Lo strano caso del buon samaritano
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Lo strano caso del buon samaritano

Il Vangelo per buoni, cattivi e buonisti

  1. 252 pagine
  2. Italian
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Lo strano caso del buon samaritano

Il Vangelo per buoni, cattivi e buonisti

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Il Vangelo ci racconta di un dottore della Legge che, per mettere alla prova Gesù, gli chiede come ottenere la vita eterna. Sa di dover amare Dio sopra ogni cosa e il suo prossimo come se stesso, ma si domanda chi sia, in definitiva, quel «prossimo». La risposta, in forma di parabola, la conosciamo tutti: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto…». Se Gerusalemme è la città dell'Altissimo, Gerico sorge quasi trecento metri sotto il livello del mare. È quel fondo che - prima o poi, in una forma o nell'altra - tocchiamo tutti. Perché, come ci ricorda don Dino Pirri, «scivolare verso la depressione di Gerico non significa vivere da depravati o da nemici di Dio. Basta essere rassegnati davanti alla vita che scorre. Senza fantasia, senza sogni, senza passione». Intrecciando la parola delle Scritture a quelle di Guccini, Gaber e Vasco Rossi, e affiancando il proprio percorso di credente a riflessioni sulla Chiesa e sulla vita quotidiana, don Dino ci guida a comprendere il senso profondo della parabola più rivoluzionaria dell'intero Vangelo, che va ben oltre l'esortazione a compiere buone azioni. Un racconto che ci chiede di immedesimarci, di prendere posizione; che ci mette di fronte a domande capaci di interrogare tutti, credenti e non. Cosa rende felice una vita? Qual è il nostro posto nel mondo? Cosa significa amare ed essere amati? Con la spontaneità e l'ironia che l'hanno reso celebre sui social e in televisione, don Dino condivide con noi la sua esperienza personale - piena dei dubbi che costellano ogni esistenza, tra scelte e contraddizioni, gioie e paure, rivelazioni e resistenze - e ci ricorda che la fede è amore e gioia prima che leggi e comandamenti. Un invito al dialogo rivolto ai credenti che non si accontentano di risposte preconfezionate e ai non credenti che hanno voglia di confrontarsi. Senza la pretesa di trovare risposte definitive, ma con la voglia costante di continuare a cercarne.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831804172
CINQUE

«E vedo anche una Chiesa che incalza più che mai. Io vorrei che sprofondasse con tutti i papi e i Giubilei»

Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».

Comportati bene e altre storie

Il Samaritano svela l’amore di Dio. Le sue modalità.
Dio vede e comprende; si coinvolge e si avvicina; dona la vita che ha, attraverso parole efficaci e segni concreti; si fa carico del limite e della debolezza, che noi cattolici chiamiamo anche peccato, fino a diventare un tutt’uno con la sua vita, in vista di una piena guarigione. Ma non basta.
«Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.»
Dio conduce l’umanità ferita nell’albergo, che simbolicamente richiama la Chiesa, cioè la comunità dei suoi discepoli. Molti pensano alla Chiesa come a qualcosa di astratto. La Chiesa dice o non dice, la Chiesa fa o non fa, dovrebbe dire o no, dovrebbe fare o no. Spesso lo sento dire dai cristiani, come se loro non ne facessero parte. Come se loro non fossero Chiesa. L’albergo a cui il Signore affida l’umanità è la comunità di tutti i battezzati, che accolgono la parola del Vangelo e ogni giorno provano a viverlo, come possono, come uomini e donne che hanno sperimentato quell’amore e si sentono spinti ad amare allo stesso modo.
La Chiesa è la comunità dei battezzati, guariti e in parte ancora feriti, liberati ma non definitivamente, salvati ma sempre imperfetti. Per questo bisogna ricordare che i due denari li ha tirati fuori un Altro, non sono frutto del proprio lavoro, ma un dono da amministrare e non un possesso. Un servizio e non un dominio. Una cura che richiede sempre un intervento ulteriore, una presenza viva, una grazia attuale. Una cura cosciente della propria fragilità, che confida in un ritorno definitivo.
«Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno.»
Una nonna provava a perorare la causa del nipote. Un quindicenne che avrebbe dovuto fare la cresima in quell’anno. Non partecipava mai agli incontri di gruppo e neppure all’eucaristia domenicale. Ma soprattutto i suoi genitori non rispondevano mai ai messaggi e alle sollecitazioni, erano completamente disinteressati. Cominciai a pensare che l’unica persona interessata alla cresima fosse la nonna.
«Lo so che non vengono mai in chiesa, ma sono tanto bravi.»
Ecco l’equivoco. Confondere la fede con l’etica, la salvezza con il comportamento, il dono con il premio. Per fare la cresima non devi rispettare uno standard di bontà, ma devi lasciarti toccare dall’amore di Dio. Eppure lo pensano in tanti.
«Se mi comporto bene, sono un buon cristiano anche se non vado a messa.» Certamente non basta andare a messa per essere buoni cristiani. Ma neppure basta comportarsi bene. E poi comportarsi bene secondo chi e seguendo quale criterio? A casaccio. Come mi sento. Ma soprattutto: solo i cristiani si comportano bene? Gli atei, i miscredenti, gli appartenenti ad altre fedi religiose, no?
Il grande equivoco di ridurre il cristianesimo a una norma di comportamento ha incentivato i moralisti a farsi improbabili difensori della fede o a scagliarsi contro di essa, a seconda delle prospettive. Estremismi contrapposti.
«Il cristianesimo non si basa sull’amore?» No. O meglio, non esattamente. Non come lo intendiamo noi. Lo abbiamo imparato ormai: Dio non è mai come ce lo immaginiamo noi.
Il cristianesimo non si basa sull’amore nostro, cioè sulla nostra volontà o capacità di amare, sul nostro comportarci bene. Questo infatti non ci renderebbe differenti dagli altri. Non è questa la «differenza cristiana». Tutti dichiarano di voler fare del bene. Spesso anche i criminali lo affermano.
La differenza sta nel decidere di amare come Dio mi ama, con parole e gesti rintracciabili nella realtà. La differenza sta nel decidere di amare il nemico, poiché Dio mi ama anche quando sono ostile e lontano. La differenza sta nel decidere di vivere un amore che comprende senza giustificare, che si compromette senza connivenza, che cura senza umiliare, che salva senza chiedere nulla in cambio. Un amore che scaturisce dalla risurrezione.
Ecco. Il cristianesimo scaturisce dalla risurrezione di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Su questo fatto il cristiano fonda il suo vivere e agire. Su questo è costretto a prendere posizione. Sulla risurrezione ho deciso, un giorno, di giocarmi la vita.
La risurrezione è il carattere della vita cristiana, che chiama a fare memoria della necessità del ritorno che saprà colmare la disparità tra il nostro desiderio e la felicità. Quel tanto necessario che ci sarà restituito al suo ritorno.
Quando mi spiegarono questo fatto della risurrezione, lo intesi come una sorta di «e vissero tutti felici e contenti» delle favole. Anticamente, nel teatro greco interveniva il deus ex machina, un attore introdotto nella scena da effetti speciali, che avrebbe sciolto tutti i nodi della trama irrimediabilmente ingarbugliata e apparentemente senza soluzione. Oggi lo definirei una sorta di «ctrl+alt+canc» esistenziale.
Questa cosa non mi convinse molto, andando avanti con gli anni. Tutti vissero felici e contenti: adesso soffri quanto vuoi, non preoccuparti, perché poi muori e risorgi e si risistema tutto. Questa idea di un Padre buono che ti chiude in uno stanzino al buio e ti lascia al freddo e a digiuno, per manifestare il suo amore qualche decina di anni dopo, donandoti una vita eterna e senza sofferenza. Tanto poi c’è la risurrezione. Non mi convinceva per niente.
E, infatti, nei miei studi teologici ho compreso meglio. La mattina di Pasqua, l’annuncio della risurrezione coglie tutti impreparati. Anche gli apostoli. I sentimenti dominanti in chi aveva seguito Gesù per tanti anni sono sconcerto e paura.
L’approfondimento di quello che troviamo scritto nei Vangeli mi ha aiutato a guardare alla risurrezione come alla domanda fondamentale della mia vita e non come a una definitiva risposta. Spero di non cadere nell’eresia, ma questo è.
La prima ora di quel mattino di risurrezione è caratterizzata da un gran terremoto, che fa tremare e ribalta le abitudini, demolisce le certezze e scuote le fondamenta, svelando cosa stava precariamente in piedi.
La notte di Pasqua del 2020 eravamo in pieno isolamento a causa del Covid-19. Non potevamo celebrare l’eucaristia, ma ho pregato nella chiesa vuota.
«Ora, Signore, anche noi abbiamo bisogno di un angelo, di un tuo segnale che possa dare quiete alle nostre domande, alla paura, all’agitazione.
«Cosa hai da dirci, Signore, in questa notte di luce?
«Perché noi questa luce, te lo diciamo da figli, facciamo fatica a vederla.
«Quella pietra, rotolata via dal sepolcro, questa notte pesa, quasi fino a schiacciarmi. Mi pesa come il tuo silenzio!
«Perché, Signore, da risorto non parli? Perché non ci dici come liberarci da questa paura che ci opprime? Perché non ci permetti di stare con le persone che amiamo? Perché neanche la mattina di Pasqua c’è un corpo da abbracciare? Quanto mi mancano gli abbracci!
«Come la notte della prima Pasqua, facesti alzare e uscire Israele dalla terra della schiavitù e della desolazione. Come al mattino del compimento della Pasqua, dicesti alle donne di alzarsi e di andare in Galilea per vederti.
«Così Signore, aiutami ad alzarmi, a riconoscerti presente nella mia vita ogni giorno, anche quando attraverso l’assurdo, l’incomprensibile e l’inaccettabile, affinché possa correre anche dai miei fratelli e dalle mie sorelle, a dire che la vita non si riesce sempre a spiegarla e a risolverla, ma tu rimani con noi, sempre.
«Non per spiegarci le cose. Non per risolverci i problemi. Ma per dirci che ci vuoi bene. Che il Padre non ci abbandona nella prova. Che lo Spirito Santo ci difende dal male e ci consola. Che non dobbiamo avere paura.
«In questa notte di veglia, mi basta! Amen.»
La risurrezione, come l’amore, è una domanda di Dio, che attende risposta.

La risurrezione sconvolgente

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.»
La mattina della risurrezione vengono offerte due notizie apparentemente insignificanti.
La prima è che siamo nel primo giorno della settimana, che i cristiani chiameranno il Giorno del Signore, Dies Dominicus, cioè la domenica. Non è solo un riferimento cronologico, ma una prima spiegazione di quanto è avvenuto. Siamo nel primo dei giorni della prima delle settimane. Leggendo tutto il Vangelo di Giovanni, ci accorgiamo che ci si riferisce al primo giorno di una nuova creazione, un nuovo inizio, un tempo inedito, gravido di possibilità.
La seconda è che questa novità assoluta ci raggiunge mentre «era ancora buio». Anche qui non abbiamo soltanto un’indicazione cronologica, ma lo svelamento di cosa portano nel cuore Maria di Magdala e gli apostoli: era ancora buio.
La nuova creazione ci raggiunge mentre siamo nel buio, che prende la forma della nostra personale esperienza umana: la paura, il dolore, il dubbio, la solitudine, il fallimento, il rimpianto, l’incertezza, il peccato, la morte. Insomma, Dio non sceglie un terreno ideale per gettare il seme del suo regno, ma entra nella vita, così com’è. Per questo il Samaritano non cambia strada per passare oltre, ma si avvicina, si fa prossimo.
Appena vede che la pietra è stata tolta dal sepolcro, Maria fugge via di corsa, portatrice della più bella notizia della storia. E di corsa raggiunge Pietro e un altro discepolo, quello che Gesù amava. E, a loro volta, anch’essi si mettono a correre. Tornano al sepolcro, però uno dei due è più veloce e arriva prima, ma aspetta l’altro.
Ecco la Chiesa. Una comunità di uomini e donne che non si rassegnano al buio e corrono per incontrare il Signore. Tutti corrono. Anche questa non è un’indicazione banale. Tutti corrono ma per arrivare insieme. L’uno cerca di stare al passo con gli altri, aspettando il più debole. Questa è la Chiesa del mattino di Pasqua: una comunione che non può rimanere ferma. Ma deve continuamente uscire fuori, andare oltre, agitarsi per amore.
Sembra strano, ma nessuno ha capito bene cosa sia accaduto. Più che la gioia, pare lo sconcerto a definire la scena. Nessuno ha compreso ancora e forse nessuno comprenderà fino in fondo. Certamente la Pasqua ha a che fare con il nostro destino definitivo. Ma cosa significa vivere da risorti già ora?
In greco «risurrezione» si può tradurre anche «rialzarsi». Un tempo davvero nuovo, nel quale possiamo tutti rialzarci da ogni tenebra, già ora e poi nell’eternità, poiché qualcuno ci ha visti e si è preso cura di noi, facendoci rialzare, cioè risorgere.
La risurrezione di Gesù non è un simbolo, ma un fatto, rintracciabile nella vita della comunità cristiana. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il crocifisso risorge a vita nuova. E dona anche a noi la sua vita, la sua bellezza, la sua luce, la sua gioia, la sua pace, la sua eternità.
Nella sera del giorno di Pasqua, le porte del luogo in cui erano gli apostoli sono chiuse. E forse sono chiusi anche i loro cuori, perché hanno paura e ancora non hanno capito questo fatto della risurrezione. Va bene, è risorto. Ma questo cosa cambia? Cosa c’entra con la mia vita di tutti i giorni?
Provate a chiederlo ai cristiani che la domenica frequentano abitualmente la chiesa. Provate a chiederlo a quelli che si definiscono «buoni cristiani»: «Che c’entra la risurrezione con la tua vita? In cosa la rende differente? Da quel mattino di Pasqua, cosa sarebbe cambiato?». Molti non sapranno rispondere. Forse troverete anche voi le porte chiuse.
Chiuse le porte del cenacolo, chiuse le porte delle nostre liturgie comunitarie, chiuse le porte del nostro cuore. Per paura, per incomprensione, per indegnità. Non importa. Gesù entra ugualmente e dona la sua pace, cioè la sua presenza, e dona lo Spirito Santo, cioè la sua vita per noi.
Ma uno degli apostoli quella sera era assente e non ha incontrato Gesù risorto. Tommaso, chiamato Didimo, che significa «gemello». Non era lì quando è venuto Gesù. Gli altri raccontano, spiegano, cercano di essere convincenti, ma Tommaso rimane fermo: «Se non vedo e se non tocco, io non credo».
Una lettura moralistica del Vangelo ha designato Tommaso come l’apostolo incredulo e quindi un po’ cattivo, che però si converte e allora diventa buono. Ma beati quelli che crederanno senza aver visto! Quelli sì che sono bravi!
La domenica successiva Gesù torna a manifestarsi ai suoi e questa volta c’è anche Tommaso, al quale il Signore offre la sua Parola e il suo Corpo, come avviene nell’eucaristia ogni domenica, chiedendo una risposta al discepolo: «Non essere incredulo, ma credente».
Ho sempre guardato il Vangelo al contrario, cioè dalla prospettiva di Dio e di quello che vuole comunicarci. Non riesco a credere che Dio, l’Onnipotente, abbia infranto il tempo e lo spazio, si sia fatto carne, abbia percorso le strade della storia, fino a consumarsi per amore sulla Croce, fino a raggiungerci nell’abisso dei nostri sepolcri, tre giorni come imprigionato nella morte, per dirci che dobbiamo fidarci di Lui e basta. Per dirci che dobbiamo obbedirgli e basta. Quale sarebbe la novità? Non era bastato tutto l’Antico Testamento? Quale sarebbe la bella notizia?
Allora mi lascio sedurre dall’amore di Dio, che si fa carne e dona la vita e risorge, per farmi capire che, anche se nel momento giusto non c’ero e anche se non credo, Lui torna indietro a cercarmi. E non si stanca di toccare il mio cuore chiuso e anestetizzato dal dolore.
La bella notizia non è che uno dei tanti non crede, ma che il Signore torna indietro anche per uno dei tanti. Come aveva detto nella parabola della pecora smarrita, della moneta perduta, del figlio scappato di casa, Dio è risorto per venirmi incontro sempre e ovunque mi trovi. Solo allora Tommaso accoglie la testimonianza e l’insegnamento della Chiesa, perché ne ha fatto esperienza, ha veduto e toccato e conosciuto Dio, nella realtà. E si arrende a ogni evidenza, facendo la più bella professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». Come il sospiro di un innamorato.
Allora Tommaso non è più lo scolaretto discolo che non ha saputo fare i compiti e rimane indietro, ma l’ultimo a cui Dio indirizza la sua cura, raggiungendo la sua incredulità e colmando ogni distanza. Con l’amore. E poi, Tommaso mi piace anche perché non si accontenta dei racconti di noi credenti, non si fida delle dottrine, ma vuole sperimentare, lui stesso, la risurrezione di Gesù. Questo vuol dire vedere e toccare.
Che c’entra questa risurrezione con la mia vita?
Non basta dire di credere. Ma bisogna toccare la risurrezione, metterci le mani dentro, per scoprire in cosa oggi mi riguardi. Come prenda la mia carne. Come entri nella mia storia.
Tommaso riconosce che la fede slegata dalla vita non serve. Preferisce dichiarare ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. «Andavo sempre a puttane»
  4. UNO. «Lanciata a bomba contro l’ingiustizia»
  5. DUE. «Noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai. Noi sapremo sfruttare le tue qualità»
  6. TRE. «Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno, non si guardò neppure intorno, ma versò il vino e spezzò il pane per chi diceva ho sete e ho fame»
  7. QUATTRO. «Portatemi Dio, lo voglio vedere. Portatemi Dio, gli devo parlare. Gli voglio raccontare di una vita che ho vissuto e che non ho capito»
  8. CINQUE. «E vedo anche una Chiesa che incalza più che mai. Io vorrei che sprofondasse con tutti i papi e i Giubilei»
  9. Copyright