prati e pescavamo, dedicandoci a quello che allora era il nostro passatempo preferito.
Durante gli ultimi semestri a Cambridge, la poesia acquisì una nuova valenza emotiva. Il mio mondo era cambiato in maniera drastica e mi aggrappai a versi che descrivevano le consolazioni della natura e il ciclo della vita. Dylan Thomas e T.S. Eliot mi furono entrambi di conforto, ma il migliore fu Wordsworth, il poeta che a sua volta aveva imparato
a contemplare la natura non come nell’ora
della giovinezza spensierata, ma sentendo talvolta
la sommessa dolente voce dell’umanità...2
Il dolore isola anche quando è un’esperienza condivisa. Una perdita che devasta una famiglia genera nei suoi membri il bisogno di appoggiarsi l’uno all’altro ma, allo stesso tempo, tutti sono affranti, sul punto di crollare. Si prova l’impulso di proteggersi a vicenda dall’eccesso di emozioni pure, e può essere più facile lasciar affiorare i sentimenti lontano dagli altri. Forse gli alberi, l’acqua, i sassi e il cielo sono impermeabili alle emozioni umane, ma non ci respingono. La natura rimane indifferente ai nostri sentimenti e, non essendoci contaminazione, possiamo provare una sorta di consolazione che aiuta ad alleviare la solitudine della perdita.
Nei primi anni dopo la morte di mio padre, mi sentii attratta dalla natura, non dai giardini, bensì dal mare. Le sue ceneri erano state sparse vicino alla casa di famiglia sulla costa meridionale, nelle acque del Solent, un trafficato canale pieno di navi, ma fu sulle lunghe spiagge solitarie del Norfolk settentrionale, dove non si vedeva nemmeno l’ombra di un’imbarcazione, che trovai il massimo conforto. I vasti orizzonti erano i più sconfinati che avessi mai visto. Sembrava il limite del mondo conosciuto, il più vicino possibile a mio padre.
Avendo studiato Freud per un esame, cominciai a interessarmi ai meccanismi della mente. Rinunciando al progetto di un dottorato in letteratura, decisi di diventare medico. Poi, al terzo anno di medicina, sposai Tom, per il quale il giardinaggio era uno stile di vita. Stabilii che, se piaceva a lui, sarebbe piaciuto anche a me ma, se devo essere sincera, ero ancora scettica. In quel momento, lo vedevo come l’ennesimo lavoro da sbrigare, anche se (purché splendesse il sole) era più piacevole stare all’aperto che al chiuso.
Anni dopo, insieme alla nostra piccola Rose, ci trasferimmo in una fattoria ristrutturata vicino alla casa della famiglia di Tom, a Serge Hill, nell’Hertfordshire. Negli anni seguenti, a Rose si aggiunsero Ben e Harry, mentre io e mio marito ci dedicammo a creare un giardino dal nulla. «Il Fienile», come avevamo battezzato la nostra nuova casa, era circondato da un campo e la sua posizione su una collina rivolta a nord ed esposta ai venti rese necessario che gli fornissimo un riparo. Ricavammo alcuni appezzamenti dal terreno sassoso tutt’intorno, piantando alberi e siepi, costruendo steccati di canniccio e lavorando il suolo per migliorarlo. Nulla di tutto ciò sarebbe potuto accadere senza l’enorme aiuto e incoraggiamento dei genitori di Tom e di alcuni generosi amici. Quando organizzavamo feste per la raccolta dei sassi, Rose, con i nonni, le zie e gli zii, ci dava una mano a riempire infiniti secchi di pietre e ciottoli da portare via con la carriola.
Ero stata sradicata sul piano fisico ed emotivo e avevo bisogno di recuperare il mio senso della famiglia, ma non avevo ancora capito chiaramente che il giardinaggio poteva aiutarmi a mettere radici. Ero molto più consapevole della crescente importanza del giardino nella vita dei nostri figli. Cominciarono a costruire rifugi tra gli arbusti e passavano ore ad abitare mondi immaginari creati da loro, perciò il giardino era un luogo fantastico e reale allo stesso tempo.
L’energia creativa e la lungimiranza di Tom mandarono avanti il progetto e fu soltanto quando Harry, il nostro ultimogenito, iniziò a camminare che anch’io cominciai a coltivare le piante. Affascinata dalle erbe, divorai libri sull’argomento. Quella nuova scoperta sfociò in esperimenti culinari e in un giardinetto di erbe aromatiche che ormai era diventato «mio». Non sono mancati i disastri, tra cui una borragine strisciante e una tenace saponaria, ma usare le erbe dell’orto per cucinare i miei piatti migliorò la qualità della nostra vita e da lì alla coltivazione di verdure il passo fu breve. Non potete immaginare il mio entusiasmo!
A quel punto avevo circa trentacinque anni e lavoravo come psichiatra per il servizio sanitario nazionale. Dandomi dei risultati concreti in cambio dei miei sforzi, il giardinaggio faceva da contrappunto alla vita professionale, dove ero impegnata con le proprietà molto più intangibili della mente. Il lavoro in corsia e nei consultori mi costringeva a restare al chiuso, ma il giardinaggio mi trascinava fuori.
Scoprii il piacere di vagare nell’orto spostando liberamente l’attenzione qua e là, notando come le piante si trasformassero, crescessero, soffrissero, dessero frutti. A poco a poco cambiai opinione su gesti banali come estirpare le erbacce, sarchiare e annaffiare; capii che l’importante non è tanto compierli, quanto lasciarsi coinvolgere al cento per cento mentre li si compie. Annaffiare è rilassante – purché non abbiate fretta – e, per quanto possa sembrare strano, quando si finisce, ci si sente rinvigoriti, come le piante.
L’emozione più forte che provavo all’epoca, e che provo tuttora, è veder germogliare i semi. Non danno indizi su che cosa succederà e le loro dimensioni non hanno alcuna relazione con la vita latente al loro interno. I fagioli erompono all’improvviso, senza troppa bellezza, ma fin dall’inizio si riesce a sentire il loro vigore ribelle. I semi di nicotiana sono così impalpabili, come granelli di polvere, che non si vede nemmeno dove siano stati piantati. Sembra inverosimile che possano servire a qualcosa, figurarsi a regalare nuvole di profumati fiori di tabacco, eppure ci riescono. Capisco che una nuova vita crea attaccamento dal modo quasi ossessivo in cui torno a controllare i semi e le piantine, in cui vado nella serra, trattenendo il respiro quando entro, sperando di non scombussolare nulla, di non rompere il silenzio della vita che sta per nascere.
Fondamentalmente, non si scende a compromessi con le stagioni quando si fa giardinaggio, anche se si può restare impuniti per brevi rinvii, decidendo per esempio di seminare o di piantare nel fine settimana successivo. Prima o poi arriva il momento in cui ci si rende conto che un ritardo potrebbe trasformarsi in un’opportunità mancata, una possibilità perduta ma, come quando si salta in un fiume impetuoso, una volta messe le piantine nel terreno, si viene trasportati dall’energia del calendario della terra.
Mi piace fare giardinaggio soprattutto all’inizio dell’estate, quando la forza della crescita è al culmine e ci sono moltissime cose da piantare. Dopo aver cominciato, non riesco più a smettere. Continuo nel crepuscolo finché è quasi troppo buio per vedere cosa sto facendo. Quando finisco, la casa brilla di luce e il suo calore mi attira all’interno. Il mattino dopo, quando sgattaiolo fuori, eccolo lì. L’appezzamento su cui stavo lavorando si è assestato durante la notte.
Com’è ovvio, non si può fare giardinaggio senza incappare in delusioni, come quando esci fremendo di impazienza, per poi trovarti davanti i tristi resti di incantevoli giovani lattughe o file di cavoli spogliati senza pietà. Bisogna riconoscere che le irragionevoli abitudini alimentari di lumache e conigli possono scatenare accessi di rabbia impotente, e la persistenza e la grinta delle erbacce possono essere molto, molto estenuanti.
Non tutta la soddisfazione derivante dalla cura delle piante proviene dalla creazione. In giardino, la distruttività ha il pregio di non essere solo permissibile, ma anche necessaria, perché in sua assenza si viene invasi. Molti gesti di cura sono intrisi di aggressività, per esempio maneggiare le cesoie, usare la doppia vangatura per l’appezzamento degli ortaggi, sterminare le lumache, uccidere i pidocchi, strappare la gramigna o sradicare le ortiche. Potete dedicarvi a una qualunque di queste attività con dedizione e senza rimorso, perché sono tutte forme di distruttività al servizio della crescita. Una lunga seduta in giardino può lasciarvi sfiniti nel fisico ma stranamente rigenerati dentro, insieme purificati e carichi di nuove energie, come se nel frattempo aveste lavorato su voi stessi. Una specie di catarsi del giardinaggio.
Ogni anno, quando usciamo dall’inverno, la serra mi attira con la promessa del suo calore, mentre il mondo esterno è sferzato dai venti di marzo. Cosa c’è di tanto speciale nell’entrare in una serra? Forse il livello di ossigeno nell’aria, o la qualità della luce e del caldo? O semplicemente la vicinanza alle piante con le loro sfumature di verde e i loro profumi? È come se, in questo spazio privato e protetto, tutti i sensi si acuissero.
L’anno scorso, in una nuvolosa giornata primaverile, ero impegnata ad annaffiare, seminare, smuovere il terriccio e a finire alcuni lavoretti. Poi il cielo si rasserenò e, con il sole che inondava la serra, fui trasportata in un mondo a sé, un mondo di verde iridescente, pieno di foglie che controluce parevano trasparenti. Le goccioline sparpagliate sulle piante appena annaffiate catturavano i raggi, scintillanti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1. Esordi
  4. 2. La natura verde: la natura umana
  5. 3. I semi e la fiducia in se stessi
  6. 4. Un sicuro spazio verde
  7. 5. Portare la natura in città
  8. 6. Radici
  9. 7. Il potere dei fiori
  10. 8. Soluzioni radicali
  11. 9. La guerra e il giardinaggio
  12. 10. L’ultima stagione della vita
  13. 11. Il tempo del giardino
  14. 12. La vista dall’ospedale
  15. 13. La verde miccia
  16. Bibliografia essenziale su natura, giardini e salute
  17. Note
  18. Ringraziamenti
  19. Inserto fotografico
  20. Copyright