Se nascerai donna
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Se nascerai donna

  1. 352 pagine
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Se nascerai donna

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Informazioni sul libro

La carriera di Oriana Fallaci è costellata da incontri con le figure femminili del suo tempo, a partire dai primi articoli di cronaca commissionati dall'«Europeo». La giornalista incontrerà modelle, cantanti, attrici di Cinecittà e star di Hollywood, ma anche personaggi della moda come Coco Chanel o Mary Quant, diventate poi icone per generazioni a venire. Negli anni ruggenti della protesta femminista, intervisterà le protagoniste del movimento come Kate Millett, osservando da testimone attento i cambiamenti epocali che segneranno l'Italia, uno su tutti il referendum sul divorzio. Negli anni Settanta, il periodo in cui colleziona le sue interviste ai potenti della Terra, riuscirà a incontrare Golda Meir e Indira Gandhi, tracciando il ritratto non solo di due eccezionali personalità politiche, ma anche di due profili femminili unici. Oriana Fallaci osserva e descrive un Novecento che vede mutare notevolmente il ruolo e la condizione della donna, in particolare nel mondo occidentale. Lei stessa, d'altra parte, ha incarnato nella sua vita gli ideali di un femminismo concreto: nella libertà profonda di poter essere ciò che voleva ha creduto fino alla fine dei suoi giorni.
Questo libro raccoglie una selezione di pagine dedicate dalla giornalista fiorentina all'universo femminile: interviste, inchieste, ritratti finora mai raccolti in volume. Pagine da cui traspare il suo giudizio tagliente e la sua particolare visione delle donne: creature che dovrebbero essere sempre e necessariamente libere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858698792
Argomento
History

Eva arriva dopo

Ecco il rossetto, vostro onore!

Nell’aula d’Assise stagna un ansioso brusio. Le lampade al neon illuminano di luce bianca la scena conclusiva del processo. Il recinto del pubblico è stipato. Oltre la balaustra gli avvocati ammantati di nero siedono ai banchi. L’imputato attende dentro la gabbia, il volto pallidissimo appoggiato alle sbarre. L’usciere con la mantellina rossa suona il campanello. Chiede silenzio. Entra la corte. Tutti gli occhi sono fissi sulla medesima persona. Ma non è il luminare di giurisprudenza che guardano e neppure l’uomo di cui si sta per decidere l’innocenza o la colpa. Bensì il presidente della Corte che in questo momento entra con passo ondulato e va a sistemarsi, con grazia, sopra lo scanno. Sotto la toga adorna di nappi dorati il giudice porta una robe-tailleur con la gonna plissata all’ultima moda. Ha i tacchi alti e le calze leggere. È infatti una bella signora. Anche da lontano si distingue il volto dai lineamenti gentili, parsimoniosamente truccato, i capelli arricciati con sapienza, le mani sottili che reggono senza tremare il foglio su cui è scritta la sentenza. L’imputato la guarda con occhi insoliti: in cui c’è più curiosità che angoscia. Quando il giudice legge, molti si sorprendono a studiare il tono garbato della voce anziché le parole che dice. Una scena del genere in Italia non si è ancora verificata. Ma forse vi assisteremo presto.
I conformisti se lo ripetono con paura. I cauti con preoccupazione. Gli antifemministi con risate di scherno. Il 1955 sarà l’anno in cui le donne italiane vinceranno la loro definitiva battaglia? Le vedremo fra poco sedute sugli scranni di pretore, di presidente di Tribunale o, più semplicemente, di giudice popolare? Ascolteremo l’usciere che dice ossequioso: «Ecco il rossetto, Vostro Onore»? La rivoluzione sembra vicina. Uno di questi ultimi giorni d’inverno, al palazzo di Giustizia di Roma, si è svolto un solenne dibattito. Dinanzi ad un pubblico di deputate eleganti l’avvocatessa Gabriella Niccolaj Manna, figlia di un celebre penalista, moglie di uno stimato uomo di legge, e professionista fra le più note della capitale, ha discusso sul tema «La donna-magistrato». L’avvocatessa è giovane, bionda, la toga le dona. Per due ore le invitate la ascoltarono senza ombra di impazienza e i loro occhi brillavano come dovevano brillare, trenta anni addietro, quelli delle suffragette che giravano per le vie di Londra tenendo alti i cartelli delle rivendicazioni e facendosi gloriosamente arrestare da robusti poliziotti. Le penne dei cappellini da pomeriggio tremavano insieme alle loro padrone mentre la voce gentile dell’avvocatessa spiegava le ragioni per cui anche le italiane devono affrontare al più presto il nuovo compito.
In America le donne possono accedere a tutti i gradi della magistratura e perfino colui che era il loro più accanito antagonista, il giudice Knok, capo del Southern District, le ha coperte recentemente di elogi. Nell’Unione Sovietica le donne possono essere giudici fin dal 1917, in India fin dal 1919, in Francia fin dal 1946: Madame La Garde, madre di otto figli, è consigliere di Cassazione. In Turchia molte di loro hanno raggiunto il grado di consigliere d’Appello, lo stesso accade in Svezia, in Danimarca, in Bulgaria, a Cuba, in Brasile e perfino in Cina e in Giappone. Insomma l’Italia, la Spagna e il Portogallo sono i soli paesi al mondo in cui la magistratura sia negata alle donne.
Le signore annuivano, con le labbra strette. Un magistrato notò a voce abbastanza alta perché tutti udissero che infatti l’Italia, la Spagna e il Portogallo sono i paesi dove si verifica il minor numero di errori giudiziari. Una deputatessa comunista fece l’atto di alzarsi per affrontare l’incauto, ci fu un momento di imbarazzo, ma l’oratrice continuò imperterrita. Nell’antica Roma, spiegò, le donne potevano esercitare la funzione arbitrale e se non fosse stato per l’impudenza di una certa Calpurnia, la quale andava a discutere le cause indecentemente scollata per far colpo sui giudici, le donne avrebbero potuto esercitare la professione forense anche nel Medio Evo. Tuttavia non mancavano, nel 1500, illustri eccezioni. In Italia le donne ripresero l’avvocatura nel 1919 quando Teresa Labriola riuscì ad essere iscritta nell’Albo di Torino, ma signore coraggiose si battevano per questa conquista fin dal 1883 quando Lidia Poet ottenne la stessa iscrizione e la corte d’Appello gliela annullò. Solo a Roma vi sono centocinquanta professioniste che esercitano ed è falso, come dicono alcuni giuristi, che esse «hanno dato prove mediocri sicché le eccezioni rappresentano adattamenti appena tollerabili». Se vi sono avvocatesse, medichesse, astronome, architette, ambasciatrici, poliziotte, capitane di industria e perfino soldatesse, perché non dovrebbero esistere anche le donne giudici? La domanda formulata in tono flautato dalla oratrice viene ora posta con particolare frequenza: nel corso di conferenze, dibattiti, discussioni in salotto e al Parlamento. Nessuna guerra fu mai impostata dalle donne con altrettanta garbata violenza. La crociata è in atto.
Ci fu un momento in cui, in Italia, molte signore sperarono di diventare autorevoli magistrati. Questo accadde nel 1948 quando entrò in vigore la Costituzione la quale, con l’articolo 3, sancisce la assoluta uguaglianza dinanzi alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di religione e di opinioni politiche. Un altro articolo seduceva le audaci ed era l’articolo 51, il quale stabilisce che tutti i cittadini dell’uno e l’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, «secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Sembrava che questa formulazione bastasse: infatti tre anni dopo veniva approvata la legge sul riordinamento delle Assise dove, per l’ufficio di giudice popolare, il sesso maschile non era menzionato come requisito indispensabile.
La questione nacque sul terreno pratico quando alcune donne chiesero di essere iscritte negli elenchi dei giudici popolari e la commissione mandamentale le respinse. Esse presentarono reclamo al Tribunale di Roma: il reclamo fu respinto. Insistettero presso la corte d’Appello: la corte confermò le decisioni del Tribunale. Allora un’aspirante più ostinata ricorse in Cassazione. Sostenne che l’articolo 3 e l’articolo 51 non pongono limiti alla parità dei diritti di ambo i sessi di fronte alla legge né alla possibilità delle donne di accedere ai pubblici uffici. Spiegò che la legge sull’ordinamento giudiziario delle corti di Assise tace sul requisito del sesso e ciò va inteso come ammissione e non come esclusione delle donne. Rispose la corte di Cassazione che l’articolo 51 è di natura programmatica e il fatto che la legge sull’ordinamento giuridico ignorasse la questione del sesso era da considerarsi semmai come volontà di escludere e non di ammettere le donne nelle giurie popolari. E infine i dibattiti parlamentari su quella legge nient’altro dimostravano che l’intenzione del legislatore di rinviare la delicata questione.
Su queste disquisizioni giuridiche si innestavano inoltre ragioni di carattere psicologico. Dicono coloro che non vogliono le donne nella magistratura: vi è nelle donne una incapacità funzionale a giudicare, impulsive, irriflessive, le donne si fanno trascinare con eccessiva facilità dalle passioni umane, mancano dell’equilibrio indispensabile al buon magistrato, non riescono mai a dare un giudizio sereno. Inoltre mancano di facoltà di astrazione, non v’è in loro potere di sintesi. Rispondono le donne: la scienza non ha riscontrato questa incapacità. È falso che esse siano più emotive degli uomini. Sanno anche essere fredde e controllate. Semmai hanno maggior senso della pietà: ma questo non porta squilibrio nel giudizio, anzi. Nella amministrazione della giustizia, specialmente penale, la sensibilità non è un difetto, è un pregio utilissimo. La legge va applicata con umanità, non con rigidezza. Inoltre le donne posseggono un buonsenso che è più prezioso delle alchimie dei giuristi. Forse non sono loro ad amministrare la giustizia nella famiglia che è la prima cellula della società? Quanto alla facoltà di sintesi, alcune l’hanno, altre no: come gli uomini. Chi non l’ha può acquistarla con l’abitudine allo studio ed alla riflessione.
Così la polemica infuria e la nuova campagna aperta dall’avvocatessa romana l’ha riportata di attualità. Si torna a parlare dei due progetti di legge allo studio dell’apposita commissione: nei quali si chiede esplicitamente l’ammissione delle donne alle giurie popolari, con limitazione numerica, e la modifica della legge sull’ordinamento giudiziario con cui si dovrebbe chiarire una volta per sempre la questione del sesso. Nella discussione intervengono parlamentari. Quelli di destra sono i meno arrendevoli, le loro accuse vengono giudicate (dalle donne) insopportabili. Dice l’onorevole Bellavista: «In certi periodi le donne porterebbero la loro smania di aggressione». Altri, come il senatore Antonio Romano, si preoccupano dell’avvenenza delle possibili giudici. Cosa avverrebbe, dicono, se il giudice fosse una bella donna? Tutti baderebbero a lei anziché allo svolgimento del processo? Ed anche se fosse solo giudice popolare «tutto finirebbe in commedia, in farsa, e infine in matrimonio». E se ad essere troppo bello è l’imputato? Chi garantisce che il giudice non ne rimanga suggestionato? Di fronte a queste facezie psicologiche le aspiranti magistrate perdono le staffe. Forse, ribattono, gli stessi problemi non esistono anche per gli uomini? Forse anche i giudici maschi non vanno soggetti ad isterismi? Non è un mistero per nessuno che l’esito di una causa può dipendere anche da una colica di fegato. Anche le sentenze possono essere influenzate da una artrite o da una itterizia. Anche i giudici sono povere creature soggette a gastralgia e sotto l’apparente impassibilità della toga nascondono spesso l’angosciosa lotta di chi non può liberarsi da certe servitù fisiche.
Vi sono poi coloro che considerano il problema con minore senso di polemica e, come Ernesto Battaglini, avvocato generale dello Stato, auspicano di affrontarlo gradualmente introducendo le donne nella magistratura onoraria con compiti di giudice conciliatore, poi nei Tribunali dei minorenni dove le donne possono giudicare con maggiore sapienza degli uomini. Solo una minoranza di rivoluzionari si batte per la riforma totale sostenendo che la Costituzione parla chiaro e, se la campagna è ben condotta, la nuova legge potrebbe anche essere approvata entro l’anno. Secondo costoro, le condizioni della società moderna richiedono sempre di più l’iniziativa e il comando delle donne. Dicono: chi può negare l’enorme influenza delle donne nella vita privata, nella politica, nella economia di un paese? Perfino la superiorità fisica degli uomini è in gioco. La vita moderna va distruggendo sempre di più il mito della superiorità maschile, dal momento che per guidare un treno basta muovere una maniglia, per convocare il personale di una azienda basta premere un bottone, vi sono donne che pilotano i bombardieri e si buttano col paracadute in piena battaglia.
I biologi danno in proposito esaurienti spiegazioni. Il comando detenuto dagli uomini per millenni ha esaurito la loro forza vitale, ha logorato i loro nervi e la loro immaginazione. Le donne invece hanno conservato intatte le loro forze e son pronte per il potere. Sono considerazioni che entusiasmerebbero Jean Giraudoux, il quale già alla vigilia della guerra aveva dimostrato agli uomini irritati ed alle donne lusingate che l’epoca del matriarcato non era lontana. A quel tempo le francesi non erano ancora entrate nella magistratura. Alla fine di una conferenza, una signora andò incontro allo scrittore e gli chiese se riteneva che le donne dovessero anche diventare giudici. «Certamente, Madame» rispose Giraudoux. La signora rimase estasiata. «Maestro, vi ringrazio. Siete l’unico femminista della storia.» Rispose Giraudoux: «Madame, lei si sbaglia. Sono antifemminista e non faccio che constatare fatti irreparabili: come un sismologo che registra un terremoto senza poterlo impedire».

La donna che liberò la moda

C’è chi le attribuisce novant’anni. Ma lei dichiara di averne appena settantacinque e io le credo. «Ma chérie, l’unico modo per invecchiare psicologicamente è diminuirsi l’età.» È la sola donna della Haute Couture francese sebbene dica, puntandoci in faccia l’indice secco e implacabile: «Non è vero. Le altre portano i calzoni». Ma non è nemmeno una donna. È un demonio: di cui tutti hanno paura, adorandola, e subiscono le capricciose insolenze. Picasso arrossisce quando lei gli rimprovera che un suo quadro è brutto: «Non capisco, Pablo, perché tu abbia smesso di fare quei bei disegnini che facevi quando eri morto di fame e le gambe, anche per te, erano gambe, e gli occhi erano occhi. Dovrei pigliarti a schiaffi». Stravinski china la testa quando lei batte il pugno sul tavolo e urla: «Cos’è questa marcia funebre, Igor? Non sono ancora morta, per Giove. Suona qualcosa di allegro. Te lo ordino, Igor!». Cocteau balbetta come uno scolaro quando lei lo prende per il mento e gli dice: «Mon petit enfant, sei un pettegolo e mentre parlo devi star zitto. Ubbidisci a Coco». Non è nemmeno una couturière: è una leggenda. Quattro editori, Plon, Gallimard, Flammarion e Grasset, la supplicarono per anni di scrivere lo straordinario romanzo della sua vita. Un giorno lei si decise e disse: «Bien, però voglio affidarlo a Paul Morand e Louise de Vilmorin. Io ci metto le virgole». Infatti glielo affidò ma, al momento di metterci le virgole, il manoscritto finì nel cestino: «Puah! La mia vita era più interessante». Ora vogliono servirsi del suo personaggio per un film: e lei batte i piedi. Vorrebbe Katharine Hepburn, ma Katharine ha troppe rughe per recitare la parte di quand’era bambina. Vorrebbe Audrey Hepburn, ma Audrey ha la pelle troppo liscia per recitare la parte di ora che è vecchia. «E poi nessuna attrice potrà mai essere Chanel perché Chanel sono io!» protesta indignata. Infatti vi parlo di Coco Chanel, la sarta più saggia e meno eccentrica del mondo, la prima che abbia fabbricato vestiti funzionali come la gonna e il pullover, la prima che abbia inventato un profumo (lo «Chanel numero 5»), la prima che abbia lanciato i tacchi bassi e i bijoux, i capelli corti e il maquillage appariscente: regole di una eleganza che, ancora oggi, essa predica a «tutte le donne di tutti i paesi». Coco è anche la prima (e l’ultima) che abbia preso a pedate una miliardaria che le diceva: «Non dovresti essere così democratica, Coco. Le povere non dovrebbero portare i nostri vestiti, Coco».
Sono in molti, a Parigi e in altre città della terra, che hanno ricevuto a fatti o a parole le pedate di Coco Chanel. E, per questo, avvicinarla è quasi impossibile. Le sue funzionarie sanno talmente bene quanto lei sia sincera, che la rendono inafferrabile come un fantasma. Ma una volta a mezzanotte telefonai all’Hotel Ritz dove il fantasma dorme da circa vent’anni perché nel suo appartamento non c’è nemmeno una camera da letto, e una voce di bimba arrochita rispose: «Domani alle tre, in Rue Cambon. E se le streghe dicono che non ci sono, le mandi all’inferno e salga lo stesso». Così andai in Rue Cambon dove dal 1918 ha sede la Casa Chanel e le funzionarie sembravano molto turbate. «Un appuntamento con Mademoiselle! Mademoiselle non riceve nessuno!» E quell’uomo carico di orribili macchine: chi era costui? Costui era il fotografo. Un fotografo per fotografare Mademoiselle? Via, via! Dobbiamo chiamare un gendarme? Si alzava al soffitto un brusio di proteste indignate: quando l’aria fu squarciata da un dispotico urlo.
«All’inferno! Conduceteli su» gridò la voce da bimba arrochita di Mademoiselle. Di colpo il brusio di protesta cessò e, scortate da una funzionaria tremante, raggiungemmo l’appartamento di Mademoiselle che è all’ultimo piano della Casa Chanel, al di là di un corridoio foderato di classici come Molière, Rousseau, Proust, Mallarmé, che Mademoiselle afferma di sapere a memoria «perché gli accademici di Francia non li leggono mai fino in fondo ma io sì». Così entrammo nello studio più lussuoso che un couturier abbia mai avuto «perché il lusso non è il contrario della povertà ma è il contrario della volgarità» dice Chanel, «e nella mia vita, malgrado i quattrini, ho sempre cercato di non apparire volgare». C’erano paraventi di Coromandel, lampadari di cristallo di rocca, trumeaux verniciati d’oro zecchino, quadri di Renoir e di Picasso, cervi a grandezza naturale scolpiti nell’ebano, statue di bronzo e, in mezzo a questo museo, con le mani spavaldamente posate sui fianchi e il capo nell’ombra perché non si vedessero le rughe, c’era la leggenda che si chiama Chanel.
Era una cosa minuscola: così minuscola che l’avreste sollevata col mignolo. Cominciava con un paio di scarpe bianche, chiuse alla caviglia, simili alle calosce che un tempo si usavano quando pioveva, e poi continuava con un paio di gambe ben fatte, scoperte fino al ginocchio, dove le accarezzava l’orlo di una gonna di jersey blu scuro, stretta sui fianchi da adolescente, e sopra la gonna c’era un giacchino del solito jersey blu scuro, cortissimo, con quattro tasche e i bottoni dorati. Il giacchino era aperto su un torace fragile, fasciato da una camicetta color avorio su cui era posata con negligenza la celebre collana di perle che vale quattrocento milioni di franchi. Sopra la collana di perle c’era un’altra collana di pietre dure, con un ciondolo formato da un rubino e un brillante, e da questo Niagara di gioielli sbocciava un collo sottile su cui si avvitava una testolina di riccioli neri e, sopra i riccioli neri, un cappello bianco, rotondo, a bebè. «Dunque, l’esame è finito?» chiese Chanel quando fui arrivata al cappello e, tenendo il busto in avanti, porse alla lampada il volto avido e magro perché guardassi anche quello con comodo. La lampada illuminò crudelmente le rughe incipriate con cura, le labbra cariche di rosso violetto, il naso largo, schiacciato, dalle narici palpitanti e la punta rivolta appena all’insù, i grandi occhi ironici, vivi, dalle ciglia appesantite di rimmel, le sopracciglia disegnate col carboncino. Era un volto che faceva quasi paura, ma Coco lo esibiva con fierezza insolente perché in qualcosa esso ricordava, malgrado tutto, la splendida donna che fu. «Immaginate» dice Cocteau, «una Marlene Dietrich con lo sguardo nero, i capelli antracite e la pelle di una tuberosa. Ho visto uomini suicidarsi per lei.»
Coco rise con amarezza e si aggiustò il cappello a bebè. «Una donna» disse, «non è mai elegante senza il cappello. Io lo porto anche in casa.» Poi alzò un poco il colletto: «Ho male alla gola. Dovrei coprirmi di più. Ma odio i colletti fino alla gola. Trovo che invecchiano». Tentai un complimento. «Silenzio» ordinò. «Odio che mi si interrompa. È inutile che stia a farmi domande perché so benissimo quello che vuole sapere.» (Infatti non gliene feci. Non potei aprir bocca nemmeno una volta). «Fuma? La gente che fuma campa più a lungo. Però col bocchino. Una donna chic non dovrebbe fumare senza bocchino. Neanche gli uomini, forse. Silenzio! Dunque per prima cosa io non disegno. Non ho mai disegnato un vestito. Adopero la matita solo per tingermi gli occhi e scrivere lettere. Prendo la stoffa e taglio. Poi la appiccico con gli spilli su un manichino e, se va, qualcuno la cuce. Io non so nemmeno cucire: non ho mai attaccato un bottone. Se non va, la scucio e poi la ritaglio. Se non va ancora la butto via e ricomincio da capo. Le piace questo vestito? Silenzio! Non mi interrompa. Ha quattro stagioni. Non si è ancora sformato. Può portarlo qualsiasi donna a quindici anni come a novanta. Lei quanti anni ha? Silenzio! Non mi interrompa. Dovrebbe copiare questo vestito. Io non mi arrabbio quando la gente mi copia. Ho rotto con la Chambre Syndicale perché non voleva che i giornali pubblicassero le fotografie dei miei modelli. All’inferno!»
Balzò in piedi, con uno scatto da giovane tigre. Il cappello a bebè le andò di traverso. Lo rimise a posto con un pugno sul capo. «Copiate, dico, copiate! Se copiano i miei vestiti vuol dire che piacciono. Se piacciono vuol dire che io ho ragione. La couture non è una filosofia come dicono i miei colleghi che recitano il ruolo di geni. Non è nemmeno un’arte. La couture è mestiere. Io non sono un genio, non sono un’artista, sono soltanto una piccola sarta, una petite couturière. Io faccio i vestiti che si portano, con le spalle al posto delle spalle, la vita al posto della vita, le tasche al posto delle tasche. Quando lo capiranno, i miei geniali colleghi, che le maniche servono per infilarci le braccia, le tasche per infilarci le mani, i bottoni per abbottonare e le cinture per stringere?» Si gettò nuovamente sopra il divano, agguantò con furia, quasi strappandolo, il suo giacchino di jersey. «La vede questa tasca? Loro son capaci di metterla sopra il sedere. Per Giove, che ne fate di una tasca sopra il sedere?»
Si alzò ancora, lisciandosi sui fianchi il vestito. «La prego di guardare questo tailleur. Ecco, questo tailleur segue la linea del corpo: come è logico, perché un corpo è un corpo. Ma no! Per i miei geniali colleghi il corpo è una botte, un trapezio, un triangolo, un’acca: tutto all’infuori di un corpo. Stia a sentire. L’altra sera vado ad un cocktail. Mi metto un tailleur che è un tailleur e un cappello che è un cappello e vado ad un cocktail. Ci trovo le donne più ricche di Parigi: una chiusa dentro una botte, una dentro un trapezio, una dentro un triangolo. Mi si avvicina una contessa, le dirò solo che si chiama Gabrielle, e mi chiede: “Ti piace, Coco, il mio vestito?”. Guardo il vestito. L’attaccatura delle maniche incomincia alla vita e sulla pancia ci sono dieci metr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Se nascerai donna
  4. da Lettera a un bambino mai nato
  5. EVA ARRIVA DOPO
  6. LA DONNA È OGGI PIÙ LIBERA?
  7. ESSERE DONNA È COSÌ AFFASCINANTE
  8. UNA SPLENDIDA VIRTÙ CHIAMATA DISOBBEDIENZA
  9. Fonti
  10. Copyright