Il rispetto è tutto. Un vero capofamiglia, un re, un boss mafioso, un barone universitario, o anche solo un padre degno di questo nome, dev’essere capace di incutere rispetto e di reagire quando gli altri non ne mostrano abbastanza. È una questione di onore. Questo non vuol dire che un’unica offesa o un affronto decreti la fine del responsabile. Un capofamiglia ama la propria cerchia, cerca di ingraziarsi tutti, ed è ancora più rispettato quando riesce a riportare la pecora nera all’ovile.
Perciò una seconda chance non si nega a nessuno. La punizione iniziale, voltare le spalle, non è permanente. È per spronarti a comportarti meglio. La porta è aperta, o almeno socchiusa. Basta inginocchiarsi per ritrovare il calore dell’approvazione paterna. Anzi, sarai un motivo di gioia; ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove… eccetera. La persona irrispettosa pone una sfida. Ne viene riconosciuto il coraggio, apprezzato l’orgoglio. Specialmente se si tratta di una donna. Quando, per esempio, come racconta Giambattista Basile, il re di Belpaese corteggiò la principessa Cinziella, figlia del re di Solcolungo, che lo respinse, lui non rinunciò a lei. Subito si travestì da giardiniere e la indusse con l’inganno a diventare sua amante. Lei iniziò a prenderci gusto. Rimasta incinta, fu obbligata ad andare via. Lui, senza svelarle la propria identità, la portò nel suo palazzo di Belpaese e la rinchiuse in una stalla nei suoi terreni, fuori dalla cerchia familiare e domestica, dove dovette cibarsi delle fette di pane che lui le lanciava con un arco da una finestra lontana. Solo quando le nacquero due maschietti, due bei nuovi figli di famiglia, il re cedette, e a lei «parze assai chiù doce sto punto de consolazione che tutte li affanne passate». Anche se capì che in futuro avrebbe dovuto «tenere vasce le vele». Quelle tribolazioni erano state a fin di bene.
Analogamente, si narrano storie di figli che mancano di rispetto ai propri padri. Il rispetto va mostrato attivamente nel tempo, e una mancanza in tal senso, per quanto sporadica, è causa di disapprovazione. Anzi, dimenticare i propri doveri è più offensivo che sgarrare di proposito; come dire che il capofamiglia è irrilevante, che ci si può dimenticare di lui. Ma, anche in questo scenario, viene sempre offerta una seconda possibilità e, stando alle favole, anche una terza. Lo stesso dicasi per una figlia troppo orgogliosa per accettare un degno pretendente e in generale per i giovani che non esprimono la giusta gratitudine a zii, zie, baroni, fate e persino orchi che gli hanno spianato la strada. In generale chi deve mostrare rispetto sarà sempre visto come un giovane, un novellino, un ingenuo. Questo è un punto importante. «Attorno a me vedo solo giovani,» dice la poesia di Ernesto «almeno così ho imparato a chiamarli.» È proprio questa percezione di te come giovane, quindi non del tutto responsabile delle tue azioni, che fornisce al capofamiglia o al padrone un alibi per offrirti una seconda possibilità. Altrimenti, se lo avessi insultato di proposito, da adulto consapevole, dovrebbe farti fuori punto e basta.
Così una mattina Antonio Furlan ricevette un’email che gli tendeva un ramoscello d’ulivo per una possibile redenzione. Malgrado l’affronto alla professoressa Modesto insito nella sua adesione al progetto di ricerca promosso da James e Federica, ma non al progetto proposto dalla direttrice di dipartimento (Ricadute globali: l’Occidente dallo specchio dell’Oriente), Antonio venne contattato dalla segretaria del rettore e invitato, con scarso preavviso, a intervenire in un convegno organizzato dalla Società dei linguisti italiani, di cui Ottone era stato presidente e ora era una sorta di benevola eminenza grigia: il titolo del convegno era Passato e presente della lingua franca: latino, francese, inglese. Quale futuro per l’italiano?.
Non esattamente il suo campo, pensò Antonio. Consultò l’agenda e poi Google Maps, perché il nome del posto gli era nuovo. C’era anche il problema che si sarebbe dovuto defilare da un precedente impegno preso mesi prima. Ma si rendeva conto che poteva essere pericoloso rifiutare quell’invito. Una porta che si apre oggi non è detto che lo faccia anche domani. Il contratto da ricercatore di Antonio era stato rinnovato un anno prima e la legge non consentiva ulteriori rinnovi. Nei due anni a venire o gli offrivano un ruolo da docente o si sarebbe ritrovato senza lavoro. Poi gli venne in mente una cosa.
«Cara Valeria,» scrisse in un’email «per caso conosci un posto che si chiama Madonna del Buoncammino? È dalle tue parti? Il rettore mi ha invitato a partecipare a un convegno che si terrà lì. Forse potrei proporti per la tavola rotonda finale, dove potresti presentare la tua ricerca.»
Valeria ricevette l’email mentre stava friggendo le pettole per la vigilia di Santa Caterina. Ormai da qualche mese suo fratello lavorava in una trattoria molto conosciuta di Bari Vecchia. Per la prima volta il lavoro sembrava piacergli. Aveva scoperto la cucina e presentato domanda di ammissione alla Top Chef Academy che, a dispetto del nome inglese, distava un quarto d’ora a piedi dal loro appartamento. Forse aveva trovato la sua strada. Ma sembrava ancora fragile e Valeria si sentiva come bloccata dalla sua vulnerabilità.
Allo stesso tempo il dottorato l’aveva delusa. All’inizio sembrava che avrebbero offerto un corso intensivo sulle metodologie di ricerca per tutti i dottorandi, ma le lezioni erano state rimandate più volte e poi organizzate in fretta e furia alla fine del secondo semestre, in un’accozzaglia di incontri insulsi di quaranta ore complessive. Presto si sparse la voce che quelle lezioni fossero state pensate innanzitutto per permettere ai professori di completare il loro monte ore annuale.
Alla fine di ottobre era partita per il Nord con il treno notturno, il più economico, senza cuccetta; tutti i dottorandi dovevano partecipare al collegio di dottorato, dove sarebbero stati sottoposti a una prima valutazione. L’incontro cominciò alle due di pomeriggio o giù di lì, in un’aula del terzo piano, ma gli studenti dovevano aspettare fuori finché non venivano convocati. Il rettore voleva prima discutere con i professori in privato. Alle tre erano ancora in attesa. Non potevano andare al bar nell’eventualità che la porta si aprisse e venissero chiamati a entrare. Non potevano uscire a fumare. Gli studenti sciamavano nel corridoio tra una lezione e l’altra. Non c’erano sedie per sedersi né finestre per guardare fuori. Gli aspiranti accademici si appoggiarono al muro di cemento a spettegolare. Cos’altro potevano fare? Il tale professore è gay, disse qualcuno. Il talaltro ha una tresca con una studentessa, che poi non è neanche bella. Uno parlò della ricerca che stava svolgendo a Parigi, un’altra degli archivi che stava esaminando in Spagna. Valeria si rese conto che il padre o la madre di tre di loro erano professori ordinari in altre università. Si fingevano ansiosi ma erano sicuri di sé. Nel percorso dei loro genitori vedevano la carriera a cui erano naturalmente destinati.
Valeria attraversò il corridoio dopo la scalinata centrale per prendere un caffè alla macchinetta. Attese il suo turno, perché c’era sempre fila, poi inserì le monete, scelse l’espresso e, proprio in quel momento, da lontano qualcuno gridò «Valeria!».
Erano stati convocati. «Prendilo tu» disse al ragazzo dietro di lei.
Era un’aula come le altre e il rettore era seduto alla grande cattedra davanti a tutti e parlava al microfono; Modesto era accanto a lui a stendere il verbale con la consueta diligenza.
Un giovane ricercatore li scortò in prima fila, e mentre attraversava la stanza Valeria ebbe un tonfo al cuore. C’era qualcosa di profondamente inospitale in quell’atmosfera. Venticinque uomini e donne erano raccolti in crocchi di due o tre persone, spesso con i cappotti appoggiati sulla sedia accanto per impedire agli altri di avvicinarsi troppo. Il desiderio di starsene per conto proprio era palese. Le prime tre file erano rimaste vuote. Antonio Furlan era seduto in fondo e guardava il cellulare. Ippolito Preti, il vecchio professore di Filosofia, sempre presente sulle pagine culturali della domenica, spesso assente a lezione, teneva aperto un librone sul banco davanti a sé. Federica si era messa di lato, sotto la finestra, lontana di ben sei posti da chiunque altro. L’unico elemento che sembrava unirli era quell’espressione di vitrea e avvilita sottomissione. Solo James, vedendo Valeria, alzò un sopracciglio di saluto, come per accogliere una compagna di sventura a quell’umiliante banchetto.
«Considerato il disdicevole lassismo che vedo in giro,» aveva esordito il rettore prima ancora che si sedessero «ho deciso di imporre un certo ordine.»
Parlava con una voce pacata, che il sistema di amplificazione dell’aula però rendeva minacciosa, e sorrideva con l’aria di chi si mostra soddisfatto per aver inferto una pena severa. «Per questo, dottori e dottoresse, avete dovuto aspettare fuori. Mi scuso per il ritardo, ma vi assicuro che è per il vostro bene. La verità è che alcune delle vostre illustri guide sul sentiero della saggezza se la sono presa comoda, e ho dovuto fare una bella ramanzina.» Si fermò, come per assaporare quel familiare colloquialismo. «Un predicozzo, una pappina, un rimbrotto. E potrei andare avanti. Se ricordo bene,» rifletté poi «il Vocabolario degli Accademici della Crusca ha una ventina di sinonimi per esprimere il concetto. Una triste conferma, presumo, che simili azioni sono spesso necessarie.»
Fece un’altra pausa, allungando lo sguardo sull’intera aula quasi per sfidare qualcuno a farsi coraggio e intervenire nella discussione. Nessuno intervenne. O forse quelle pause erano un’ulteriore dimostrazione del suo potere di disporre del loro tempo.
«C’è chi fa i comodi suoi in questa scuola di dottorato. Ebbene sì, così intendo chiamarla, malgrado il numero esiguo dei componenti. Questa è una scuola, un’accademia, un collegio, e in quanto tale richiede un’offerta formativa, un programma, un progetto, una dedizione individuale, e soprattutto una chiara gerarchia tra docenti e discenti. Invece io vedo una serie di piacevoli rapporti alla pari, coppie di studenti e supervisori che sembrano quasi dei piccioncini, il che senz’altro favorisce l’autostima reciproca, ma è poco propizio quando si tratta di formare accademici seri, e dunque di accrescere la reputazione di questo ateneo.»
Seguì un’altra pausa di potere. Nessuna risposta era né richiesta né possibile.
«La frequenza alle lezioni, signori e signore,» continuò consultando un foglio che si portò agli occhi, rigirandolo due o tre volte «è stata, come dire, poco sentita. È questa l’espressione giusta? Sporadica, diciamo.» Posò il foglio e guardò dritto in faccia Alessandro, il ragazzo con l’orecchino di Genova. «È così che direbbe lei, dottor Cimaglia?»
Il ragazzo non rispose. Ottone sorrise come un genitore che ha colto in fallo il proprio figlio. Indulgente e severo.
«Qualcuno in questa nostra piccola comunità ovviamente ha ritenuto più utile starsene a Londra che a Milano, dimenticando a chi deve dare conto. Non è vero, Alessandro? Correggetemi se sbaglio, amici miei.»
Questa volta seguì un silenzio ancora più lungo, finché Susi Valente, con la sua grave leggerezza, disse: «Forse il programma è stato fissato con troppo poco preavviso, Beppe».
Invece di stemperare la tensione, quest’intervento, e soprattutto quell’uso smaccato del vezzeggiativo per rivolgersi al rettore, confermarono ai presenti che Valente dovesse avere un rapporto particolare con Ottone. Lei si sentiva invulnerabile, loro no.
«Susi!» Il rettore scosse la testa. «Sei troppo generosa, mia cara. O vuoi che la professoressa Modesto riporti nel verbale questa giustificazione, il fatto che abbiamo organizzato le lezioni con uno scarso preavviso?»
Modesto si accigliò. Susi Valente azzardò un gesto di diniego.
«Questi giovani signore e signori non studiano forse qui, non lavorano qui? Non hanno una responsabilità nei confronti di quest’ateneo? Non posso pretendere che si presentino dall’oggi al domani, se ho un compito da assegnargli? Ebbene, Susi?»
Lei rise come se stesse scherzando. «Certo che puoi» disse.
«Bene, mi fa piacere sentirlo. Dunque, dottori e dottoresse, ho deciso di introdurre un esame sui contenuti di queste lezioni. Il prolungamento del sostegno concessovi da questa università, della vostra borsa, signore e signori, per essere esplicito, sarà soggetto al superamento di quest’esame. Qui nessuno immagini di poter fare il furbo, intascando dei soldi mentre se ne va in giro per il mondo a fare… a fare che?» Il suo viso si incupì e dall’alto della sua canuta eleganza esclamò: «A fare quel cazzo che vuole!».
Appoggiò la schiena alla poltrona e sorrise, si tolse gli occhiali, estrasse un panno azzurro dal taschino e procedette a lucidarli con cura.
«Scusatemi, signori e signore, ma sono costretto a essere volgare. In quest’aula c’è qualche saputello che pensa di poter fare il cavolo che gli pare. Di poter vivere dove vuole, incontrare chi vuole, pubblicare tutte le fesserie da saccente che vuole nella rivistaccia che vuole, senza fare riferimento a quest’ateneo, senza chiedere il permesso o anche solo il parere del presidente di questo consiglio.»
Ottone si rimise gli occhiali e chinandosi sulla scrivania regolò la distanza tra bocca e microfono.
«Bene, signorine e signorini, fossi in voi ci penserei due volte.»