Le cose innominabili (Nero Rizzoli)
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Le cose innominabili (Nero Rizzoli)

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Le cose innominabili (Nero Rizzoli)

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NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Emma Battaglia, Taranto, ce l'ha nel sangue: come patologia forse causata dalla polvere del grande Siderurgico che scontorna i margini delle cose, colora di rosso le tombe al cimitero e si deposita nei polmoni. Emma, il suo male, l'ha chiamato la Bestia. Del resto le parole sono importanti. Lo sa bene lei che è insegnante in un liceo e nel tempo libero fa la maestra a ragazzini che altrimenti imparerebbero solo dalla strada. Ma a furia di fronteggiare la Bestia in agguato si finisce per vedere il mondo in modo diverso, e da una prospettiva obliqua. Così Emma osserva il terremoto che scuote gli equilibri di potere ai piedi della Fabbrica. L'omicidio di un commercialista con entrature importanti e la guerra tra i clan del crimine organizzato hanno precipitato Taranto nel caos.
Persona casualmente informata dei fatti, vittima di tradimenti passati che proiettano la loro ombra fino a oggi, la professoressa Battaglia si ritrova a ricordare, a intercettare pettegolezzi, a parlare con sbirri che dovrebbero investigare e con testimoni che credono di aver visto. Nella città dei veleni la polvere non solo contagia, ma distorce, annebbia e confonde.
Autore di culto del noir italiano, Girolamo De Michele scrive un poliziesco dalle mille voci, una commedia umana in cui l'indagine si frantuma in un infinito gioco di specchi e la scoperta della verità non coincide col fare giustizia. Racconta di un Sud che continua a dire delle vergogne del Paese intero: del profitto che vale più della vita, della catastrofe ambientale sulla pelle dei poveri cristi, dei gattopardi di sempre travestiti da nuovi padroni, di odiatori da social network, di sindacalisti corrotti, questurini corrotti, politici corrotti. Perché il veleno più subdolo è quello che guasta il cuore e la mente.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858698587

PARTE TERZA

Un deserto che conosco

Alla fine dei sabati, capita pure che mentre comincia a cadere una pioggia che sembra di febbraio, all’agente della DIA Nina Russo squilla il cellulare per un SMS. Un numero di dieci cifre.
Nina apre un cassetto, prende una scatola, la apre, estrae un cellulare da due soldi, neanche uno smart, e digita quel numero, alla rovescia. Poi cancella l’SMS.
«Che c’è, Antoni?»
«È sicuro questo telefono?»
Certo che è sicuro: è la linea di comunicazione personale fra la numero 2 dell’antidroga, e la punta di diamante degli scarafoni. Un contatto che non dovrebbe esistere, soprattutto ora che questi scappati da casa si sono fatti in una notte il vertice dei clan locali. Ma vai a spiegarlo a un maschio alfa che ci si può fidare delle donne, una volta ogni tanto: sarà che la diffidenza gli sale su col testosterone.
«Sì, Antoni, è sicuro. Come al solito, dimmi che c’è, che poi lo getto.»
«C’è che ti devo fare un favore. Sotto casa del commissario Assente, sta ferma da un’ora una macchina con uno dentro. E lo sai la targa che numero ha?»
Nina Russo sospira. Ecco che arriva la tempesta perfetta, la cazzata che fa venire giù tutto. «Non mi dire, Antoni.»
«Non te lo dico io, Nina. Te lo dicono quelli della Salinella, che è zona loro e se ne sono accorti: è la macchina del capo tuo, Samuele Vinci. E guarda che stava là sotto anche ieri sera. Risolvi tu, prima che quello combina un guaio?»
«Ora ci penso io… Antoni? Che dici, ce le facciamo due chiacchiere dopo?»
«Fa’ che passo dall’angolo a mezzanotte e all’una, se ti trovo mi fermo.»
Altro sospiro: fa così Nina, quando deve pensare in fretta. Alfredo Tomasi: non c’è che lui. Smonta il telefonino, toglie la SIM e separa la batteria. Poi chiama col suo cellulare, parla con l’appuntato, ed esce buttandosi addosso un giubbotto, con la tuta di cotone da casa, senza neanche cambiarsi. Cellulare e batteria finiscono in due cassonetti diversi (in culo alla differenziata), la scheda in un tombino.
Samuele Vinci è da due ore in macchina, che aspetta: prima o poi quella merda deve rientrare. Dove cazzo la passa la sera? Ma tanto qui deve venire a dormire, e io qui sto, conclude mettendo la mano nella tasca del giubbotto e impugnando la pistola.
Deciso a farsi giustizia, a vendicare il pestaggio e l’arresto del figlio, Vinci: con la sua macchina e la pistola d’ordinanza, vedi se non è andato fuori di brocca. Tanto da non accorgersi delle due volanti che arrivano, senza sirena e a fari spenti: ma lui sempre un agente della DIA è. O dovrebbe essere: stasera forse no.
A distanza, Nina Russo vede gli agenti bussare al finestrino, aprire lo sportello, tirare Vinci fuori dall’auto più o meno con le buone, e caricarlo su una delle due volanti.
Quando ripartono, hanno i fari accesi.
È andata bene, per fortuna. Già che c’è, Nina resta ad aspettare che Assente rincasi: appena lo vede infilare la chiave nel portone, si volta e raggiunge la moto parcheggiata all’altro isolato. A far sapere ad Assente cosa stava per succedere, ci penserà qualcun altro: il prefetto, magari.
Manca un quarto a mezzanotte: giusto in tempo per farsi trovare all’angolo.
UN DESERTO CHE CONOSCO: c’è scritto così, sul muro. Scritta recente, che si sente ancora l’odore. Boh… Passa una moto, fa il giro dell’isolato, ritorna e si ferma. Il conducente si toglie il casco.
«Hai cambiato moto, Antoni?»
«Questa non la conoscono. Meglio così, visto come stiamo combinati.»
Siedono su un gradino. «Che sta capitando, Antoni? Che vi siete messi in testa?»
Lui si appizzica una sigaretta. «Quello che prima o poi doveva succedere, Nina. Ci siamo stancati di stare sotto il piede dei vecchi: ci prendiamo quello che dev’essere nostro. Con le cattive.»
«E quelli della Salinella? Com’è che ti hanno passato l’informazione? Vi siete alleati?»
«See, la Salinella: ma quando mai. I Solito se ne restano per i fatti loro come sempre. Però un commissario morto è una bomba che non vuole nessuno; pure noi sappiamo pensare: fa’ che voi sbirri state più accavallati di noi, Nina. E poi Assente abita nella zona loro… No, Nina, era una cosa fra la Famiglia, D’Ambrosio e gli Scaringi. Anche gli altri se ne stanno a guardare, per ora: basta che il loro territorio non lo tocchiamo. E noi a casa loro non vogliamo metterci piede: ci basta il Borgo.»
La fa facile, Antoni: tagliata la testa al re, si fa la repubblica federale, ogni clan nel proprio territorio e nessuno che piscia fuori dal vaso suo. Che era quello che aveva detto alla riunione in Città Vecchia, con Gino Papa e i fratelli Loconte. Come se queste cose le decidessero loro. Nina gli sfila la sigaretta dalla mano, tira due boccate e la restituisce, guardandolo in faccia.
«Ieri abbiamo incontrato i fratelli Curcio, i calabresi che sono venuti a vedere che sta succedendo» risponde Antoni alla domanda muta. «L’abbiamo spiegato anche a loro che vogliamo solo quello che è nostro. Poi ci sediamo a un tavolo e ci mettiamo d’accordo, tutti quanti.»
Nina continua a fissarlo senza parlare.
«Hanno detto che lo decidono loro con chi sedersi a tavola: poi si sono alzati e se ne sono andati senza manco ’na parola. Anzi, no: una cosa l’hanno detta. L’ha detta Antonino a Ruggero, uscendo: quando ’a jatta non c’è i surici ballunu. Però qui a casa nostra stiamo: lo devono capire anche loro che cosa gli conviene.»
Nina scuote la testa. «Lo sai che i fratelli Curcio sono due picciotti, sì? Non è a loro che puoi dire cosa si deve e cosa non si deve fare. Tu a don Giulio vuoi spiegare come va la vita?»
«Non io, Nina: la Famiglia. Noi siamo gli scarafoni, no? Be’, però adesso teniamo la Mamma che ci trova belli, anche se siamo tutti neri. E se la Mamma decide, noi quello che ha deciso facciamo.» Tira una boccata. «Nì, c’è un nemico che spara se non spari tu per primo… quando c’è una guerra là fuori non puoi startene in disparte.»
«C’è anche una guerra dentro che ti consuma nella mente, Antoni… fa’ che una mattina finisce che ti trovo sul giornale…»
Lui butta la cicca per terra e la schiaccia con lo stivaletto. «Può essere. Che ti credi, Nina, che non lo so? Almeno sul giornale ci finisco: se campo altri dieci anni e muoio di cancro all’ospedale, dici che me lo fanno l’articolo in prima pagina?» Prende dalla tasca il pacchetto di sigarette e fa per estrarne un’altra con i denti.
Nina gli stringe la mano e l’allontana dalla bocca, poi gli porge una sigaretta arrotolata che teneva in tasca. Antoni prende lo zippo e accende la canna. Fa due tirate profonde, che quasi gli va di traverso.
«E che fai, tiri il freno a mano?»
Lo scarafaggio sorride, abbozza e passa lo spino. La poliziotta fa due tiri anche lei. Poi un terzo, avvicina la bocca a quella di Antoni, e gli soffia il fumo in gola, mentre lo scarafaggio l’afferra per i capelli raccolti in una coda.
«Ce l’hai la notte libera, Antoni?»
«La notte sì. Ma devo tornare in Famiglia prima che fa giorno. E non ti posso portare a casa mia, che neanche io ci vado più da quando ci sta ’a uerra
Nina fa sì con la testa due volte, socchiude gli occhi. «Quella roba di Fortepacce, quella che abbiamo sequestrato, era roba buona. Era un peccato portarla tutta al deposito della questura, che andava sprecata. Ne ho ancora un po’ a casa mia, se ti va.»
Antoni annuisce.
«Vai avanti tu con la tua moto» dice Nina tirandosi su la lampo del giubbotto, «ti vengo dietro io a distanza, così sto tranquilla che non ti succede niente.»
Alle quattro del mattino, Antoni risale in moto e riparte. Nina lo guarda andar via dal balcone, con una sigaretta in mano e una camicia indosso che non s’è neanche presa il fastidio di abbottonare.
Sul muro appena girato l’angolo c’è scritto ME NE ANDRÒ SENZA TE.

Piove sul nulla

È da ieri sera che viene giù sulle strade, sulle tombe del cimitero, sui tetti e sulle ciminiere, sui campi di calcio e sulle pensiline dei parcheggi. La pioggia batte il grigio borgo, lava la faccia delle case senza posa, schiuma a piè delle gronde come bava: gorgoglia, brulica e spuma. Piove su corso Italia uno stillicidio senza tonfi di motorette o strilli di bambini, che copre di un dito d’acqua asfalto e marciapiede.
Piove dentro le bacinelle messe a terra nel tribunale, e dentro le scarpe del commissario Assente, che al tribunale ha un appuntamento col giudice Lopopolo.
«Ennò, commissà» risponde l’usciere Moretti, «il giudice Lopopolo ha telefonato che non viene. Quello quando piove non viene mai. Dice che è per protesta. Quale protesta, commissà? Venga, che mostro anche a lei come stiamo messi. Li vede quei secchi? Quella, l’acqua che cade sul tetto è, s’infiltra dal soffitto e viene giù a pioggia. E quelle crepe sul muro, là e là? Eh, questo è, commissà! E per fortuna che non deve andare in bagno, che non ha idea di come stanno, i bagni. E i pavimenti? Ma le sembra che un tribunale nuovo deve avere i pavimenti di linoleum, che si scivola quando sono bagnati, e a furia di camminare restano le impronte e il fango portato dentro dalle scarpe. Ma l’ha guardato l’altro giorno il servizio alla televisione? Mica però l’hanno detta tutta, commissà: che qua, sotto il linoleum, l’amianto teniamo. L’amianto. E al piano di sopra ci sono anche dei buchi nel pavimento: con una tavola inchiodata sopra li abbiamo tappati. Poi, se vogliamo parlare delle finestre coi vetri rotti e incollati, che non si possono aprire manco per cambiare l’aria… e lei si stupisce del giudice Lopopolo che non viene? Dovrebbe stupirsi di quelli che ci vengono, a lavorare così. Ma se non teniamo nemmanco l’uscita di sicurezza, non teniamo… Qua, solo gli occhi per piangere ci sono rimasti.»
E intanto che l’usciere Moretti continua a lamentare l’assenza delle istituzioni e lo sconcerto della pubblica opinione, come ha sentito dire alla televisione, il cellulare del giudice Lopopolo non risponde. E quindi niente ordine di arresto, per ora: e domattina cosa gli dico al prefetto che ha convocato di nuovo il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica?
Non gli dice una sola parola, al prefetto: è il prefetto che ne ha da dire. Un uomo di parola, davvero.
A cominciare dall’avvicendamento alla direzione della DIA: al posto di Samuele Vinci, che ha chiesto un trasferimento per ragioni di famiglia, il nuovo vice è Nina Russo, che si è già distinta per capacità esecutiva nell’operazione Marco Polo, quando è stata chiusa la base di spaccio di Fortepacce; e, cosa non meno importante, per la propensione a collaborare con gli altri reparti della pubblica sicurezza, senza creare tensioni e incomprensioni. L’agente Russo sorride, e ricambia con grazia il cenno di complimento che le arriva da tutti i presenti.
«Tu, Vinci, qui a Taranto dopo quello che hai cercato di combinare non ci resti. Io ti firmo la domanda di trasferimento per ragioni di avvicinamento ai familiari bisognosi di cure, e tu te ne parti. Sei mesi, poi vediamo.»
«Quale domanda? Io non ho presentato…»
«No, Vinci, tu no. Te l’ho presentata io, per te. Assieme a quella di trasferimento di tuo figlio dal carcere a una comunità di recupero nel Nord Italia, nella città in cui tu lo raggiungerai. Così uscite tutti e due: lui dal carcere, tu da Taranto.»
«Io non esco da nessuna parte, prefetto.»
«Tu, Vinci, te ne esci. Perché sennò a tuo figlio gli arriva un’incriminazione per violenza e lesioni agli agenti che erano andati a perquisire il covo in cui si stava facendo, e a te una sospensione dal servizio per tutta la cocaina che avevi in corpo ieri sera. Risparmiati le scenate, Vinci: ti ho fatto analizzare il sangue, dopo che ti abbiamo sedato. Mettiamola così: tuo figlio si ripulisce, e magari a Taranto non ci torna più. E io ti prometto che la roba che aveva in casa sarà derubricata a uso personale, le lesioni le addebitiamo tutte al Mezzaparola, che tanto dove sta cosa vuoi che gli freghi, e siamo tutti contenti. E vedi di metterla bella chiara questa firma, Vinci.»
«Nel frattempo» prosegue il prefetto, «l’arresto del sospettato Diego D’Oronzo, operato ieri pomeriggio dall’Arma su mandato del giudice Lopopolo, conclude un capitolo d’indagine aperto dall’omicidio del noto commercialista Catapano. Ma i documenti trovati nella sua abitazione sembrano aprire un nuovo filone d’indagine, che potrebbe portare a rivedere il profilo del Catapano da semplice vittima a partecipe di una rete di usura, con possibili elementi di pressione verso altri soggetti del mondo economico. Al tempo stesso, il D’Oronzo era in relazioni di amicizia di lunga data con figure di primo piano dell’imprenditoria locale, della quale peraltro lui stesso era parte: fermo restando che la legge è uguale per tutti, va evitata qualsivoglia deriva giustizialista che porterebbe al pubblico ludibrio di soggetti che del D’Oronzo erano conoscenti, ma che non risultano al momento implicati in fatti penalmente rilevanti. Perciò sarà necessario un coordinamento investigativo: in accordo con il giudice istruttore, il caso Catapano resta affidato all’Arma; al...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le cose innominabili
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. PARTE TERZA
  7. Nota dell’autore
  8. Copyright