Il gioco più bello del mondo
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Il gioco più bello del mondo

  1. 480 pagine
  2. Italian
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Il gioco più bello del mondo

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Informazioni sul libro

Quando Gianni Brera ha cominciato a scrivere di calcio, alla fine degli anni Quaranta, questo sport esisteva in Italia da mezzo secolo ma non c'era un linguaggio che ne sapesse raccontare le dinamiche, la storia, i risvolti tecnici, umani e culturali. Brera ha dato al calcio italiano una lingua e persino una mitologia. Questa antologia (accompagnata da uno scritto biografico di Paolo Brera) alterna resoconti di partite a ritratti di calciatori, ricordi autobiografici a rilievi teorici, pagine dove convivono l'epica popolare degli eroi della domenica e le raffinate escursioni di un saggista. Insieme con gli estri di un vero fuoriclasse della scrittura.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831803618

1. Leggere e scrivere il calcio

Interpretazione critica di una partita di calcio

Il gioco del calcio – football o soccer in inglese – è una sorta di mistero agonistico traverso il quale si nobilitano quelle che un tempo erano le mani posteriori dell’uomo. Il suo fascino viene forse dalla sfericità della palla, che per essere sempre e dovunque in perfetto equilibrio si trova in certo modo a mimare la prodigiosa armonia dei mondi. L’arte che nobilita il gioco consiste nel muovere la palla con dolce o energica violenza e nel padroneggiarla dopo averla domata, nell’indirizzarla docile e quasi spenta a un compagno che si smarca per riceverla; forte invece, e possibilmente viziata di effetti, verso l’ultimo custode della porta avversaria.
Il significato emblematico del calcio è comune a tutti i giochi di squadra: la porta è il sesso della madre, d’una sorella o di una sposa: la difendiamo accanitamente se è nostra; la insidiamo per profanarla se è degli antagonisti. Il fine del gioco è dunque il gol, che significa obiettivo o meta.
Nessun dubbio che il successo universale del calcio derivi dal suo mistero, che si arricchisce di (o annulla in) aspetti sempre nuovi, dunque sorprendenti. L’agonismo di due squadre sottoposte al rispetto di una norma e di chi è delegato a farla osservare, l’arbitro, si traduce in atti infiniti, in gesti armoniosi o violenti, in difese o profanazioni che immediatamente si colgono nel risultato, diciamo nell’atto finale, ma vengono preparate con il continuo studio di moduli, forme, schemi, artifici singoli e collettivi, di invenzioni già preparate o estemporanee, estrose o pacate, argute o maligne.
Salvo il rispetto per le arti ben più sublimi della musica e della poesia, una partita di calcio va interpretata criticamente secondo cultura e sensibilità di chi se la gode o la soffre, alla stregua d’una sinfonia o d’un poema. I gesti e le forme di una partita costituiscono il repertorio dei suoi protagonisti ma non solo quello: ne esprimono in realtà anche l’intelligenza e il coraggio, la lealtà e il sacrificio. E poiché di scientifico non sembra esservi nulla, e invece vi è molto!, nell’impostazione tattica di una partita, la componente casuale influisce sul gioco traverso forme spesso non volute, erronee e tuttavia producenti. La palla si muove secondo figure geometriche più o meno padroneggiate da chi la sta giocando: talvolta si libera e libra incontrollata, talaltra obbedisce a traiettorie sghembe che il vento o un impatto non prevedibile influenzano fino al mero capriccio. Sta nello spettatore avvertito la percezione di quello che è voluto o casuale, oppure voluto e casuale insieme.
La partita di calcio è una lunga trama il cui epos viene immediatamente colto nei suoi aspetti più evidenti e comuni. Di qui l’enorme popolarità del gioco e del tifo che esso determina negli spettatori. Ma come una sinfonia o un poema, anche la partita può offrirsi in mille e un aspetto diverso a chi la segue con gli occhi, il sentimento e la ragione. Parlare e scrivere di calcio è facile a certi livelli, difficile a certi altri. La ciarla da caffè può essere banale e profonda come qualsiasi resoconto giornalistico. Personalmente, trovo che la partita di calcio sia lo spettacolo agonistico più difficile da raccontare. Quasi sempre l’obiettività è inficiata dal sentimento di parte, dalle convinzioni che altri discutono e perciò vengono difese da noi con accanimento particolare, direi solipsistico a volte: e per questo accanimento si forza la vista di marcature spostamenti gesti i quali esprimono gli schemi preferiti o aborriti.
In campo si muovono e agiscono venticinque personaggi a proprio modo protagonisti o comprimari. Il loro movimento può essere premeditato o estemporaneo, adeguarsi a schemi noti o del tutto nuovi: sia perché tali li vuole una squadra o perché li consente, forzatamente, la sua avversaria. Analizzare di volta in volta i gesti atletici e fonderli poi in una visione il più possibile reale e sintetica è impresa molto difficile. La gran parte di essi viene dimenticata per la loro stessa labilità, per il susseguirsi addirittura frenetico degli spunti, dei fatti, dei contrasti e delle intese. La palla trascorre o vola da una porta all’altra. Le sue traiettorie si disegnano nella retina mentre il frastuono cresce o dilegua. È assodato che la preghiera agisce telepaticamente in modo e misura quasi sensibili: figuriamoci la forza d’urto (sic!) di migliaia e migliaia di occhi intenti, di cuori eccitati, di cervelli caldi!
La partita è un dramma agonistico completo. Ha i suoi momenti tristi e buffi, esaltanti e contrari. L’esito finale determina traumi psicologici ai quali non sono quasi mai indifferenti le coronarie d’un uomo bennato. In questo bailamme di sensazioni e di sgarri, di ribellioni e di condiscendenze, il critico pedatorio deve rivedere – decifrando il taccuino – la sua analisi momentanea e procedere a una sintesi che poi si tradurrà in cronache e commenti più o meno felici e convinti a seconda dello stato d’animo, delle circostanze ambientali, delle necessità di tiratura e della reazione morale, diciamo pure del tifo e dell’equilibrio etico.
Il mio metodo di lavoro è fervido e spossante. Vivo la partita da recensire annotandone ogni fase con applicazione pignola fino... all’accattonaggio: voglio dire che, volendo prendere note su tutto o quasi tutto quanto avviene in campo, non di rado sono costretto a giovarmi di colleghi redattori seduti vicino a me per stabilire con precisione chi abbia fatto l’ultimo lancio oppure l’ultima rifinitura: non il tiro conclusivo, perché quello lo vedo anch’io: è lo stesso clamore della folla a tenermene avvertito...
Colmato di note il recto del taccuino e spesse volte anche il verso, rientro di filato a casa o in redazione, decifro pagina per pagina, ricostruisco le azioni determinanti, procedo alla seriazione sinottica dei tiri e delle parate, dei salvataggi e degli errori, dei cross dalle estreme e degli interventi difensivi più ricordevoli; deduco da queste seriazioni statistiche l’entità e i valori delle singole prestazioni tecniche e le sintetizzo in «pagelle» con voti da 1 a 10 come una volta a scuola. Poi, trasmetto al giornale occhiello, titolo e sommario: e finalmente procedo alla stesura del resoconto. Tutto questo, in non più di un paio d’ore, a volte anche meno.
Ora, capisco anch’io di essere ogni domenica in preda a un vero e proprio raptus cronistico: tuttavia, confido che almeno si apprezzi il mio scrupolo, la mia fedeltà a un mestiere e – sia detto subito – a uno sport che ho smesso di praticare da tempo ma che sempre mi ha fatto e mi fa delirare. Ho incominciato a soffrirne dall’adolescenza. Il mio primo tifo si è acceso per il Genoa, squadra della prima grande città nella quale ho vissuto ragazzino. Tifare Genoa mi è ottimamente servito per integrarmi senza particolari avversioni nell’ambiente scolastico milanese. Ho frequentato le elementari in Corso Vercelli, sotto il bravo maestro Santambrogio. In quel rione povero predominavano di gran lunga i milanisti. Ogni mercoledì correvamo in frotte a San Siro sfidando i trotters che si allenavano sul vialone ancora sterrato dell’ippodromo. Quale genoano potevo schierarmi con la squadra nella quale preferivo giocare per congenialità di compagni. Portai il nomignolo di Levratto fino al giorno in cui divenni centromediano e fui selezionato per la rappresentativa milanese boys. Intanto frequentavo San Siro e mi allenavo con i boys del Milan, che presto mi avrebbero accolto. Adolfo Baloncieri mi chiamava Crapotti e mi sollecitava a far l’avvocato, non il calciatore. Questi improperi mi venivano da quell’omino talvolta fin troppo acido e pignolo perché ridevo alla sua pretesa di vedermi lanciare da lontano le ali tenendo sempre bassa la palla. Che mi volesse di acchito simile a Luisito Monti mi pareva un po’ folle e infatti mi ribellavo: ma lui, sicuramente noiato di dover seguire le nostre affannose nugae pedatorie, si ribellava a sua volta e mi sfotteva. Povero vecchio Balôn: toccava ancora la palla da quel grande campione che – m’ha garantito Peppìn Meazza – era stato per molti anni. Quando l’ho ritrovato, nel primo dopoguerra, a malapena si ricordava di me: poi m’ha individuato, fra i cento e cento allievi sopportati qua e là per il mondo, e m’ha ricambiato l’affetto che gli portavo. È giunto a trascrivermi interi canti del suo poema preferito: Martin Fierro, il prodigioso gaucho argentino. A Baires era cresciuto fino a sedici anni, prima di tornare in Piemonte. Di origini, mi disse, non era mandrogno, bensì della campagna torinese intorno a Caselle. Ad Alessandria aveva trovato e seguito gli esempi migliori: laggiù si giocava assai meglio che in tutti gli altri vertici del Quadrilatero. Forse per questo l’Alessandria non ha mai rimediato uno scudetto. Lo stile raffinato, almeno allora, doveva essere poco produttivo. I rudi vercellesi badavano al sodo; e così i casalesi, quell’anno in cui, da Torino, vennero tre o quattro bravi a illustrarne inaspettatamente il blasone (1914).
Aver giocato per anni mi ha molto aiutato a capire il calcio. Come eccellevo nelle pedate e deludevo al Liceo (il rendimento del cervello è inversamente proporzionale a quello dei muscoli, nessun dubbio su ciò!), la mia promettente carriera venne troncata sul nascere: a ciabattate (la sorella Alice, che mi ha fatto da madre) e a calci (il vecchio padre auster). Lasciai Milano e finii gli studi a Pavia. Partii per il soldato, passando molti guai. Al ritorno non avevo altra chance che buttarmi in politica o evadere nel giornalismo sportivo. Mi assunse Bruno Roghi in «Gazzetta» e debbo essergli grato d’una leggerezza che mi aiutò a vivere: nonostante avessi buoni ricordi nel calcio e nel giornalismo calcistico, don Bruno mi indusse ad assumere la rubrica dell’atletica leggera. Ahimè: non avevo mai sentito nominare Adolfo Consolini, nostro unico primatista mondiale! Studiai atletica con puntiglioso impegno, fra la compassione di molti. Per fortuna, arrivai a conoscerla tanto da poterne scrivere manuali. Poi ho cambiato cavalli. Sono stato corrispondente da Parigi: ho completato il mio repertorio di giornalista seguendo il Tour e scrivendo ancora di calcio, di atletica e di boxe.
Dopo un annetto di Francia, non ancora trentenne, mi si è offerto di dirigere la “rosea”. Ho accettato a patto di avere accanto Giuseppe Ambrosini, gran teorico del ciclismo. A me è rimasto il calcio: ma l’ho dovuto via via riscoprire e capire: ho dovuto inventarmi un metodo critico: e ovviamente non vi sono riuscito se non dopo anni di applicazione e di studio. Il giornalismo calcistico non aveva neppure un linguaggio suo: molti termini inglesi erano espressi con perifrasi alla lunga tediose e stucchevoli. In Italia si giocava confidente WM. Il metodo o W era stato ripudiato a nostro danno. Applicando il W avevamo vinto due campionati mondiali e un’Olimpiade. I contatti con gli inglesi, sul finire degli anni Trenta, avevano indotto qualche ingenuo a invocarne il modulo. Parlo di ingenui, dovrei dire tout court ignoranti. Gli inglesi praticavano un calcio veloce e acrobatico, fondato su battute ampie e vigorose. Effettuavano la marcatura ad uomo ma lasciavano larghi spazi agli attaccanti avversari. Era un calcio di fondo atletico evidente, grossolano anche, però sbrigativo, rapido e, per noi, del tutto nuovo ed entusiasmante. Gli italiani erano disposti a zona, con due terzini d’area e il centromediano sul centravanti avversario nelle sole fasi difensive. Conquistata la palla, gli italiani avanzavano palleggiando con gli interni o lanciando in profondità con il centromediano: scattavano allora le ali e quasi sempre effettuavano il cross (o traversone dalle estreme), meno spesso si accentravano per concludere direttamente.
Gli inglesi, quasi ovvio dirlo, applicavano un calcio davvero congeniale alla loro natura di lottatori irruenti ma anche adatto al clima nel quale solitamente giocavano, con erba fradicia d’acqua su terreni peraltro livellati con molta cura. Il dribbling era loro vietato se non per arresti e scarti appena accennati in corsa: era in effetti proibitivo su terreni bagnati e pericoloso per la comune abitudine di portare il tackle (o incontro) con battute energiche, spesso violente.
Mazzolata a quel modo, con vigorosa potenza, la palla volava quasi sempre alta e richiedeva prodigi di controllo in acrobazia. Il gioco ne risultava molto veloce ma raramente preciso (perché presto e bene non si conviene): come tuttavia gli spazi permanevano larghi davanti alle porte, anche l’imprecisione contribuiva alla varietà del gioco.
In Italia si giocava a ritmo lento e misurato, con folate improvvise al momento della conclusione. Mi diceva Peppìn Meazza di aver molto sofferto da interno centrocampista il calcio inglese in quanto non era contemplata da noi una marcatura ad uomo idonea all’anticipo o al tackle immediato. Il nostro calcio – secondo Viani – onorava soprattutto l’interdizione. E rincarava Meazza, ammirato, che «gli inglesi parevano tener la palla per mezzo di una cordetta».
Esaminando gli incontri degli italiani con gli inglesi, mi sono accorto che poco o nulla si faceva dalla nostra panchina per individuare le «giuste contrarie». La cosa è tanto più strabiliante in quanto il WM presupponeva una costante e quasi rigida geometria di reparti. La maggior umiliazione sofferta dagli italiani ad opera degli inglesi risale al 1948, allorché la Federcalcio festeggiava a Torino – sua culla originaria – il primo mezzo secolo di attività. Il CT Vittorio Pozzo era vecchio e decisamente «fuori». Egli aveva saggiamente avversato l’adozione del WM sostenendo che era un modulo non adatto all’indole (e al fondo atletico) degli italiani: la critica ostile gli aveva preso la mano: il più entusiasta di un eventuale passaggio al WM inglese era stato Carlin, che l’amata Juventus deludeva dall’ormai lontano quinquennio 1931-35. A prevalere in Italia erano il Bologna e l’Ambrosiana Inter. Nel Bologna giocavano tre uruguagi – i due interni Fedullo e Sansone, il centromediano Andreolo – che presto sarebbero saliti a quattro con Puricelli, noto al suo paese con il più facile cognome della madre, Cena. Nell’Inter dominavano dall’alto Meazza e Ferrari, i formidabili interni della nazionale due volte campione del mondo.
Il gioco del Bologna era lento e metodico. Andreolo – non più alto di 168 cm – stava sulle soglie dell’area e provvedeva a disimpegnare verso gli interni od a lanciare lungo le ali. Gli interni avanzavano palleggiando e aprivano alle ali quando non era più possibile filtrare al centro. Le ali del Bologna avevano notevole classe: Biavati soleva scendere lungo l’out e procedere al cross per Puricelli, abilissimo acrobata; Reguzzoni preferiva scattare accentrandosi per il tiro. Il Bologna aveva vinto due campionati consecutivi dopo il prestigioso quinquennio juventino. Nel 1937 aveva preso parte al torneo dell’Exposition parigina e aveva sgominato il campo, forte di tutte le maggiori squadre campioni d’Europa. Incontrò il Chelsea in finale e ne fece strame.
L’Inter sottrasse al trionfante Bologna gli scudetti del 1938 e del 1940. È poi venuta la guerra e con quella la voglia di cambiare. Era in effetti un calcio ormai un poco stantio quello italiano. Vittorio Pozzo e Ferruccio Novo, dirigenti del Torino, avevano riunito tutti i migliori giovani del vivaio nazionale con la promessa d’una più facile convocazione in azzurro e dell’esonero dal servizio militare. Il Torino adottò il WM e Pozzo non fu d’accordo e ruppe con Novo, che si affidò all’ungherese Erbstein. La ripresa del campionato vide ovviamente il Torino di gran lunga più forte di tutte le antagoniste tradizionali. Il Bologna, molto invecchiato, navigava nelle zone basse della classifica; l’Inter si rinnovava a stento e rimaneva fedele al W, che denunciava grave disagio tattico nei confronti del più veloce WM inglese. La Juventus aveva perso l’autobus nei confronti del Torino, più disposto a spendere per assicurarsi gli elementi migliori.
Gli inglesi vennero a festeggiare la Federcalcio a fine maggio, quando il Torino era abbastanza logoro: Pozzo non poté disporre né di Maroso, gran terzino d’ala, né di Rigamonti, al quale del resto preferiva Parola, molto meno energico ma più dotato di stile. Gli inglesi non avevano tale classe da surclassare i nostri come in effetti fecero per maggiore destrezza tattica. Pozzo non capì molto più di nulla e lasciò che la finta ala destra Matthews rimanesse arretrata a preparare gli affondi del finto interno destro Mortensen. Per contro, gli azzurri attaccavano avanzando a fatica e, persa la palla, si trovavano ad aver lasciato enormi spazi al contropiede inglese. La giornata riuscì disastrosa ma nessuno della critica (ahi, abbastanza sprovveduta) seppe spiegarsi il perché di quella inattesa Waterloo. Gli azzurri avevano da poco battuto ungheresi, francesi e spagnoli: erano in effetti tra i più forti del mondo ma, disposti com’erano, in modo così barbino, non riuscirono mai a toccar terra: vennero dunque mortificati da una squadra inglese che due soli anni dopo sarebbe stata clamorosamente umiliata dagli Stati Uniti, nel primo buffissimo incontro dei Mondiali 1950 (Belo Horizonte).
La Waterloo torinese venne spiegata con argomenti a dir poco astrusi dalla critica militante. Carlin elevò peana ai suoi maestri di sempre e colse l’occasione per deplorare i nostri poveri tapini, colpevoli ai suoi occhi di pretendere compensi immeritati, quindi immorali. Nessuno trasse da quell’infausta giornata l’ispirazione per reagire al WM, sicuramente inidoneo all’indole e alla stessa costituzione morfologica del giocatore italiano. Squadre di provincia costrette a modificare appena il W della tradizione si erano comportate benissimo in campionato ma, proprio per essere di provincia, come l’onesto Modena, non suggerirono studi particolari alla critica e ancor meno ai tecnici in carica.
Pozzo venne bruscamente liquidato – era un gentleman, non riceveva stipendi – quando allestì per l’Olimpiade londinese una squadra di «studenti» che avrebbero dovuto applicare il W ma vennero indotti a giocare uomo contro uomo con i danesi, i quali facevano WM ortodosso. Il vecchio Pozzo non si accorse di nulla ma lo scandalo fu pari all’umiliazione. I fortissimi danesi vinsero 5-3 e i nostri «studenti» tornarono a casa deplorando soprattutto la conduzione tecnico-tattica della loro sfortunata campagna.
Uscito Pozzo per la comune, gli subentrò Novo, che non cambiò indirizzo tattico. Il suo Erbstein stava bensì accorgendosi di qualcosa che non quagliava tatticamente nel «gioco moderno» dei torinisti ma un tragico destino volle che quel saggio ungherese perisse con tutta la squadra al ritorno – in aereo – da un’amichevole in Portogallo (maggio 1949). Il colpo fu così grave da tramortire l’intero calcio italiano. Scomparso il grande Torino, forte di almeno cinque elementi di notevole valore internazionale, si trovarono automaticamente a prevalere la Juventus, l’Inter, la Lazio e il Napoli. Gli allenatori erano quasi tutti stranieri. A nessuno passò per la testa di rivedere il modulo dominante. La corsa ai campioni stranieri era stata così frenetica da apparire subito amorale, come in effetti era. Gli stranieri erano in maggioranza nordici (danesi e svedesi) e non volevano saperne di regredire – sic! – ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Massimo Raffaeli
  4. Notizia bio-bibliografica
  5. Nota al testo
  6. IL PIÙ BEL GIOCO DEL MONDO
  7. 1. LEGGERE E SCRIVERE IL CALCIO
  8. 2. PARTITE
  9. 3. ESPAÑA ’82
  10. 4. RICORDI E RITRATTI
  11. 5. IL PIÙ BEL GIOCO DEL MONDO
  12. Gianni Brera e il gioco del calcio di Paolo Brera
  13. Copyright