Nebbia
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Nebbia

  1. 272 pagine
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Pubblicato per la prima volta nel 1914, Nebbia è senz'altro il romanzo più originale del grande scrittore e filosofo basco. "Buffonata tragica" che agita la vita distratta e sonnolenta del protagonista, ente di finzione alla ricerca di una propria esistenza. Lungo una trama che germina da dialoghi inarrestabili, e mediante una virata finale che disorienta il lettore di allora - e quello di oggi - l'opera rivela in Unamuno un singolare spirito moderno, anticipatore di Pirandello nell'abbattere la parete che separa autore e personaggio. Una prova di fantasia dischiusa nel cuore della cattolica Spagna, un romanzo che - come suggerisce Antonio Castronuovo nella sua introduzione - nacque senza cravatta. E senza cravatta, con estro informale e un po' ribelle, va assaporato.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831803649

Romanzo senza cravatta

Antonio Castronuovo
Miguel de Unamuno (1864-1936) non mise mai, nemmeno una volta nella vita, la cravatta. Pur pervenendo a funzioni pubbliche di rilievo (diventò nel 1890 docente nell’antica università di Salamanca e magnifico rettore dieci anni dopo), rifiutò questo simbolo formale e predilesse la foggia puritana dell’abito. Per quanto possa sembrare marginale, il dettaglio aiuta a svelare il senso intimo di Nebbia (Niebla), romanzo che Unamuno pubblicò alla soglia dei cinquant’anni, la sua più autentica nivola (neologismo che fa la sua comparsa, tra parentesi, sotto il titolo della prima edizione, uscita a Madrid nel 1914 dall’editore Renacimiento). La materia viva del romanzo è infatti da assumere senza cravatta, vale a dire con la spigliatezza con cui l’autore, disponendosi al genere dopo alcune prove abbastanza deludenti, sviluppò una poetica originale su una trama piuttosto bislacca e accettò anche il rischio dell’imprudenza. D’altra parte, definendo il suo nuovo romanzo non più novela (che in castigliano sta per romanzo) ma nivola, Unamuno sembrò volersi liberare da ogni legame, annunciando che in quelle pagine andava a sbrigliare la propria intelligenza, lasciandola libera di scorrazzare. E infatti Nebbia è un sorprendente romanzo colmo di scaltrezza e arbitrio.
Ora, rinunciare alla cravatta ha in sé qualcosa di esistenzialista, cela una volontà di distinzione dal mondo formale, è un gesto riottoso alla riduzione dell’uomo a oggetto, un segno di rivalutazione dell’esistenza individuale. Sulla correttezza dell’accostamento di Unamuno all’esistenzialismo, sul peso di anticipatore di questioni che si sarebbero sviluppate a partire dagli anni trenta del Novecento, la critica s’interroga. Non è tanto importante infatti giudicare se egli anticipò certi motivi, quanto considerare che non fu propriamente un filosofo, anzi non fece mistero della sua ostilità verso i filosofi. La sua opera è meglio situabile nei confini dell’antropologia, di un pensiero che pone al centro di ogni interesse l’uomo concreto fatto di corpo e anima, opera di un uomo in conflitto con se stesso e col mondo, perché applicava alla realtà non la struttura del pensiero filosofico ma una concezione tragica della vita.
Ci sono tuttavia elementi – proprio a cominciare dall’avversione alla filosofia – che inducono a parlare per lui di esistenzialismo: nel pensiero gli interessava evitare ogni astrazione logica, ogni generalizzazione idealistica, e mirava a esprimersi mediante contributi che facessero dell’uomo il soggetto, e non solo l’oggetto, del pensare. Qualcosa di esistenzialista è nel fatto che il suo pensiero – come ha ben compreso María Zambrano, che a “don Miguel” ha dedicato saggi misurati – non riuscì a diventare una filosofia, perché non volle diventare filosofia. Fu un pensiero che s’indirizzò – scelta esistenzialista anche questa – su un binario espressivo colloquiale. Intense, dirette e antifilologiche sono infatti le sue opere maggiori: saggio poetico è Del sentimento tragico della vita (1913), forse il titolo più noto di Unamuno fuori dalla Spagna; rifacimento narrativo e glossa appassionata al romanzo di Cervantes è la Vita di don Chisciotte e Sancio Panza (1905), operazione letteraria che vagamente rammenta quella compiuta su Pinocchio dal nostro Giorgio Manganelli: narrare di nuovo una celebre storia, ricrearla mediante il proprio stile e guarnirla di private meditazioni.
L’insofferenza per la cravatta delinea la figura di un uomo informale, alieno dai lacci dell’ufficialità, uno che non ha tempo da perdere allo specchio, un intellettuale non specialista e impegnato a conseguire – come tutti i grandi dilettanti onnivori – la compiuta sfericità della cultura umanistica. I più famosi ritratti di Unamuno, come quello di José Gutiérrez Solana del 1936, effigiano un uomo di barba bianca, con abito oscuro ma pratico e capace, occhialini ovali, seduto su un comodo scanno, con un libro chiuso in mano e un dito tra le pagine a far da indice. Raffigurazione simbolica della lettura che, per risultare efficace, deve compiersi nell’agio informale. A questa situazione, con singolare coincidenza, sembra riferirsi anche la xilografia che fregia la prima edizione di Nebbia: al centro della quarta di copertina è raffigurata una dama con ampia veste damascata, assisa su un seggio confortevole, le ginocchia poco sollevate dal poggiapiedi imbottito, un libro aperto in grembo. È anche un simbolo di quell’Unamuno che pur avendo trascorso una vita di peripezie – tra il bombardamento carlista della nativa Bilbao, la rimozione dall’incarico di rettore, l’esilio e i bagliori della guerra civile spagnola – visse a Salamanca conducendo una vita domestica tra le cui discipline s’intuisce la lettura col libro in grembo. La lettura più carezzevole, più feconda.

HIDALGO RIBELLE

Quando Unamuno assurge a personaggio del romanzo Nebbia, lungo il capitolo XXXII, lascia che gli altri attori parlino di lui e ne diano una definizione che lo individua come persona stramba, che ha l’abitudine di dire verità fuori luogo. Infatti Unamuno appartiene alla famiglia degli intellettuali che, pur suggerendo qualcosa di feudale, agiscono in senso innovativo, uomini che percorrono tragitti consueti, ma crescono selvatici, con quella punta d’anarchia che li rende creature autonome e di ineluttabile conflitto.
A cominciare dall’idea che espresse in Tradizione eterna, saggio del 1895, dove affermò che è tradizionale solo ciò che è umano, e che pertanto lo è solo il provvisorio e l’accidentale. A queste condizioni, adagiando l’idea di tradizione nel flusso transitorio dell’umano, nulla più da conservare resta (solo i tradizionalisti adulterati negano che la tradizione, cioè la “trasmissione”, avvenga nelle forme di un transito, e ne fanno qualcosa di immobile e ristagnante…). Dunque, come Unamuno segnala in un altro saggio, Natura e spirito, «non può essere conservatore chi non ha nulla da conservare», sentenza che viene chiaramente indirizzata a se stesso, a chi, rigoroso e severo, appare tuttavia persona indocile. Unamuno assume il concetto di tradizione al modo dinamico del ribelle e in quanto tale è capace di disseminare la propria opera di paradossi, di manifestare apertamente una forma garbata di dissidenza, capace anche di scagliare sull’infingarda Spagna del primo Novecento la ruvida distesa della glossa al Don Chisciotte.
«Ribelle» è un termine un po’ forte per Unamuno, ma non è gettato a caso. Con naturalezza se ne avvale anche la Zambrano, quando nel saggio Unamuno e il suo tempo focalizza una contraddizione insita in don Miguel: cittadino di Salamanca, egli sembra vivere in una sorta di clausura urbana, ma agisce invece sempre con piglio europeo. Calato in una città di provincia, sigillato in una vita familiare che scorre monastica, Unamuno fu sempre pronto a far sentire la sua voce nell’agone intellettuale spagnolo ed esercitò un’instancabile attività pubblica, con interventi polemici e saggistici su giornali e periodici. Sembra un signore medievale o un umanista del rinascimento, che essendo però dotato di un fondo di «liberalismo essenziale», si erge come «un hidalgo ribelle alla civilizzazione di corte del XIX secolo». Dunque uomo isolato, ma con l’ansia di dilatare la propria azione e le proprie idee oltre i confini del monastero domestico e oltre le mura della città eletta a chiostro. Da quelle mura esalava una scrittura di statura nazionale, e anche europea: perché il ritiro provinciale di Unamuno non impedì il contatto con un largo flusso di idee, coltivato mediante intense letture e grazie alla conoscenza di molte lingue straniere e classiche.
«Un hidalgo ribelle»… Anche la prudente Zambrano non elude quel termine. Ribelle: locuzione su cui misurare l’intimo contrasto di Unamuno, quel suo essere a un tempo dotto e moderno, funzionario pubblico eppure contestatore, amante della passionalità iberica (la “cardiacità” spagnola) ma ostile al torpore dei tempi. Ribelle anche verso le convenzioni narrative, che riesce a turbare proprio con Nebbia, romanzo nel quale egli sancisce il diritto che ha lo scrittore, per quella durevole norma che in arte reclama invenzione, di cambiare le carte in tavola, di compiere ogni tanto un salto, se non proprio di gridare «e lasciatemi divertire!», come sbottò Palazzeschi nel 1910 – anni vicini a quelli di cui parliamo, anni di fucina di quel che chiamiamo, estensivamente, Novecento. Ecco: con Nebbia Unamuno si fa autore del Novecento, ne acquisisce i tratti, sbotta anche lui – civilmente – e comincia a narrare ciò che fino al giorno prima aveva teorizzato nella produzione saggistica.
Ma nel romanzo Unamuno pensa anche al lettore, mirando a coinvolgerlo nella storia narrata. L’opera infatti appartiene a chi la legge e se ne nutre, a chi la rende viva e l’assume come terreno su cui far germogliare altre idee, altre immagini. Il lettore è infatti libero di interpretare come vuole e può anche recepire messaggi che non sono quelli che l’autore intende trasmettere, come Unamuno decreta nel 1926 in Come si fa un romanzo: «Che m’importa che tu non legga, lettore, quel che ho voluto metterci, se vi leggi quel che ti accende di vita? Mi sembra sciocco che un autore si distragga a spiegare quel che ha voluto dire, visto che non ci importa quel che ha voluto dire ma quel che ha detto, anzi quello che abbiamo sentito». Oltre ad assumerlo senza cravatta, Nebbia è allora romanzo da leggere anche difendendo il diritto di rendere fertile il proprio atto di lettura, di stimolare il proprio gusto personale: ottimi viatici per un romanzo singolare, che reclama un lettore preparato alle irruzioni, allo sconcerto, al gusto del paradosso. E che non rifiuti, pregiudizialmente, l’esperimento narrativo.

LA VITA DELLA FINZIONE

Di un esperimento narrativo, infatti, Nebbia si fa carico. Il romanzo presenta una storia di andamento convenzionale (svelamento sentimentale, intreccio di umane passioni, legame e liquefazione del legame), ma con una certa stravaganza di sviluppo e con un finale che contribuisce a dissestare, nel 1914, il calmo fluire del romanzo spagnolo. Ma non solo: Nebbia interferisce con le convenzioni narrative su piani molteplici.
Costituisce in primo luogo una tappa originale per lo stesso Unamuno. Dopo la prova ampollosa del romanzo Pace nella guerra (1897) e la satira piuttosto prevedibile del razionalismo scientifico narrata in Amore e pedagogia (1902), egli si era intensamente dedicato a saggi e poesia. Soltanto nel 1913 tornò al genere narrativo, pubblicando la collezione di racconti Lo specchio della morte, che immediatamente precede Nebbia. Ma interessante è anche quel che fece dopo: ritornò a formule narrative più convenzionali con Abel Sánchez del 1917, La zia Tula del 1921 e San Manuel Buono, martire del 1930. Solo nel 1927 ruppe questo flusso con l’originale esibizione di Come si scrive un romanzo, teoria del fatto letterario inteso come lotta per affermare la propria individualità.
Rivelatori anche i rapporti tra Nebbia e la narrativa spagnola di quegli anni. Unamuno appartenne alla cosiddetta Generazione del ’98, gruppo intellettuale che reagì alla crisi politica successiva alla guerra contro gli USA (1898) e la perdita delle ultime colonie, e che nel primo ventennio del Novecento suscitò il volto spirituale della nuova Spagna. Vi si affiancò il programma culturale del Modernismo, i cui rappresentanti erano più inclini alla forma che al contenuto. Della Generazione del ’98 fecero parte, oltre a Unamuno, quei maestri della prosa che animarono la lingua spagnola con grande ricchezza di sfumature: Azorín, Pío Baroja, Ramiro de Maeztu, Angel Ganivet, Ramón Menéndez Pidal. Ma cosa fanno questi autori nel 1914, quando Unamuno propone la trama umorale di Nebbia? Ganivet non scende al confronto, dato che scompare proprio nel 1898; Menéndez Pidal produce lavori di erudita filologia; de Maeztu segue gli eventi bellici italiani per i quotidiani spagnoli. Produzione letteraria di rilievo è quella dei ritratti critici di Azorín Al margine dei classici (1915) o delle testimonianze di Baroja sulla società spagnola Memorie di un uomo d’azione (1913-1928), ma produzione di sobria trasparenza saggistica, senza carica di sperimentalismo linguistico. Questo giunge non a caso con un modernista, Ramón del Valle-Inclán, che vive praticamente negli stessi anni di Unamuno e che nel 1914 compone romanzi, ma che produce le sue pagine più originali con Il tiranno Banderas del 1926. Dunque Nebbia, nel 1914, costituisce per la letteratura spagnola una novità narrativa di rilievo.
Ma non basta: il romanzo segna una traccia innovativa anche per quel che succedeva in Europa in quel torno di anni. Si può ad esempio notare che Nebbia esce poco dopo La morte a Venezia di Mann e La strada di Swann di Proust, e negli stessi mesi in cui vedono la luce Il processo di Kafka e Le segrete del Vaticano di Gide. L’imponente rivoluzione dell’Ulisse di Joyce, quel monologo interiore destinato a infinite ripercussioni nel mondo narrativo, sarebbe invece scoppiata più tardi, nel 1922. Per una comparazione col caso italiano vale notare che Unamuno è coetaneo di Cesare Pascarella, Salvatore di Giacomo, Svevo, D’Annunzio e Pirandello. Sul fulcro del 1914 convergono Il mio Carso di Slataper, i Canti Orfici di Campana, i Frammenti lirici di Rebora, Pianissimo di Camillo Sbarbaro, Zang Tumb Tumb di Marinetti e il Controdolore di Palazzeschi. Solo nel 1923 giunge La coscienza di Zeno di Svevo, romanzo che inaugura l’esplorazione dell’inconscio e che ha qualche similitudine con la prosa di Unamuno, se non altro per il fatto che i protagonisti sono entrambi sognatori, fluttuanti e svagati.
Ne discende che il “minore” Unamuno produce nel 1914 qualcosa che ha un valore di novità per se stesso, per la Spagna e anche per l’Europa letteraria, collocandosi tra coloro che fecero la propria parte per alimentare il Novecento. E tutto ciò grazie al fiotto di fantasia che Nebbia riversa sul lettore, per la vaporosa leggerezza del titolo e del protagonista, per l’invenzione straordinaria del finale in cui, abbattuta la barriera tra autore e lettore, Unamuno abbatte anche quella tra autore e personaggio. Questo è l’esperimento condotto negli ultimi capitoli di Nebbia quando, con una stretta virata, il protagonista Augusto Pérez si reca a Salamanca a parlare con don Miguel – l’autore che lo ha creato – per ottenere il permesso di suicidarsi, ma sotto sotto per ottenere più vita di quella letteraria. E infatti, agendo così, Augusto si dota di un carattere e anche di uno stile, e finalmente vive.
Don Miguel gli dice però senza mezzi termini che non si può uccidere chi non è vivo, chi non esiste: Augusto scopre insomma di non essere persona reale ma ente di finzione, personaggio nato dalla fantasia di uno scrittore. La sua protesta è inefficace: deve obbedire alla volontà dell’autore, che lo farà perire quando vorrà. E la reazione è terribile: Augusto getta in faccia a don Miguel la propria verità: che forse è lui, don Miguel, a non essere reale, ma solo il pretesto utile a far nascere la storia, perché un autore non vive al di fuori dei personaggi che ha inventato. Sdegnato, don Miguel gli comunica la condanna capitale: lo farà morire non appena rimetterà piede in casa.
L’espediente del finale proveniva dal magma che sosteneva l’intelletto di Unamuno: il bisogno squisitamente tragico che ha l’uomo singolo di esistere, di fissare i confini della propria individualità, e ancor più radicalmente: di persistere, di sottrarsi alla caducità e mirare a una qualche forma di immortalità, in perfetta intesa con la concezione che apre Del sentimento tragico della vita: «La tua essenza, lettore, la mia […] e quella di ogni uomo che sia uomo, altro non è che il conato, lo sforzo che compie per continuare a essere uomo, per non morire».
Augusto, come gli altri personaggi di Unamuno, è naufrago della realtà: lotta per esistere, si fa strada tra la nebbia della vita, tenta di diradare quella che offusca la sua stessa mente; sembra che lasci scorrere il tempo, ma invece si oppone a quel flusso incontenibile. E la lotta al tempo è una peculiarità dell’animo spagnolo, che conduce in questo modo una sfida all’incompiutezza. La lotta di Augusto è la stessa dello spagnolo Unamuno, meglio: del basco Unamuno, che dedicò la vita ad assimilare totalmente, dalla lingua ai modi, l’essenza della spagnolità.

PIRANDELLIANO SENZA SAPERLO

Nel paratesto che chiude il capitolo XXV di Nebbia l’autore, che ha assistito alla conversazione di Augusto e Víctor, sottolinea di essere il demiurgo dei «due poveri diavoli nivoleschi»: è l’annuncio della virata finale del romanzo, quel colloquio tra personaggio e autore che, sul piano narrativo, può anche sembrare incongruo. Si tratta di un urto inventivo che lascia interdetto il lettore e che assegna a Nebbia un certo grado d’incoerenza letteraria, ma è la virata che in un solo colpo proietta Unamuno nella posizione di artefice. Ora, la coincidenza tra finzione narrativa ed esperienza umana, il confronto tra enti reali e d’invenzione, la contrapposizione tra eredità biologica e divinazione, intelligenza e sentimento, quella stessa tra creatore e personaggio, sono temi che abitano la letteratura spagnola, e che già affiorano dalle grandi opere prodotte dal Seicento: il Chisciotte di Cervantes e La vita è sogno di Calderón de la Barca. Ed esiste anche una prova più recente, il romanzo tragicomico L’amico Manso (1882) di Benito Pérez Galdós, che fa oscillare il lettore tra illusione e realtà, ribaltando la narrazione su se stessa per rivelarne la dimensione fittizia.
Unamuno non è propriam...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Romanzo senza cravatta. Antonio Castronuovo
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Bibliografia
  6. NEBBIA
  7. Prologo
  8. Post-prologo
  9. I
  10. II
  11. III
  12. IV
  13. V
  14. VI
  15. VII
  16. VIII
  17. IX
  18. X
  19. XI
  20. XII
  21. XIII
  22. XIV
  23. XV
  24. XVI
  25. XVII
  26. XVIII
  27. XIX
  28. XX
  29. XXI
  30. XXII
  31. XXIII
  32. XXIV
  33. XXV
  34. XXVI
  35. XXVII
  36. XXVIII
  37. XXIX
  38. XXX
  39. XXXI
  40. XXXII
  41. XXXIII
  42. ORAZIONE FUNEBRE A GUISA DI EPILOGO
  43. Storia di Nebbia
  44. Postfazione
  45. Genesi e struttura del romanzo. Sara Poledrelli
  46. Copyright