Autostrade in frantumi
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Autostrade in frantumi

Il crollo del ponte Morandi e non solo: tra finanza e politica, una storia tipicamente italiana

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Autostrade in frantumi

Il crollo del ponte Morandi e non solo: tra finanza e politica, una storia tipicamente italiana

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Il Ponte Morandi che, collassando su Genova il 14 agosto 2018, inghiotte per sempre 43 vittime innocenti è l'immagine shock che ha scoperchiato il vaso di Pandora di una scottante storia tutta italiana, lunga più di vent'anni ormai. E non ancora giunta al capitolo finale.
È una storia di incuria e di stellari interessi privati, di top manager lasciati talvolta troppo liberi e di potentissimi investitori esteri, ma anche di sonnolenza dello Stato italiano e di errori tecnici occultati nei polverosi faldoni della burocrazia.
Eppure, quando tutto era cominciato nel 1999, sembrava di essere nel mondo perfetto. Lo Stato italiano - per garantirsi finanziariamente alla vigilia dell'ingresso nell'Euro - privatizza uno degli asset fondamentali del Paese, cedendone il controllo alla famiglia Benetton, faccia bella e radiosa del nostro capitalismo: un impero costruito vestendo l'Italia, e non solo, di maglioni colorati. Passano gli anni, le tariffe salgono mentre - di fatto all'insaputa della maggioranza del Paese, esclusi gli addetti ai lavori e chi legge a fondo le pagine di Economia - si verificano numerose vicende controverse che Laura Galvagni ricostruisce in questo libro con rigore, documentazione inedita e grande chiarezza, offrendo le chiavi per interpretare un importante pezzo della nostra Storia recente e per prefigurarne gli scenari futuri. Colpi di scena sui diversi fronti - finanziario, politico, giudiziario - si susseguono quasi come in un thriller, ma è la realtà. E, last but not least, resta aperto un delicato interrogativo: chi prenderà in mano le autostrade (chiunque esso sarà) riuscirà a gestirle meglio dei predecessori, dotando l'Italia di un'infrastruttura sicura e adeguata al futuro?

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831804028
Argomento
Storia
1

2018, l’annus horribilis

La tragedia del Ponte Morandi

Alle 11.36 del 14 agosto 2018 i tiranti schioccano nell’aria, come grandi fruste nere, poi si spaccano in due e si accartocciano come corpi con la spina dorsale spezzata. La pila numero 9 del viadotto Polcevera, tratto finale dell’autostrada A10 e snodo chiave di Genova, inizia a creparsi dal basso verso l’alto e si sbriciola come una torre di cristallo – è alta ben 90 metri – colpita da un pugno di ferro. Oltre 200 metri di carreggiata cedono e trascinano con sé migliaia di tonnellate di cemento.
Il cielo plumbeo della Lanterna, che da ore sta scaricando secchiate d’acqua sulla città, viene scosso da un boato: l’Armageddon alla vigilia di Ferragosto.
Un tir che transita sul viadotto viene letteralmente risucchiato e precipita. Altre auto sentono l’asfalto sgretolarsi sotto le ruote e scivolano a loro volta nell’abisso con i passeggeri aggrappati al volante o protesi sul cruscotto. Un camion Volvo della Basko Supermercati viene sorpassato da un automobilista che gli taglia la strada e per evitare l’impatto è costretto a frenare. Quel colpo di freno salverà la vita all’uomo alla guida mentre la macchina, pochi secondi dopo, sprofonderà nell’inferno. Il furgone della Basko, invece, si fermerà a pochi metri dal baratro: un’immagine destinata a diventare simbolo. Il conducente mette d’istinto la retromarcia e poi scende per bloccare il traffico ma chi proviene da dietro si è già fermato: ha sentito la strada tremare e l’ha vista, qualche decina di metri più avanti, scomparire nel nulla. Allora alcuni provano addirittura a fare inversione. Ma ben presto capiscono che l’unico modo per mettersi in salvo è correre a piedi, a perdifiato, verso la Galleria Coronata, lunga quasi un chilometro, e rifugiarsi lì sotto.
Chi si trovava vicino al ponte, nella sottostante via Fillak, viene sbalzato per alcuni metri dallo spostamento d’aria, quasi fosse scoppiata una bomba nel quartiere Sampierdarena, e sbattuto contro il muro. Altri, più lontani, vedono via via prendere forma un’immagine che nell’immediato non riescono a mettere a fuoco e allora tremano con il cuore che batte all’impazzata finché capiscono: tra la nebbia, la pioggia, il fumo e la polvere spunta il moncone del viadotto, come un arto mutilato. La catastrofe è realtà. Case, capannoni industriali, il fiume Polcevera, la ferrovia: tutto viene investito da uno tsunami che inghiotte qualsiasi cosa e trascina dietro di sé ciò che transita sul ponte, creando un enorme sarcofago di macerie in cui Vigili del Fuoco e Polizia iniziano a scavare alla ricerca di sopravvissuti. Il metodo che seguono è quello del triage, l’unico possibile. Identificano, esaminano e aprono con le cesoie un veicolo dopo l’altro a caccia di speranza. Davanti si trovano uno scenario da girone dantesco: auto e mezzi pesanti appesi al ponte, precipitati al suolo o schiacciati tra lastroni di cemento; i corpi delle vittime intrappolati tra le lamiere, in mezzo alle macerie, sul greto del fiume o sui binari mentre sui tralicci ferroviari passa ancora l’elettricità; i feriti che chiedono aiuto prima che sia troppo tardi.
La difficoltà più grande è raggiungere le auto, inghiottite dalla marea di detriti. Nella prima c’è una famiglia proveniente dalla vicina Campomorone: marito, moglie e un figlio di nove anni che si stavano recando al porto di Genova per imbarcarsi verso la Sardegna. Nessun sopravvissuto. E così sarà in molte vetture. All’Ospedale San Martino più che il Pronto Soccorso lavorerà la camera mortuaria, per lenire ai parenti il dolore dell’identificazione. Il bilancio finale sarà di 43 morti e “soltanto” 9 feriti. Pochi, baciati dalla sorte, sopravvivono intrappolati nel proprio mezzo tra le macerie e il pilone crollato, dopo un volo di decine di metri, protetti da bolle d’aria o da incastri favoriti dal fato. Una donna che lavorava in una fabbrica sotto il viadotto, invece, viene travolta e sommersa dalla valanga assieme alla figlia: si tengono per mano fino a quando i pompieri, scavando con pala e piccone, riescono a liberarle entrambe dopo mezz’ora.

Un affare troppo grosso

Quel 14 agosto non crolla soltanto il Ponte Morandi. Iniziano a sgretolarsi, dalle fondamenta, la reputazione dei Benetton e una parte rilevante del loro impero: quella Autostrade per l’Italia che dal 2000 aveva in gestione il viadotto e altri 3000 chilometri di rete a pedaggio, e che in virtù di questo rappresentava l’asset cruciale della società quotata Atlantia e dunque della dinastia di Ponzano Veneto.
È un fulmine a ciel sereno? Come avviene un tracollo tanto improvviso quanto catastrofico? Per comprendere come a un’immane tragedia umana si sia sommata la crisi di “un’industria” fino a pochi istanti prima fiore all’occhiello del Paese, vale la pena tornare ai primi mesi del 2018, quando tutto ancora sembrava possibile, ad Atlantia e soprattutto ai suoi manager.
A febbraio il clima negli uffici di Atlantia a Roma è incandescente. Si sta riaprendo una partita che sembrava chiusa. A maggio 2017 la holding aveva lanciato un’Offerta Pubblica di Acquisto (OPA) su Abertis, competitor spagnolo proprietario di 8300 chilometri di autostrade distribuite in 14 Paesi. In altre parole, la società italiana, a suon di miliardi, voleva scalare il gruppo iberico per prenderne il controllo, proponendosi di rilevare tutte le azioni quotate sulla Borsa spagnola. A quell’OPA, però, Madrid aveva fatto subito scudo con l’intento di proteggere il proprio “campione” nazionale. Era stata la stessa politica iberica a muoversi per frenare le ambizioni di Atlantia. Ma, per non essere tacciata di protezionismo, lo aveva fatto in via indiretta, sollecitando la discesa in campo di un cavaliere bianco locale. Appello che non era rimasto inascoltato: nel giro di qualche mese si era mosso sul dossier uno degli uomini d’affari più influenti della Spagna, quel Florentino Pérez noto ai più per essere il patron del Real Madrid, ma proprietario anche di un gigante delle infrastrutture come ACS, tra i leader mondiali nelle costruzioni, nell’ingegneria e nella fornitura dei relativi servizi. Don Florentino aveva promosso una controfferta concorrente a quella di Atlantia, scatenando così una vera e propria battaglia per la conquista di Abertis.
Quasi un anno dopo, appunto nel febbraio 2018, il muro eretto dagli spagnoli a difesa del colosso domestico mostra tuttavia le prime crepe. C’è spazio per trovare un’intesa e Atlantia ha tutte le intenzioni di portare a casa l’accordo. Comincia così una staffetta serrata tra Roma e Madrid. Si mette in pista anche Gilberto Benetton: tra imprenditori, alle volte, ci si capisce più velocemente che tra manager e bisogna convincere Florentino Pérez a firmare la tregua.
Ed è una stretta di mano, in un albergo di Londra, il primo segnale che la pace è a un passo. L’intesa passerà da un’offerta congiunta, con spagnoli e italiani alleati per dare un nuovo azionista di controllo ad Abertis. Una svolta che tuttavia imporrà di ridisegnare il perimetro dell’operazione spingendo Atlantia su un terreno inesplorato: quello delle grandi costruzioni. Sul piatto finisce infatti una fetta rilevante di Hochtief, il primo general contractor tedesco con una presenza rilevante anche negli Stati Uniti. L’azienda è controllata dalla ACS di Pérez che sfrutta dunque il riassetto generale di Abertis per ribilanciare il peso nelle costruzioni e condividerlo con la holding italiana. Hochtief, infatti, è uno dei principali player globali delle infrastrutture, noto tra l’altro per avere costruito il tunnel ferroviario del Gottardo e il Levi’s Stadium di Santa Clara, impianto di casa dei San Francisco 49ers di football americano.
L’accordo assume così contorni inattesi: non si tratta più solo di autostrade, in ballo ci sono anche grandi opere e telecomunicazioni. Insomma, in gioco c’è il controllo di una parte rilevante delle infrastrutture europee, di quelle sudamericane ma soprattutto c’è la leadership mondiale nelle reti a pedaggio. Un’occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire, e infatti l’alleanza viene sancita.
È il 15 marzo 2018. Il giorno successivo l’amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci, in un’intervista a «Il Sole 24 Ore» racconta la storia di “un successo”, quello della holding italiana che scala l’olimpo dei colossi globali fino a raggiungerne la vetta: «Siamo il leader mondiale indiscusso nel settore delle concessioni con forti rapporti con il più grande gruppo di costruzioni al mondo. Siamo pronti a cogliere opportunità in tutte le aree del pianeta, in particolare nei Paesi in cui Hochtief è presente in modo forte come Germania, Stati Uniti, Canada e Australia». A certificare il successo sono non solo le parole del manager, ma i numeri stessi: è un’operazione da 17 miliardi, di cui circa 7 miliardi sotto forma di capitale e il resto come finanziamento bancario.
Il tutto per creare una realtà che, secondo le proiezioni delle aziende ed escluso il contributo delle costruzioni, doveva valere quasi 40 miliardi di capitalizzazione in Borsa, poco meno di 7 miliardi di margine operativo lordo all’anno (in pratica la differenza tra ricavi e costi), 14.000 chilometri di reti autostradali e 60 milioni di passeggeri l’anno negli aeroporti.
L’apice è toccato. Ma nessuno immagina che di lì si possa innescare una parabola discendente tanto repentina quanto fragorosa.

Un destino alla Buddenbrook?

Un sinistro presagio che il 2018 si possa trasformare in un anno maledetto per le aziende e la famiglia Benetton arriva che è ancora inverno. A febbraio, durante un viaggio in Argentina, scompare all’improvviso per un infarto Fioravante Bertagnin, marito di Giuliana Benetton. Ma è solo il primo, doloroso lutto che colpirà la famiglia in quei mesi: ne seguono altri due che mineranno alle radici la dinastia di Ponzano Veneto. A luglio viene infatti a mancare Carlo Benetton, fondatore assieme agli altri tre fratelli, Gilberto, Luciano e Giuliana, dell’azienda di abbigliamento che inizialmente ha fatto la fortuna della famiglia. E il 22 ottobre se ne va anche Gilberto Benetton. Ed è questo forse il colpo più duro da incassare. L’imprenditore, 77 anni, è sempre stato l’anima finanziaria della famiglia. Se Carlo e Giuliana erano i tecnici e Luciano il creativo, è stato lui quello che ha creato l’impero da 10 miliardi che ha dato lustro internazionale ai Benetton. Lo ha fatto con il supporto del manager più fidato, quel Gianni Mion, classe 1943 e originario di Vo’ che – dopo l’ingresso in azienda nel 1986 – è stato ai massimi vertici del gruppo per oltre un quarto di secolo. La svolta si è realizzata attraverso un piano di diversificazione che ha allargato sensibilmente il raggio d’azione della famiglia. Il progetto di ampliamento del portafoglio investimenti, che doveva portare la dinastia ben oltre il business storico dei maglioni colorati, è iniziato a fine anni Ottanta con l’acquisto della SME, il ramo dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (la famosa holding pubblica IRI nata sotto il fascismo) specializzato nella grande distribuzione, da cui è nata Autogrill, e poi ha toccato autostrade, aeroporti, immobili e partecipazioni finanziarie.
«Sono nato con il portafoglio in mano» diceva di sé Gilberto Benetton, quasi a giustificare la propria vocazione per la gestione dei conti. Passione che si sposava con una propensione al lavoro quasi maniacale: «Le nuove generazioni al limite chiedono di essere impegnate un giorno in meno piuttosto che uno in più»1 raccontava. Incarnando così di fatto lo stereotipo del classico imprenditore del Nord-Est, personaggi con i quali in realtà si è sempre mischiato relativamente. I salotti, che pure doveva frequentare, non li ha mai amati; piuttosto, ha sposato fin da subito la filosofia casa-lavoro.
Secondogenito di quattro fratelli, Gilberto era nato nel giugno 1941, proprio nei giorni in cui la Germania di Hitler dichiarava guerra all’Unione Sovietica. Quattro anni dopo rimase orfano di padre (morto di nefrite, faceva il camionista in Libia) e alla fine si ritrovò a dover abbandonare gli studi presto, ad appena 14 anni. Ed è stato, peraltro, quello che in famiglia ha compiuto il percorso più lungo sui banchi di scuola. La ricetta del successo, ha sempre ricordato, è stata quella di dedicare la vita al lavoro e di costruire una perfetta suddivisione dei ruoli con gli altri fratelli. Ma, soprattutto, decisiva è stata la fiducia incondizionata che li ha sempre legati.
In quel maledetto 2018, prima la morte dell’amatissimo fratello Carlo e poi la tragedia del Ponte Morandi hanno messo a dura prova un fisico già debilitato dalla malattia. La sua scomparsa in un momento così delicato ha fatto tremare Palazzo Benetton. Anche perché la maxi operazione con Abertis, sebbene già concordata, era ancora tutta da realizzare.

Sotto i riflettori, in posizione scomoda

La firma finale sull’affare Atlantia-Abertis era stata apposta il 29 ottobre, ma il crollo del Ponte Morandi ha generato una valanga difficile da arrestare.
Sul piano dell’immagine la famiglia è distrutta, forse incapace di mettere a fuoco la delicatezza del momento, forse semplicemente non in grado di gestire una situazione fuori dall’ordinario. Il giorno dopo la tragedia del viadotto la dinastia era a Cortina per un pranzo con settanta invitati in tutto, un appuntamento fisso, ripetuto di anno in anno e che questa volta, ufficialmente, doveva servire anche per commemorare la scomparsa di Carlo. Ma agli occhi del mondo è parso come un gesto ben al di là dell’inopportuno: a Genova si stava ancora scavando tra le macerie. E nessuno era lì. Né i soci di controllo né di fatto i manager che sono usciti davvero allo scoperto solo nel giorno dei funerali di Stato delle vittime. Ore di vuoto che hanno lasciato il segno.
«I Benetton e il management di Atlantia sarebbero dovuti correre a Genova il 14 agosto, avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche fin da subito» sottolinea un manager di lungo corso che ha gravitato per anni attorno alla famiglia.
«Non siamo stati capaci di far sentire la nostra vicinanza alla città e ci scusiamo profondamente» dicono il presidente di Atlantia, Fabio Cerchiai, e il CEO Giovanni Castellucci il 18 agosto. Ma quest’ultimo, algido, precisa: «Tutti vogliamo sapere cosa è successo, sentiamo tutta la responsabilità sociale, ma pensiamo anche che la magistratura debba avere tempo per accertare la verità velocemente».2 Nessun mea culpa, nessun passo indietro.
Eppure il dubbio che le cose non fossero state fatte nel modo giusto si era già insinuato nell’opinione pubblica. Nelle ore immediatamente successive alla tragedia è emerso che Autostrade per l’Italia solo tre mesi prima aveva indetto un bando di 20 milioni di euro per rinforzare il Morandi; in particolare, tra gli altri, gli stralli della pila 9, quella incriminata. Senza dimenticare la strage del bus che il 28 luglio 2013 precipitò vicino ad Avellino da un viadotto dell’A16, tratta sempre in capo ad ASPI, per la rottura dell’impianto frenante. L’autista, nel tentativo di bloccare la corsa, si accostò alle barriere che cedettero sotto il peso del mezzo facendolo cadere nel vuoto e causando 40 morti.
È sulla scorta di tutto questo che il governo a guida Lega - Movimento 5 Stelle ha gioco facile a mettere nel mirino azienda e famiglia Benetton. Già da anni, del resto, la dinastia di Ponzano veniva tacciata di aver costruito la propria fortuna facendo “i furbetti del casello”, ossia arricchendosi con i ricavi dei pedaggi e non rispettando gli impegni in tema di investimenti sulla rete. Nota, in proposito, una frase di Antonio Di Pietro che nel 2006, appena nominato ministro delle Infrastrutture dichiarò, riferendosi al meccanismo, a parere suo da rivedere alla radice, di tariffe-investimenti: «La cuccagna è finita».3 Alla fine, tuttavia, anche lui si dovette arrendere. D’altra parte l’equazione in realtà non è così lineare, tutt’altro, ma ha sempre fatto breccia nell’immaginario collettivo. E questo è bastato a Danilo Toninelli, nel 2018 al ministero delle Infrastrutture, supportato dal vice premier Luigi Di Maio, per avviare la procedura di revoca della concessione. Procedura poi accantonata a favore del passaggio di ASPI sotto il cappello di CDP. Disegno, quest’ultimo, che non ha ancora trovato compimento e continua a convivere con l’ipotesi che Atlantia si liberi del controllo di Autostrade tramite la scissione dell’asset.
La famiglia Benetton, in ogni caso, si è trovata ad affrontare tutto ciò privata della mente più lucida: Gilberto. E con l’AD di Atlantia, Castellucci, fumo negli occhi per istituzioni e opinione pubblica, seduto al vertice della società fino a settembre 2019. Ossia oltre un anno dopo la tragedia di Genova e tre mesi esatti dopo il ritorno alla guida di Edizione, la “cassaforte” dei Benett...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Autostrade in frantumi
  4. Introduzione
  5. 1. 2018, l’annus horribilis
  6. 2. Una grande asta con un solo offerente
  7. 3. Sogni di grandezza
  8. 4. I numeri parlano chiaro
  9. 5. La fatale incuria
  10. 6. Castellucci, la gloria e poi la polvere
  11. 7. La politica sbarca sulle macerie del Morandi
  12. Conclusioni
  13. Copyright