I cani di strada non ballano (Nero Rizzoli)
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I cani di strada non ballano (Nero Rizzoli)

  1. 176 pagine
  2. Italian
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I cani di strada non ballano (Nero Rizzoli)

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NERO RIZZOLI È LA NUOVA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. È per via dell'anice sversato nel fiume dalla distilleria che i cani del quartiere si riuniscono, di sera, all'Abbeveratoio di Margot. Oggi, tra un sorso e l'altro, serpeggia nell'aria la preoccupazione. Da parecchi giorni due di loro mancano all'appello: il ridgeback rhodesiano di nome Teo e il levriero russo Boris, detto Il Bello. Gli altri, i loro compagni, hanno intuito che la scomparsa nasconde qualcosa di sinistro e sono all'erta. E uno di loro, un meticcio con lo sguardo segnato dal sangue e dalla fatalità, un ex lottatore sopravvissuto a due anni di combattimenti feroci in un capannone di periferia, decide di cercarli. Il suo nome è Nero. Ha l'anima rappezzata e gli occhi da vecchio, cicatrici sul muso e nella memoria, ma da solo intraprende il viaggio, la sua nuova ricognizione nelle cattiverie della vita.
È indimenticabile questa storia nera che Pérez-Reverte inventa. Una compagnia di personaggi duri e beffardi, sui quali si staglia un meticcio coraggioso e solitario che si muove in un mondo diverso da quello degli umani, dentro il quale valgono soltanto le migliori regole della lealtà e dell'appartenenza. Un mondo che a volte ha clemenza per gli innocenti, e una giustizia per chi è colpevole.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858698563
1

L’Abbeveratoio di Margot

Il mio padrone credeva che combattessi per lui, ma si sbagliava. Ho sempre combattuto per me. A causa della mia razza e del mio carattere, sono un lottatore nato: a quei tempi pesavo cinquanta chili, misuravo settantaquattro centimetri dalle zampe al garrese e avevo una bocca dai forti canini in cui sarebbe entrata la testa di un bambino. Sono nato meticcio, incrocio fra un mastino spagnolo e un fila brasileiro. Da cucciolo ho avuto uno di quei nomi teneri e ridicoli che mettono ai cagnolini appena nati, ma da allora è passato molto tempo. L’ho dimenticato. È da tanto che tutti mi chiamano Nero.
Agilulfo – un segugio magro, filosofo e colto che di queste cose ne capisce – assicura che sono nato per il combattimento; che sono un guerriero antico con una stirpe gladiatoria vecchia quanto la storia degli umani. A quanto pare, i miei antenati hanno sbudellato orsi e lupi in montagna e leoni nel Colosseo, hanno accompagnato le legioni romane e fatto a pezzi i barbari nelle foreste della Germania e sul limes del Danubio, sono andati a caccia di indios nei Caraibi e di schiavi neri fuggiaschi nelle selve amazzoniche. Un bel curriculum, dice Agilulfo. Forse per questo, aggiunge, noi cani della mia casta, fin da cuccioli, abbiamo gli occhi da vecchio, l’anima piena di rozze cuciture e lo sguardo rassegnato, fatto di secoli di sangue e fatalità. L’uomo ci ha resi assassini, o quasi. E lo sappiamo.
«Salve, Nero.»
«Salve, collega.»
«Un sorso di anice?»
«A quello non dico mai di no.»
«Serviti da te.»
È stato Agilulfo a parlarmi per primo della scomparsa di Teo e di Boris il Bello. Quella sera ero andato, come al solito, all’Abbeveratoio di Margot, accanto alla distilleria di anice che sversa nel fiume, ed ero lì a slinguazzare nel canale di scolo, pensando alle mie cose. Senza troppo successo.
Negli ultimi tempi, pensare mi costa molti sforzi. La mia testa non è più quella di prima. Le idee e i ricordi vanno e vengono, e le vecchie cicatrici che ho sul muso, sulle zampe e sul dorso sembrano diventare fresche. Sto invecchiando, suppongo. A noi cani succede in fretta.
«A cosa pensi, Nero?»
«Non saprei dirtelo.»
Agilulfo mi osservava attento, sempre più preoccupato. A volte – e mi succede con frequenza – rimango imbambolato, o assorto con qualcosa di fisso nella testa, mentre il corpo mi formicola con uno strano tremito. Qui non si tratta più dell’età, ma della memoria. Non a caso per due anni mi sono guadagnato da vivere con quelli che chiamano combattimenti di cani, sapete di cosa parlo: un cerchio – lo Scannatoio, in gergo cagnesco –, un mucchio di umani sudati e vociferanti che scommettono denaro e due lottatori dagli occhi febbrili che si affrontano a morsi. All’ultimo sangue. E cose del genere non accadono e poi si dimenticano facilmente.
«A volte sembri andato, Nero. Come se non fossi qui.»
«Forse non ci sono.»
Agilulfo si è strofinato il muso dopo un sorso nel canale di scolo. Ho già detto che è un cane colto. Il suo proprietario è un umano con una biblioteca grande e va molto al cinema.
«Essere o non essere» ha sentenziato grave, «come ha detto il bardo.»
«Che bardo?»
«Non ne ho idea. Il mio umano lo chiama così.»
«Ah.»
«Ha scritto teatro, a quanto pare.»
«Accidenti.»
Spesso torno in me, con i canini scoperti, mentre ringhio al vuoto dopo aver creduto di essere circondato da grida di umani, fumo di sigarette, spettri di cani che ho ammazzato o che ho lasciato invalidi: gli stessi che mi hanno inflitto sul corpo, e sospetto anche da qualche parte dentro, i segni che punteggiano il mio pelo scuro. Margot la Portegna, la bovara delle Fiandre che si occupa dell’Abbeveratoio – lo ripulisce dall’immondizia e dai pezzi di plastica, tiene lontani i gatti e le loro pisciate e i piccioni e le loro cacate – racconta che quando non ci sto con la zucca mi metto a combattere con l’aria, come se fossi impazzito.
«In quei casi, che» dice di solito, «la cosa migliore è togliersi di torno e aspettare che si calmi il casino… Il Nero incazzato è una brutta bestia, che. Ti fa a pezzi senza che gli si sposti un pelo.»
Agilulfo, che ha più esperienza e acume, sostiene che il mio caso ha a che fare con quegli umani che chiamano pugili.
«Lo sai» riassume. «Quelli che vanno in giro suonati a forza di ricevere cazzotti e di andare al tappeto.»
A me, di andare al tappeto è successo poche volte, e mai alla fine di un combattimento. Per questo posso raccontarlo, è chiaro. Quando un cane da combattimento va davvero al tappeto, lì finisce la sua carriera e spesso la sua vita. Se è ferito grave, gli danno il colpo di grazia senza riguardi; e se ce la fa ancora, finirà per servire come sparring per altri cani che iniziano, o legato in uno spiazzo, un garage o un sudicio capannone, come cane da guardia, a pezzi dentro e fuori. Pazzo di sete, solitudine e paura.
«Non sappiamo ancora niente di Teo» mi ha detto Agilulfo quella sera.
Ho bevuto un altro sorso dal canale e ho tenuto la testa e le orecchie basse, preoccupato. Teo era il mio migliore amico. O lo era stato fino a poco tempo prima. Un ridgeback rhodesiano serio e forte, di totale fiducia. Raramente mancava alle nostre riunioni da Margot.
«L’ho visto qui due settimane fa» ho detto ad Agilulfo. «E anche tu.»
«Certo. Quando te ne sei andato, è rimasto con Boris il Bello… Hanno slinguazzato anice fino a tardi e se ne sono andati chiacchierando delle loro cose. Li hanno visti insieme dalle parti del Varco del Topo.»
«Chi li ha visti?»
Agilulfo contemplava, stoico, una zecca che gli saliva lungo la zampa destra.
«Susa.»
«La sgualdrina?»
«Sì. A quanto racconta, erano rilassati, agitavano la coda.»
«È stata l’unica cosa che hanno agitato?»
«Così assicura lei. Il signorino e il tipo tosto, dice di aver pensato. Gli ha abbaiato un po’, loro l’hanno salutata e hanno proseguito.»
«Senza nemmeno annusarla?»
«È una vecchia conoscenza.»
Ho sorriso come sorridiamo noi cani, tirando un po’ fuori la lingua e sbuffando due o tre volte: arf, arf, arf. Susa era una meticcia di strada di quelle che non dicono mai di no. Di solito si appostava di fronte al Varco del Topo in cerca di compagnia, ed era raro che non la trovasse. A volte i cani giovani ci andavano in gruppo, e lei ne scozzonava diversi allo stesso tempo. Io stesso, in altri periodi, avevo avuto a che fare con lei, come ogni cane maschio dei dintorni, a eccezione di Rudi, alias Perlina la Dog Queen: un delicato cagnolino grigio perla che suonava un’altra musica.
«A partire da lì» ha continuato a raccontare Agilulfo, «non si sa più nulla di loro. Né dell’uno né dell’altro. A quanto pare, Boris non è mai arrivato a casa sua.»
«E Teo?»
«Nemmeno lui, sembra.»
«Che strano.»
«A chi lo dici… Lui è un animale abitudinario.»
Sono rimasto per un po’ in silenzio. Teo viveva con una vecchietta vedova, di pochi mezzi, a cui sorvegliava il giardinetto in cambio di cibo. Spesso si sdraiava all’ombra dei panni stesi.
«Non lo vedo da un sacco di tempo, come ti ho detto» ho concluso alla fine, appoggiando la testa fra le zampe. «E l’ultima volta ci siamo scambiati a stento una mezza dozzina di grugniti.»
Agilulfo ha dato un’altra leccata nel canale e si è asciugato il naso strofinandomelo sul fianco. Poi ha ruttato con effluvi all’anice prima di stendersi accanto a me. Con il fatto che era filosofo – «abbaia a te stesso» era il suo motto preferito – si permetteva spesso certe confidenze.
«E non si fa nemmeno vivo» ha commentato. «Siccome abito vicino a casa sua, mentre venivo qui ho dato un’occhiata. Il cibo e l’acqua sono sempre intatti, sulla porta… E quanto a Boris il Bello, i suoi padroni hanno messo degli avvisi di scomparsa qualche giorno fa. Non li hai visti i cartelli attaccati ai lampioni e agli alberi?»
Ho negato con la testa. Ero rimasto a lungo a dormicchiare sotto un ponte del fiume, con uno strano mormorio nelle tempie. Non era la mia settimana migliore. Quello che ignoravo era che stavano arrivando giornate peggiori.
«Eccolo qua.» Agilulfo mi ha allungato con la zampa una fotocopia sgualcita che era lì a terra.
Margot si era avvicinata per dare un’occhiata curiosa dall’altro lato del canale di scolo.
«Pure nelle foto» ha detto «sembra un signorino, quel bastardo, che
«Non è un bastardo» ha precisato Agilulfo, fintamente equanime. «È un levriero russo dagli occhi dorati.» Ha fatto una pausa ironica. «Razza borzoi, cioè. Un aristocratico.»
Margot ha emesso un rantolo molto simile a una risata sprezzante. Sebbene avesse due o tre quarti di bovara delle Fiandre, il suo accento era portegno. L’aveva portata dall’Argentina un cantante di milonga che era morto dopo poco, o se n’era andato, va’ a sapere, lasciandola in mezzo alla strada senz’arte né parte finché non le era venuto in mente di occuparsi dell’Abbeveratoio.
«Guarda, siamo tutti bastardi, che. Da quando abbiamo rinnegato la stirpe libera del lupo, essere al servizio degli umani ci degrada. Perciò, bastardi, no?… Bastardi e strabastardi.»
Margot era, e continua a esserlo, una cagna risentita, aspra, femminista – nessuno di noi poteva vantarsi di averla mai montata – e con un pessimo carattere. Anche se aveva le sue debolezze, come tutti. Io ero una di quelle debolezze. Mi trattava bene, mi lasciava tracannare nella parte più pulita e fresca del canale di scolo, e quando perdevo la tramontana mi permetteva di sdraiarmi lì vicino e mi leccava sul muso e sulla pancia finché non tornavo in me e mi calmavo un poco. Poi, per non crearmi illusioni, passava un paio di giorni a marcare le distanze. Adesso eravamo in quella fase.
«Tanto più in questi tempi di stronzi e di mercanti» ha aggiunto, guardandomi di sottecchi, «in cui chiunque si vende per un miserabile osso.»
«Perfino per un osso senza midollo» ho sottolineato, scherzando.
«Esatto, che. Oppure vende i compagni.»
«Canis canis lupus» ha filosofeggiato Agilulfo.
Mi fissava con intenzione – era al corrente del mio passato – e io ho distolto lo sguardo con la scusa di esaminare la fotocopia. Ed eccolo lì, in effetti, Boris il Bello con il suo lungo pelo serico e pulito, il muso distinto, gli occhi petulanti e color oro vellutato, il collare antiparassitario al collo insieme all’altro, quello superesclusivo di cuoio intrecciato, con tutte quante le sue belle piastrine regolamentari: vaccino antirabbia, vaccino contro il cimurro, vaccini per tutto. Un collega curato e di buona famiglia.
Perso cane che risponde al nome di Boris doveva recitare il testo. Lauta ricompensa, eccetera. Non sono molto addentro ai conti degli umani, però la cifra sembrava enorme, in tono con l’animale, i padroni e tutto ciò che circondava la vita del cane in questione, una di quelle merdine privilegiate che nascono sui cuscini, s’incrociano soltanto con femmine dotate di pedigree e vincono concorsi di bellezza canina stando in posa, in atteggiamenti eleganti per farsi scattare la foto.
«Bisogna riconoscere» ha sottolineato Margot, guardando anche lei la fotocopia «che è proprio chic, ’sto stronzo di russki.»
Ho annuito, obiettivo. A Boris, il soprannome Il Bello non l’avevano messo a sproposito: aveva vinto premi e di quando in quando lo facevano incrociare con splendide femmine dal pelo biondo e dalle lunghe zampe, di quelle che vedi soltanto in fotografia sulla rivista «Cani e Cagne» – Teo diceva sempre che quelle femmine non esistevano, che erano finte, che le disegnavano gli umani con il computer – o mentre affacciano il muso dal finestrino posteriore di qualche auto di lusso. Sì. A differenza di Teo, di me, di noi tutti, Boris il Bello era un vincente nato, di quelli che passano sul marciapiede rigidi e obbedienti all’estremità del guinzaglio dei loro distinti padroni, e poi non c’è pischella di razza canina che non cominci a sbavare nelle parti basse. Figlio di cagna di uno snob.
Sono rimasto fino a tardi da Margot, a pensare, fra una slinguata e l’altra nel canale. O a cercare di farlo. Mi riferisco al pensare. La verità è che della sorte di Boris il Bello non me ne fregava un cazzo di chihuahua, però per Teo era diverso. Come ho detto prima, quel segugio rhodesiano di bell’aspetto con il pelo biondo rossastro e le zampe muscolo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I cani di strada non ballano
  4. 1. L’Abbeveratoio di Margot
  5. 2. Noi cani siamo maschilisti
  6. 3. Anche le canidi possono
  7. 4. Vivere è pericoloso
  8. 5. La Valle Nera
  9. 6. Duello alla Gola
  10. 7. Aiutati che il ciel t’aiuta
  11. 8. Il calvario di Boris
  12. 9. Lo Scannatoio
  13. 10. Sangue e arena
  14. 11. Teo e il Nero
  15. 12. Senza padrone né legge
  16. Copyright