Sono nato a Crotone, in via Libertà n. 11/A, il 15 novembre 1960.
Quando venni battezzato, mi fu dato come secondo nome Libero. Sergio Libero. Fu probabilmente perché il mio padrino, Gregorio Clausi, lontano cugino di mio padre e direttore di banca, era un fervente democristiano e nello stemma del partito c’era lo scudo crociato con sopra scritto Libertas.
La famiglia Cammariere è presente a Crotone dal 1784; discendiamo tutti dal capostipite Domenico, originario di Sinopoli, nella provincia di Reggio Calabria, e dai suoi figli Carmine e Gaetano. Mio padre, nato nel 1925, figlio di Francesco Cammariere, è cresciuto con i suoi fratelli nella ottocentesca casa di famiglia situata nel centro storico di Crotone, tra vico Cammariere e piazza dell’Immacolata. Casa Cammariere fu bombardata durante il secondo conflitto mondiale, e mio padre e i parenti si rifugiarono a San Mauro Marchesato, un comune della provincia.
Sia mio padre sia mia madre provenivano da famiglie numerose: a mia madre avevano dato il nome Settimina perché era la settima nata. Puro sangue meridionale, il suo.
I Cammariere erano imprenditori agricoli per vocazione. I Pugliano, la famiglia di mia madre, erano ferrovieri da generazioni: mio nonno materno era stato capostazione della piccola frazione di San Leonardo di Cutro.
Mio padre Salvatore, appassionato di musica e fotografia, amava la campagna, era un uomo che sentiva il battito della terra, passava il tempo a coltivarla. Partiva all’alba e tornava all’imbrunire. Un uomo bucolico, uscito da un racconto di Virgilio. Mia madre Settimina era il motore della casa. A lei era affidata la gestione della famiglia. Era instancabile. Si prendeva cura di tutti noi, sempre sorridente, gioiosa e vitale.
Sono sempre stato libero, ma la libertà me la sono conquistata da solo. Nel 1962 la mia era la classica famiglia medio-borghese con la Fiat 1100. Mio padre Salvatore, insieme a suo fratello Michele, piantava la barbabietola da zucchero nelle terre della Valle del Neto di Crotone. Coltivavano centinaia di ettari affittando i terreni nobiliari dei marchesi Lucifero, Albani, Zurlo, Baracco, Morelli e Berlingieri.
Era stato mio zio Michele a scoprire la barbabietola da zucchero. Era stato prigioniero di guerra prima in Africa e poi in Inghilterra, dove aveva lavorato in un campo di barbabietole, e quando era stato rispedito in Italia ed era tornato nella nostra Calabria, aveva messo in atto quello che aveva imparato in prigionia. “Michele Cammariere, il re della barbabietola”, intitolò una volta la «Gazzetta del Sud».
Era stato un vero pioniere nel settore; insieme, lui e mio padre coltivavano barbabietole destinate poi allo zuccherificio di Strongoli, a pochi chilometri da Crotone.
Ogni tanto mio padre mi portava con sé in campagna, ma non mi divertivo. Non c’erano altri bambini, solo macchine gigantesche come la mietitrebbia e i trattori, e odore di nafta.
Da piccolo ero ribelle. Quando uscivano, i miei genitori mi lasciavano a casa. Appena sentivo la serratura scattare, qualcosa in me ribolliva, e crescevano il profumo e l’esigenza di libertà. La prima volta rimasi chiuso in casa; la seconda, come un gatto che ha studiato le mosse del padrone, capii che esisteva una via di fuga. Ero un bambino, ma ragionavo come un uomo, anzi, un pirata. Abitavamo al pian terreno. Io aprivo la finestra del bagno, saltavo giù e scappavo per andare a divertirmi con gli altri bambini.
La strada e le montagne erano il posto ideale per giocare e scommettere barattando le figurine. Si disegnava un quadrato con il dito sulla terra, o con un gessetto bianco sull’asfalto, e poi, a distanza di dieci metri, si tentava di centrarlo con un sasso. I migliori a raggiungere l’obiettivo erano i più grandi, perché al posto della pietra usavano il piombo. Chi possedeva un pezzetto di questo metallo tenero, duttile e della giusta pesantezza, all’epoca era considerato una sorta di ras del quartiere. Il piombo permetteva di centrare facilmente il bersaglio, perché il suo peso aiutava a stabilizzare la traiettoria del lancio.
Noi piccoli, per il gioco del quadretto, usavamo i tappi a corona. In dialetto li chiamavamo brinde. Con il martello li appiattivamo e diventavano la nostra moneta. La brinda assumeva così la forma di un vero doblone. Più il tappo era inconsueto, più il suo valore aumentava. Ad esempio, il tappo di Coca-Cola o birra Peroni aveva un valore minimo. I tappi di acqua Mangiatorella o quelli delle bibite Pejo avevano un valore medio. Quelli più strani, tipo della Cedrata Tassoni, valevano il massimo, come una bisvalida delle figurine Panini. La bisvalida era una figurina speciale, una figurina introvabile e quindi preziosissima. Anche se io attribuivo un valore più alto alle figurine dei calciatori con i cognomi più curiosi, ad esempio il portiere dell’Atalanta, Pier Luigi Pizzaballa.
In via Libertà sono stato protagonista di storie incredibili.
Mio zio Michele, che abitava a due isolati da casa mia, entrò in politica. Era il numero 4 della lista DC, e venne eletto segretario e poi consigliere comunale del comune di Crotone e ufficiale di governo per la frazione di Papanice. Era una sorta di sindaco del paesino, abitato da sole millecinquecento persone, e divenne una vera star perché riuscì a far costruire il centro sportivo. C’erano più persone in campo che abitanti.
Viaggiava spesso, e al suo ritorno portava sempre doni per i suoi figli e i suoi nipotini. Ogni volta che lo incontravo, mi regalava mille lire, e io ero strafelice. Non conoscevo il valore del danaro, però quella banconota, gigante nelle mie piccole mani, era come una bandiera da sventolare. Mi piaceva soprattutto per l’immagine di quell’uomo con la barba e i baffi. Non sapevo allora che si trattava del grande Giuseppe Verdi, ma avvertivo una familiarità fra noi. Il sangue della musica che si faceva sentire.
«Sergino, bello di zio, abbracciami, tieni, comprati quello che ti piace» mi disse una mattina zio Michele davanti alla lavanderia Rosso e Nero, dove stavo aspettando mia mamma. Mi lanciai al collo dello zio, sventolai le mille lire, iniziai a correre per i vicoli. Mentre il vento scompigliava i capelli di Giuseppe Verdi, Saruzzo U’ Nighiricchio, il guappo del paese, afferrò al volo la banconota.
«Grazie, Sergiù, tanto a te non servono. I bambini non devono giocare con i soldi veri. Ciao Pinocchio!» e si allontanò ridendo. Io restai immobile, deluso, proprio come il burattino sotto l’albero dei miracoli che era stato derubato dei suoi zecchini d’oro.
In via Libertà, all’ombra delle nostre case, ogni giorno si viveva un’avventura. Le montagne d’argilla che si affacciano sulla costa crotonese per noi ragazzini erano un mondo parallelo di spensieratezza e fantasia. Qualche volta si giocava anche a fare la guerra. Eravamo divisi in vere e proprie tribù. Al di là della montagna c’era la tribù dei Lovarelli, li avevamo battezzati così. Erano bambini rom in conflitto con noi della Borgata Giardino.
I Lovarelli facevano sul serio, erano armati di fionde e tiravano sassi. Qualcuno tornava a casa ferito, io però in genere non partecipavo alla battaglia, ma la guardavo da lontano. Ero già allora un pacifista.
Dopo la barbabietola, nella vita della mia famiglia stava per entrare anche la musica.
Nel 1965 in casa arrivò il Geloso, un registratore a bobine che prendeva il nome dal suo inventore, l’italiano Giovanni Geloso. Lo comprò mio padre perché, tramite mio zio Michele, aveva avuto un importante incarico: era diventato presidente del Caseificio di Crotone, e doveva partecipare alla Fiera del Levante, dove era previsto un suo intervento a una conferenza del settore. Iniziò a provare il suo discorso, e a registrarlo. Sembrava Totò alle prese con il comizio elettorale. Lo sentivamo cominciare alle cinque di mattina: «Il latte è il profumo delle madri che crescono i nostri figli. Nel nostro consorzio ci prendiamo cura dei prodotti con l’attenzione di una madre…».
Io e le mie sorelle ci svegliavamo e applaudivamo papà, mentre mamma – che era sì comprensiva, ma all’occorrenza anche severa – lo zittiva subito come si fa con i bambini e ci rincorreva con il battipanni per rimetterci a letto. Alla fine però scoppiavamo tutti a ridere e restavamo svegli fino a colazione… a base del benedetto latte elogiato da mio padre. Ma quello fu solo il primo dei molti modi in cui usò il Geloso.
Quando c’era il Festival di Sanremo, mio padre registrava le canzoni che poi riascoltavamo insieme. E nel poco tempo libero che aveva, si divertiva anche a incidere filastrocche e sonetti in rima. Recitava al microfonino le quartine umoristiche e popolari pubblicate sulla rivista «Marc’Aurelio», che aveva collezionato da ragazzo grazie a un parente che faceva il tipografo a Roma. Ci scrivevano Fellini, Scola, Zavattini e Scarpelli. L’ultimo numero era uscito nel 1958, e da allora mio padre aveva iniziato a rileggerli tutti, imparandone a memoria le satire.
Un giorno zio Michele mi donò un giocattolo americano. Un trenino elettrico che si muoveva su una rotaia circolare e aveva un vibrafono colorato che, quasi per magia, al tocco dei tasti colorati suonava melodie come Over The Rainbow o Love Is a Many Splendored Thing.
A bordo del trenino c’era un omino che suonava o, meglio, martellava sul vibrafono colorato. Seguendo le istruzioni si poteva imparare il susseguirsi delle note e delle pause. Il blu era il Fa, il rosso il Sol, il giallo il Mi. Ogni nota aveva un colore, ogni colore un suono diverso.
Quel giorno iniziai a inventare la musica. Accostavo i colori e cercavo assonanze con l’orecchio, e cambiando colori e pause componevo melodie fantastiche. Non ricordo se i colori fossero sette o dodici, ma a volte bastano meno di sette note per comporre una melodia. Questo è stato il mio primo metodo di apprendimento. Da vero autodidatta.
Più o meno nello stesso periodo, entrarono in casa nostra anche i primi 45 giri e il mangiadischi Lesa. Tenevamo tutti i dischi in una comoda valigetta di pelle, senza la copertina per sfruttare al massimo lo spazio all’interno del contenitore. I dischi si graffiavano leggermente, ma si potevano sfogliare come un libro.
A quattro anni non sapevo leggere, e le etichette dei 45 giri, in particolare quelle della casa discografica RCA, erano completamente nere, non facilmente distinguibili l’una dall’altra. Unica eccezione erano i 45 giri del Clan Celentano, tutti colorati. Eppure, tra centinaia di dischi, qualsiasi canzone mi si chiedesse, di Gianni Morandi o di Caterina Caselli, io la tiravo fuori. I miei parenti e i cuginetti più grandi rimanevano sbalorditi.
La mia canzone preferita era Chi sarà la ragazza del Clan dei Ribelli di Adriano, ma il mio primo vero innamoramento musicale fu Beethoven.
Fu la mia cuginetta Lina a presentarmi lui e il pianoforte. Lina era figlia di zia Maria e zio Eugenio. Zia Maria, sorella più grande di mamma, aveva vent’anni più di lei, ed era madre di quattro figli. Lina aveva un pianoforte e sapeva suonare la bagatella Per Elisa. Quella melodia, scritta da Beethoven a quarant’anni, mi faceva entrare in un mondo di sogni. Un universo parallelo che è sempre stato nella mia vita. La sensazione di una doppia percezione delle cose che mi ha come sempre permesso di vivere in un paese delle meraviglie. La meraviglia della musica.
Andavo spesso a casa di Lina per ascoltare Beethoven. Abitava in via XXV Aprile, agli ultimi piani di un palazzo. Dal balcone si poteva vedere quasi nella sua totale ampiezza il campo di calcio Ezio Scida, lo stadio dove la domenica giocava la gloriosa squadra rossoblù del Crotone.
Mentre noi guardavamo la partita dal balcone di zia Maria, la mia cuginetta suonava Beethoven in salotto.
All’asilo venivo messo sempre in punizione. Ero birbante. Ero un bambino anarchico, un vero ribelle, non avevo alcuna intenzione di conformarmi agli altri che cantavano in coro e a comando come pecore «Giro giro tondo». Ogni volta rompevo la catena e uscivo dal cerchio: gli altri bambini, delusi, restavano con le mani all’aria e le maestre mi mettevano a sedere sopra un armadietto troppo alto perché potessi saltarne giù. Così non potevo muovermi. Una punizione crudele e pericolosa. Ma io, indispettito, avevo coraggio, mi impettivo e restavo in piedi con le braccia incrociate in segno di sfida. Anche se avevo una grande paura di cadere, restavo sempre in equilibrio, non guardavo giù, mi venivano le vertigini, e non mostravo il mio terrore.
Al terzo giorno di asilo, fuggii e tornai da solo a casa. Era lontana un chilometro dalla scuola, ma conoscevo un sentiero attraverso i calanchi e le montagne d’argilla. Avevo in testa una sorta di GPS. Un senso dell’orientamento cosmico, nella mia incoscienza di bambino.