Un frammento di affresco proveniente da Ercolano ci mostra una classica scena raffigurante una coppia di commensali. Un uomo con un corno potorio e una donna dalla capigliatura ornata da una retina, seduti su una kline (dal greco κλίνη), sfoggiano vesti sgargianti color oro. Accanto un tavolino su cui sono adagiate delle coppe di vetro, alle loro spalle una piccola ancella che aspetta forse di ricevere disposizioni. Ad attrarci sono le vesti della donna per le loro trasparenze: si tratta molto probabilmente della preziosa e costosissima seta, un tessuto la cui origine ci porta a intraprendere un lungo viaggio.
Il nostro percorso comincia da molto lontano, in un luogo così remoto che – apparentemente – non ha nulla a che vedere con il Mediterraneo: la Cina. In realtà, sono numerose le affinità tra gli imperi romano e cinese: per durata, estensione territoriale, conquiste culturali e problemi amministrativi.
L’impero cinese nasce con l’unificazione a opera di Shi Huangdi, al quale si devono l’esercito di terracotta di Xi’an e la costruzione della Grande Muraglia. A seguito della morte del primo imperatore, Liu Bang, un servo affrancato di origini contadine, scaltro guerriero e molto amato dal popolo, fondò la dinastia Han. Se Huangdi aveva fondato la Cina, gli Han ne assicurarono la prosperità e stabilirono e consolidarono progressivamente i rapporti con l’Occidente.
Il periodo di massimo splendore militare e culturale dell’impero Han combacia con quello dell’impero romano. Per più di quattrocento anni, dal 206 a.C. al 220 d.C., la Cina visse un periodo di grande espansione e di notevoli progressi culturali, agricoli e scientifici, tra cui ricordiamo l’invenzione della carta. Nello stesso periodo, Roma diede inizio a una fase di espansione verso Oriente e di profondi cambiamenti nell’economia, nel commercio, nella politica e nella cultura. A trarne vantaggio fu la Via della Seta: il commercio si intensificò e le merci iniziarono a circolare da Roma all’India e fino alla Cina.
A proposito della seta, fibra tessile rivoluzionaria e assai pregiata che lasciò a bocca aperta i Romani, converrebbe a questo punto inserire una digressione che spiega in quale modo, poco ortodosso e cruento, il popolo romano venne a contatto con essa. L’occasione si presentò nel 53 a.C. con la battaglia di Carre, conosciuta come Harran, situata nella parte orientale della Turchia. Il conflitto ebbe un epilogo disastroso per l’esercito di Crasso: sette legioni, per un totale di circa trentacinquemila uomini e ottomila ausiliari, vennero umiliate e distrutte in poche ore dai Parti guidati da Surena. A perdere la vita in battaglia furono anche Crasso e suo figlio Publio. Inoltre, leggenda vuole che il sovrano dei Parti abbia ordinato di versare oro fuso nella gola del triumviro, pena per non aver saputo estinguere la sete d’oro che lo aveva costretto a spingersi fin lì. Il contrappasso ben prima di Dante. In quell’occasione e per la prima volta i Romani restarono abbagliati dalla lucentezza dei catafratti del popolo avversario ma soprattutto meravigliati per la fattura degli stendardi realizzati con un materiale così morbido e raffinato. Secondo alcuni studiosi molti uomini dell’esercito sconfitto vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi agli Unni. Nel 36 a.C. il generale Chen Tang si scontrò poi con il popolo unno e i prigionieri vennero arruolati come mercenari: secondo le cronache cinesi questi soldati sapevano costruire ponti (tipico del genio civile romano) e lottare secondo una tecnica specifica, definita da loro «formazione a squame di pesce», l’equivalente di quella a testuggine. I Cinesi fecero poi insediare i prigionieri romani nella provincia di Gansu, depredata agli Unni nel 121 a.C. per difendere i confini. Il nome della città era Li-Jien (talvolta Lı˘-Chien o Liqian), nome con cui i Cinesi indicavano un riferimento all’Occidente, traducibile con Alessandria, che allora apparteneva all’impero romano. Ma nel 9 d.C. l’imperatore Wang Mang impose che i nomi delle città corrispondessero alla realtà: Li-Jien diventò così Jieh-lu, che significa «prigionieri allevati» o «catturati in un assalto». Insomma, nella nuova cittadina cinese si stabilì un gruppo di Romani, del tutto differenti dai loro fratelli: hanno naso diritto, sopracciglia spesse, capelli castani o rossi, talvolta ricci, la pelle chiara e l’alta statura, e vengono chiamati «lunghi nasi» dai loro concittadini, un termine generalmente utilizzato per designare gli occidentali. Loro rivendicano comunque di discendere dai famosi legionari romani.
Tornando invece agli aspetti commerciali, questi ci conducono ai rapporti che si instaureranno tra Oriente e Occidente, già dal 130 a.C. Gli imperatori cinesi si erano premurati di inviare ambascerie in Partia e in Siria, così da rafforzare il controllo sulle merci, stipulare accordi e confermarsi come intermediario primario orientale degli scambi. Per imbattersi nella prima testimonianza romana sulla Cina e le sue usanze si dovrà però attendere la fine del I secolo d.C.: lo storico romano Floro si sofferma sulle ambascerie inviate all’imperatore Augusto come riconoscimento per la rinnovata grandezza di Roma, in seguito alle conquiste legate alla vittoria ad Azio nel 31 a.C. Floro racconta che anche i Cinesi, tra gli altri, inviarono i loro ambasciatori e che questi portarono in dono elefanti, pietre preziose e perle. Gli omaggi furono apprezzati soprattutto in virtù del fatto che il loro era stato un lungo viaggio: impiegarono infatti ben quattro anni. Floro descrive poi la differenza di carnagione affermando che essi «provengono da un altro sole». Intorno al I secolo d.C. il viavai tra est e ovest, e viceversa, era ormai diventato prassi per i commercianti, con l’intermediazione dei Parti, che gestivano e tassavano i beni in entrata e uscita. Questo ruolo li rendeva indispensabili sia per Roma sia per gli Han. Quando nel 97 d.C. Ban Chao, in una campagna militare contro gli Unni, inviò l’ambasciatore Gan Ying a Roma per conto dell’imperatore, questi, arrivato sul Mar Nero e giunto il momento di imbarcarsi per la capitale, si trovò davanti i Parti che gli descrissero un viaggio molto più lungo e difficoltoso di come era in realtà. In tal modo, essi si assicuravano di rimanere padroni di una parte della Via della Seta e dei guadagni che ne derivavano. Allarmato, l’ambasciatore girò sui tacchi e l’incontro non ebbe mai luogo. Ovviamente i Parti riservavano lo stesso trattamento anche agli ambasciatori provenienti da Roma.
Il contatto tra i due imperi avvenne nel 166, quando i Romani arrivarono finalmente in Cina. Avevano già visitato l’Egitto, il mar Eritreo, l’India e la penisola malese, l’Indocina e il Vietnam. Era la prima volta che si vedevano ambasciatori del Da Qin (altro nome di Li-Jien) – la «Grande Cina», come i Cinesi chiamavano Roma. Da allora mercanti romani approdarono sempre più spesso nel Fu-nam (l’attuale Cambogia). Da quel momento non si hanno più notizie di contatti diretti fino all’inizio del III secolo d.C., quando Roma inviò regali e oggetti preziosi in vetro colorato all’imperatore Cao Rui (227-239 d.C.). L’ultima testimonianza risale a Marco Aurelio Caro, che inviò alcuni ambasciatori nel 284 d.C.
La Roma imperiale conosceva la Cina e ne apprezzava le merci, in primis la seta, che Plinio il Vecchio riteneva fosse ricavata dagli alberi tramite immersione in acqua di una parte della pianta e che egli criticava in quanto bene eccessivamente costoso poiché istigava alla lussuria; ciononostante, gli abiti in seta, definiti dallo stesso Plinio «vestiti trasparenti», erano molto ricercati dalle matrone romane e destinati a diventare status symbol. Per questo motivo la Cina venne ben presto definita come il Paese della seta, e anche i nomi che le venivano conferiti rimandavano al materiale: Serinde (oggi Xinjiang), Serica o Sericum. I Romani nutrivano una grande ammirazione per il popolo cinese, denotato come fortemente civilizzato, gentile e pacifico; proprio per questi motivi, esso poteva rappresentare anche una grande minaccia.
I Romani però disponevano di notizie frammentarie e scarne su come venisse prodotta la preziosa seta che giungeva in città attraverso l’ormai famosa mediazione dei Parti. Nel Mediterraneo infatti esistevano anche altre tipologie di seta. A Cos se ne produceva una varietà grezza, ottenuta da un insetto chiamato bombys, i cui bozzoli non si dipanavano ma si cardavano a pettine (l’Archeologico di Napoli possiede un rocchetto proveniente da Pompei che conserva ancora oggi questo tipo di filo); si potevano così tessere stoffe rinomate a Roma per la loro leggerezza e trasparenza, anche se non avevano la perfezione di quella cinese. Esisteva poi una seta prodotta dal baco da gelsi in Cina del Sud, India e Persia. Nel Libro degli Han posteriori si parla anche del bisso, un tessuto raro e costoso che si ottiene tessendo i fili color oro secreti da uno specifico tipo di conchiglia marina; la stoffa ottenuta è particolarmente fine e setosa e si può tingere anche in diversi colori. Ma la vera seta proveniva dall’attuale regione di Xi’an e forniva un tessuto morbido, brillante e bianchissimo, l’unico che poteva sopportare perfettamente la tintura.
Da questo tessuto pregiato prende il nome il reticolo di percorsi che ha più di duemila anni, noto come la Via della Seta, e che si estende per ottomila chilometri, dall’odierna Xi’an fino ad Atene e a Costantinopoli. Così battezzata per la prima volta dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nella seconda metà dell’Ottocento, la Via della Seta è la rotta commerciale terrestre più lunga e importante della storia mondiale: dalla dinastia Han sino al Rinascimento europeo, i prodotti cinesi vi venivano trasportati fino a Venezia, Roma e altre città italiane. Era il mezzo che metteva in comunicazione due mondi completamente differenti, legati però dal commercio; non a caso per molti rappresentò una delle prime forme di globalizzazione, sia economica sia culturale: gli scambi che vi venivano effettuati non riguardavano solamente oggetti preziosi, ma anche uomini, tecnologie, culture, conoscenze, religioni e pure epidemie.
Il commercio che si stabilì lungo la Via della Seta generò benessere e sviluppo economico per la Cina, con protagonista l’ormai nota seta, che, leggera e facile da trasportare, in epoca romana era pagata a peso d’oro. Altra merce di scambio era poi la porcellana, la cui fabbricazione risale all’impero Ming (1368-1644): sebbene fosse più pesante e fragile, era comunque molto apprezzata.
Parlando di esplorazioni e della Via della Seta, non si può non menzionare un viaggiatore che ha segnato la storia, Marco Polo. Veneziano, classe 1254, scrisse Il Milione, vera e propria enciclopedia geografica che racchiude le conoscenze essenziali dell’Europa del XIII secolo sull’Asia. Assieme al padre Niccolò e allo zio Matteo, dal 1271 al 1295 Marco Polo viaggiò verso la Cina attraversando la Via della Seta. Quando i tre arrivarono a destinazione, era il periodo della dinastia Khan, di cui l’ambasciatore e mercante descrisse dettagliatamente membri e ricchezza. Quando tornò a Venezia nel 1295, aveva raccolto una discreta fortuna, che venne investita nell’impresa commerciale di famiglia. Seppur non sia stato il primo europeo a raggiungere la Cina, fu il primo a redigere un dettagliato resoconto del viaggio, che fu ispirazione per generazioni di viaggiatori europei (non ultimo Cristoforo Colombo) e fornì spunti e materiali alla cartografia occidentale.
Alcune invenzioni, nate in Cina, sono giunte fino a noi proprio lungo la Via della Seta. Una di queste fu senza dubbio la carta, che stravolse il mondo dell’editoria e della cultura e che contribuì, insieme all’invenzione della stampa a caratteri mobili, a una serie di rivoluzioni scientifiche e industriali.
Un’altra invenzione degna di nota fu la polvere da sparo, nata durante la dinastia Tang intorno al 900 d.C. e diffusa grazie al popolo mongolo. La polvere da sparo cambiò radicalmente il modo di fare la guerra e di conseguenza anche i confini politici; con le nuove armi, infatti, l’esercito era in grado di distruggere le fortificazioni delle città e abbattere i nemici in modo più rapido ed efficace.
Mentre le nuove invenzioni si spostavano dalla Cina verso Occidente, alcune religioni e scuole di pensiero si muovevano in senso contrario lungo le rotte della Via della Seta: oltre al buddismo, grazie all’impero mongolo della dinastia Yuan si aprirono le porte ai popoli di religione e cultura musulmane. Per il cristianesimo, nonostante contatti in epoche precedenti, si dovette attendere il gesuita Matteo Ricci per la nascita, nel XVII secolo, delle prime chiese e diocesi riconosciute dalla corte Ming. Al contrario, l’ampia diffusione delle grandi religioni limitò la conversione e l’incontro con nuovi adepti di scuole di pensiero tradizionale cinese in Occidente, come confucianesimo e taoismo.
Sulla Via della Seta a essere scambiati erano infine anche piante e animali. Il commercio di bestiame e nuove colture finì chiaramente per influire sull’agricoltura e sull’economia. Arrivarono così in Cina diverse specie di nuovi ortaggi e frutti che modificarono la dieta della popolazione; anche l’importazione di cavalli, cammelli e pecore giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo del Paese.
Da Occidente arrivarono frumento, fagiolini, erba medica, sesamo, cipolle, cetrioli, carote, melograni, uva, fichi, angurie e altri tipi di meloni; il grano, originario della Mezzaluna Fertile, iniziò a essere trasportato in Cina attraverso il Corridoio del Gansu intorno al 2800 a.C. circa. In senso opposto invece viaggiavano riso e miglio, che arrivarono in Europa tra il V e il II secolo a.C.
La Via della Seta perse la sua fama alla fine del XIV secolo, quando salì al potere la dinastia Ming. Grazie alle navi, si potevano trasportare i prodotti molto più velocemente, a costi ridotti e senza correre troppi pericoli, per cui le rotte via terra furono lentamente abbandonate.
Con l’invasione giapponese della Cina negli anni Trenta, quando il popolo nipponico controllava buona parte delle coste e dei porti cinesi, la Via della Seta tornò a essere battuta, sebbene con obiettivi ormai diversi. Dal 1937 al 1941 i sovietici inviarono armi e aiuti di vario genere alla Cina proprio grazie alla rotta settentrionale della Via della Seta.
Nel 2013 il governo cinese ha preparato e approvato un piano per la riapertura del commercio via terra lungo la Via della Seta conosciuto come Belt and Road Initiative (Bri). Gli investimenti principali prevedono nuove linee ferroviarie per i treni ad alta velocità, autostrade e altre infrastrutture moderne da e per l’Europa. Il motivo? Innanzitutto dimostrare al mondo le possibilità della Cina come nuova potenza mondiale; in secondo luogo si fa largo il desiderio di dare una spinta al commercio e all’economia del Paese. Senza contare poi la possibilità di accrescere i flussi turistici verso le città lungo le antiche rotte commerciali tra Asia Centrale e Cina Nord-occidentale.
L’aquila e il dragone – dove per aquila si intende oggi anche l’America – potrebbero tornare a confrontarsi, come più di duemila anni fa, sempre sulla spinta del commercio.