PROCURA DELLA REPUBBLICA DI FERRARA
VIA BORGO DEI LEONI, 60
Fabio
Si è fatta sera. Il giudice Francesco Maria Caruso si è da tempo ritirato in camera di consiglio per la sentenza. L’aula è piena zeppa di gente. Curiosi, parenti e amici dei protagonisti del processo, imputati e parti civili, giornalisti ma anche tanti semplici cittadini. E tanti, tanti poliziotti.
Scorgo nell’angolo in fondo, nascosta fra la gente, mia figlia Marta con una sua amica. Ha compiuto da poco quindici anni. La adoro, come del resto amo suo fratello Vincenzo. Siamo sopravvissuti a tutto. Lei è già grande, una “piccola” grande donna. Non è voluta mancare a quello che è indubbiamente il momento più importante di tutta la mia carriera professionale di avvocato. Il lunghissimo processo per la morte di Federico Aldrovandi avvenuta il 25 settembre 2005 è oramai finito.
«Federico è morto per mano di quattro agenti di polizia durante un brutale e insensato intervento in via Ippodromo di Ferrara», «Federico Aldrovandi era un energumeno che ha aggredito come un folle quattro agenti di Polizia nel compimento del loro dovere ed è poi morto di droga»… Verità diametralmente opposte, dapprima sussurrate e via via sempre più affermate con decisione. Infine urlate. Erano seguite indagini difficilissime, depistaggi, omissioni, polemiche roventi. Interrogazioni parlamentari, colpi di scena a non finire. Quattro anni di tensione nel corso dei quali la stampa locale non aveva mai smesso di occuparsene pressoché quotidianamente. Ma anche quella nazionale e la televisione. Non ci eravamo fatti mancare niente e io, inevitabilmente, avevo finito per essere sempre in prima fila. Ci avevo messo la faccia. E il cuore.
Il campanello suona annunciando l’uscita del giudice. Si apre la porta della camera di consiglio e il dottor Caruso compare salendo al suo posto per pronunciare finalmente la sentenza.
Poche parole nel silenzio assoluto e la gente presente esplode in un applauso di gioia.
È condanna. Alzo gli occhi al cielo e, mentre abbraccio Patrizia, la madre di Federico, il mio sguardo va su Marta, in lacrime.
CASERMA STAZIONE TOR SAPIENZA
ROMA
Ore 6,00
Il carabiniere scelto Gianluca Colicchio, al termine del proprio turno come piantone nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, si sente in dovere di redigere una relazione di servizio su quanto accaduto in Caserma:
Telefonate importanti ricevute: 00,00 gruppo Roma preannunciava l’accompagnamento presso le nostre di un detenuto poi identificato in Buschi Stefano, nato a Roma il 01/10/1978. Il detenuto arrivava alle ore 03,50 accompagnato dai militari del Comando Stazione Roma Appia, dopo la loro partenza incominciava ad accusare malori al capo, forti giramenti di testa e tremori, asserendo di essere epilettico e di non voler stare nella cella di sicurezza, continuando fino alle ore 4,50 quando giungeva personale medico (pic 059) a suonare ininterrottamente. Alla presenza del personale medico intervenuto rifiutava sia di essere visitato che il ricovero in ospedale. Alle ore 5,20 il personale medico lasciava questi uffici. Di tutto l’accaduto veniva informata la C.O.1 che inviava sul posto personale della Stazione Appia che visto il rifiuto del Bushi di essere ricoverato ritornava presso la propria sede.
Persone ricevute e relative motivazioni: nessuna.
In realtà il detenuto, arrestato alle ore 23,30 circa, non si chiama né Buschi né Bushi, ma Cucchi. Stefano Cucchi. Lo hanno portato, durante la notte, a Tor Sapienza, i militari Vincenzo Nicolardi e Davide Antonio Speranza. Il primo ha stranamente lasciato al piantone Colicchio un foglietto con scritto il numero di cellulare del vicecomandante della Stazione Appia Roberto Mandolini, dicendogli di chiamarlo nel caso ci fossero stati problemi.
La mattina, il carabiniere Francesco Di Sano, piantone del turno successivo a quello del collega Colicchio, racconta tutto quanto accaduto in Caserma quella notte al comandante luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, che legge la relazione appena redatta da Colicchio.
Ore 9,15
L’appuntato Pietro Schirone giunge alla Stazione di Tor Sapienza, in compagnia del collega Stefano Mollica, con il compito assegnatogli dal Comando nucleo operativo di “prelevare” un detenuto della Stazione Appia per portarlo in Tribunale a piazzale Clodio.
I due militari vengono accompagnati alla cella di sicurezza dove si trova Stefano Cucchi dal piantone Di Sano. Quest’ultimo racconta loro che, durante la notte, ci sono stati problemi e che hanno chiamato il 118 perché l’arrestato sbatteva la testa contro i muri.
Dopo essere scesi, tutti e tre, giù dalle scale che portano alla parte sotterranea della Stazione, trovano il detenuto steso a letto in precarie condizioni fisiche. Fa fatica ad alzarsi. Ha il volto pesantemente segnato da ematomi a entrambi gli occhi e il viso tutto gonfio. Dolorante in ogni parte del corpo, ma soprattutto alla testa e a una gamba, non riesce a salire le scale da solo, tant’è che Mollica gli dà una mano per aiutarlo a sorreggersi.
Schirone comprende subito che quel ragazzo, particolarmente magro ed esile, è stato violentemente picchiato.
«Dagli amici miei» gli risponde.
Schirone vuole portarlo in ospedale perché l’udienza può aspettare viste le sue condizioni di salute, ma Stefano Cucchi oppone un rifiuto.
PROCURA DELLA REPUBBLICA DI ROMA
PIAZZALE CLODIO
Ore 9,30
L’auto di servizio con a bordo Schirone, Mollica e Cucchi posteggia nel parcheggio sotterraneo del Tribunale di Roma. Quasi in contemporanea, ne arriva un’altra con dei colleghi che accompagnano due arrestati di nazionalità albanese.
Schirone riconosce immediatamente Tedesco, che sa essere uno dei carabinieri che ha operato l’arresto del ragazzo con lui. Subito, con aria più che perplessa, gli dice: «Ma hai visto in che condizioni sta questo?» riferendosi a Stefano Cucchi.
«L’arrestato non è stato affatto collaborativo al momento del fotosegnalamento» risponde Tedesco, gesticolando e dimostrandosi per nulla stupito delle sue condizioni.
Ore 12,30
Stefano Cucchi viene accompagnato da Tedesco e dai colleghi in aula per lo svolgimento dell’udienza di convalida del suo arresto. Cammina molto faticosamente trascinandosi un passo dopo l’altro. Lo nota una giovane avvocatessa, Maria Tiso, che si trova a passare di lì in quel momento. Vede quel ragazzo esile, in manette, scortato da due carabinieri, che appare allo stremo delle forze. Rimane colpita dal volto segnato dalle percosse e nota che di fronte alla porta lo sta aspettando un signore di una certa età, con aria mesta. Porta una camicia a scacchi e, come modo di fare, le ricorda suo padre. Vede la sua espressione subito molto preoccupata alla vista del ragazzo. Ha l’impressione che quest’ultimo tenti in un qualche modo di rassicurarlo.
L’udienza dura circa un’ora e viene interamente fonoregistrata. Stefano Cucchi dice di non riuscire a parlare tanto bene. La voce tradisce le sue precarie condizioni di salute. Si stizzisce per il fatto che non sia stato chiamato il proprio avvocato di fiducia, Stefano Maranella. Gliene viene assegnato uno d’ufficio.
Nessuno nota nulla di particolare. Solo la segretaria d’udienza si accorge delle condizioni di quel ragazzo, ma ci è abituata. Niente di eccezionale per gli “arrestati della notte”. Il giudice ha nel suo incartamento un verbale che lo identifica come albanese senza fissa dimora.
È accusato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Avrebbe ceduto due dosi di hashish a tale Emanuele Mancini e sarebbe stato trovato in possesso anche di due grammi di cocaina e di uno spinello. Oltre a due pasticche di Ecstasy (che in realtà sono pastiglie di Rivotril: Stefano era affetto da epilessia).
Carcere. Viene disposta la custodia cautelare in carcere, in attesa della celebrazione del processo per direttissima che viene fissato per il 13 novembre.
Il detenuto, deluso, dà un calcio alla sedia e se la prende con i carabinieri. Tutti fanno finta di nulla.
Viene portato fuori dall’aula dove lo aspetta il padre. Si abbracciano. Giovanni Cucchi sente le mani del figlio strette dalle manette, dietro al collo.
«Ste’… devi andare in comunità!» gli dice con voce rotta.
«Papà, mi hanno incastrato! Ti voglio bene, papà.»
Sono le ultime sue parole.
Ore 13,30
Stefano Cucchi viene riportato nelle celle di sicurezza del Tribunale, dove un agente di polizia penitenziaria, viste le sue condizioni, lo fa visitare dal medico di turno, il dottor Giovanni Battista Ferri, che certifica le lesioni ecchimotiche al viso, dolore e lesioni alle regioni sacrali e agli arti inferiori. Ma il ragazzo «rifiuta l’ispezione. Evasivamente riferisce che le lesioni conseguono ad accidentale caduta dalle scale avvenuta ieri».
Non è per nulla convinto, il medico.
«Strane queste scale» ribatte.
«Saranno state strane scale» gli fa eco Stefano Cucchi.
Il giorno seguente, a nostra insaputa…
CASERMA STAZIONE TOR VERGATA
ROMA
Ore 12
Il maresciallo Roberto Mandolini, vicecomandante della Stazione Appia, fa ingresso negli uffici della Caserma. È sudato e particolarmente preoccupato. Nei corridoi incontra subito un carabiniere al quale dice, passandosi la mano nei capelli: «È successo un casino…». Il problema riguarda un arrestato che è stato ricoverato in ospedale proprio a seguito del suo fermo.
Poi si dirige nell’ufficio di Enrico Mastronardi, comandante della Stazione Tor Vergata, ed entrando continua: «I ragazzi hanno esagerato». Prima che la porta del suo comandante si chiuda dietro le loro spalle, il carabiniere che ha parlato con Mandolini nota la presenza, in quella stanza, di una giovane collega che ne esce poco dopo.
COMANDO PROVINCIALE DELL’ARMA DEI CARABINIERI
PIAZZA DI SAN LORENZO IN LUCINA – ROMA
Il comandante provinciale, il generale di brigata Vittorio Tomasone, così scrive, con nota numero 15/1681-1, in favore di coloro che hanno eseguito l’arresto di Stefano Cucchi: «Prego esprimere ai militari operanti il mio apprezzamento».