La scelta
La mia vita da magistrato è cominciata in una giornata di luglio così calda da far sembrare tutto irreale, i vestiti che si appiccicavano addosso per l’umidità, le scarpe che a ogni passo sembravano sprofondare nell’asfalto, la facciata dell’hotel Ergife di Roma, che si avvicinava, enorme e anonima, come un’astronave calata in mezzo al nulla.
Avevo ventotto anni e gli ultimi due li avevo passati a studiare. Come tutti i ragazzi che decidono di provare il concorso per diventare magistrato. Con il diritto non puoi barare, se vuoi conoscerlo, devi stare sui libri, ore, giorni, tutto il tempo che serve. E io quel concorso volevo superarlo. Mi era costato un litigio con mio padre, forse il primo vero litigio che avessimo mai avuto.
Finito il servizio militare, dove ero stato ufficiale di complemento, avevo la possibilità di fermarmi in Marina. Un posto sicuro, già pronto per me. Ma io avevo detto no. Mio padre non si aspettava che rifiutassi, che preferissi congelare la mia vita altri due anni per provare un concorso dove la possibilità di non farcela è altissima. Ma io volevo fare il magistrato, lo sapevo, non c’erano altri scenari possibili per il mio futuro. E con la quieta tenacia dei timidi non avevo ceduto.
Intanto il caldo era scomparso. Le porte girevoli mi avevano portato dentro l’hotel Ergife. Luci artificiali e aria condizionata avvolgevano l’ambiente, insieme a un brusio continuo, incessante. Tutti i trecento candidati che avevano superato l’esame erano lì, radunati nella stessa sala e tutti avevano almeno un amico con cui condividere ansie, valutazioni, notizie. Non c’era nessuno di noi che non fosse teso, incerto, impaurito per la difficoltà di dovere scegliere in pochi minuti se fare il giudice o il pubblico ministero, e, soprattutto, in quale sede cominciare.
Anch’io ero con alcuni amici. Tra loro c’era una ragazza dai capelli rossi, Gabriella. Era bello vedere come, nel ponderare pregi e difetti di ciascuna delle possibili sedi, avevamo sempre lo stesso sguardo, condividevamo le stesse riflessioni, facevamo le stesse valutazioni. Ogni tanto, all’improvviso, restavamo in silenzio. E allora la tensione e l’emozione prendevano il sopravvento.
Le sedi dove iniziare il lavoro sarebbero state scelte seguendo l’ordine della graduatoria del concorso. Ogni candidato doveva pronunciare la sua preferenza ad alta voce. Ero messo abbastanza bene, a metà classifica, e questo mi dava la speranza di poter trovare una buona soluzione. Il problema era capire quale fosse, una buona soluzione.
Era il 17 luglio 1992. Non erano ancora passati due mesi dalla strage di Capaci e a Milano, cinque mesi prima, il 17 febbraio, l’arresto di Mario Chiesa aveva fatto franare il sistema politico italiano.
In quel momento, fare il magistrato non era una scelta come le altre, soprattutto per un ragazzo siciliano. Per anni intorno a noi si era combattuta una guerra. Una generazione di giudici e di uomini delle forze dell’ordine aveva dimostrato che la Sicilia poteva salvare la Sicilia. Ma il prezzo umano era stato enorme, indegno di uno Stato democratico.
Non c’era ragazzo siciliano che non avesse sfiorato da vicino il rosario dei morti che aveva devastato la nostra isola. Anch’io, come tutti, avevo un’esperienza personale. La famiglia di Boris Giuliano trascorreva le vacanze al mare nella stessa località in cui andavamo anche noi. Conoscevo suo figlio Alessandro, anche se era più piccolo di me. Il ricordo di quel bambino, nell’estate del 1979, quando uccisero suo padre, non mi ha mai abbandonato. Ricordo i cugini di Messina, che erano sempre con lui, per proteggerlo e fargli sentire il calore del loro affetto, e il suo sguardo malinconico, triste.
Io, come tutti i siciliani onesti, detestavo la mafia con tutte le mie forze e a distanza di anni gli occhi di quel bambino, la brutalità con cui era stata devastata la sua vita, mi erano rimasti incisi nel cuore.
Eppure, nonostante questo, non era la mafia la ragione profonda per cui volevo fare il magistrato. Sentivo che la giustizia andava difesa ovunque, che le aggressioni a chi era più debole e indifeso erano tante. E nessuna doveva essere sottovalutata.
Un mio cugino faceva il magistrato e viveva nel mio stesso palazzo. Erano stati i suoi racconti a nutrire la mia immaginazione e il mio desiderio di poter fare lo stesso mestiere. Ci raccontava delle dinamiche umane che stavano dietro i momenti processuali, la responsabilità che ti scuote quando devi decidere per dei minori, di come anche un caso piccolo possa essere enorme se visto dal punto di vista della vittima.
Mi aveva trasmesso, giorno dopo giorno, un’idea solida e rigorosa del mestiere di magistrato e la consapevolezza dell’importanza della giustizia anche quando viene declinata nelle battaglie minori, contro le raccomandazioni, le ingiustizie sociali, le sopraffazioni.
Insomma, mi sarebbe piaciuto occuparmi di tutto.
A una sola cosa non pensavo. Alla ’ndrangheta.
Il brusio adesso si era quasi spento, assorbito dalla tensione dei partecipanti.
Anch’io, mentre i candidati si avvicinavano al tavolo della commissione e pronunciavano ad alta voce il nome della destinazione che avevano scelto, ripassavo dentro di me l’esito delle mie riflessioni.
Nella mia vita mi ero allontanato da Messina solo per il servizio militare.
Stavo molto bene nella mia città, e mia madre negli ultimi tempi aveva avuto qualche problema di salute. Dovevo optare per una sede che mi permettesse di restare vicino a casa. Man mano che i candidati scorrevano davanti a me, i pensieri si facevano sempre più nitidi.
C’era un posto a Reggio Calabria che mi sembrava la collocazione ideale. Era lì che dovevo andare. E non avrei nemmeno avuto difficoltà a trovarlo ancora libero, visto che ormai mancavano pochi candidati.
A chi poteva interessare, oltre a me, finire in Calabria?
Vidi Gabriella allontanarsi verso la cattedra della commissione e sperai che anche lei scegliesse una destinazione che le permettesse di non lasciare la Sicilia.
«Procura della Repubblica presso la Pretura di Reggio Calabria» disse con voce dolce e decisa.
Mi gelai. Aveva preso il mio posto.
Avrei dovuto immaginarlo. Ogni volta che analizzavamo una sede vedevamo gli stessi vantaggi e le stesse controindicazioni. Avevamo lo stesso sguardo sul mestiere di magistrato e lo stesso amore per la Sicilia. Eppure non l’avevo mai vista come una potenziale concorrente. Le nostre affinità mi erano sembrate sempre un segnale buono e rassicurante. In fondo, anche adesso che vedevo sfumare la sede che avevo scelto, mi veniva solo da sorridere. Era arrivata al concorso sopra di me. Era solo successa la cosa giusta.
Non avevo avuto nemmeno il tempo di riordinare i pensieri che mi trovai davanti alla cattedra. All’improvviso le possibilità che mi rimanevano mi sembrarono poche. A stento potevo usare il plurale: una sede a duecento chilometri da casa, e il tribunale dei minori di Reggio Calabria.
«Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria.» Era la mia voce, decisa, mossa dalla forza dell’istinto. Avevo scelto la sede che mi permetteva di restare vicino a casa.
«Bravo!» Il presidente della commissione mi strinse la mano.
Alle mie spalle si levò un applauso nervoso, simile a quelli che festeggiano gli atterraggi difficili. Non riuscii a decifrarlo immediatamente, le scelte degli altri candidati erano state accolte dal silenzio.
Tornai verso gli altri ragazzi. Mi guardavano imbarazzati, in attesa che qualcuno parlasse per tutti. Ma non ce n’era bisogno. In un attimo avevo capito. Le loro parole arrivarono lo stesso: «Ma cosa hai scelto? Il tribunale dei minori non è qualificante… Ti metti in pensione anticipata… Vai in un ufficio di serie B…».
Provavo a difendermi e intanto pensavo che avevano ragione, quel lungo applauso di gratitudine per aver tolto di mezzo una sede che nessuno voleva adesso bruciava come uno schiaffo.
Mi voltai verso la cattedra, altri candidati prendevano i posti che avrei potuto scegliere io, tutti più ambiti del mio. Tornare indietro non era possibile. Me ne stetti fermo, tra la crudele verità dei commenti dei miei amici e la voce dei candidati che, felici, andavano incontro al loro futuro.
Tenevo a bada l’ansia pensando che non dovevo preoccuparmi, non era una decisione definitiva, dovevo solo lasciar passare un paio d’anni e poi chiedere il trasferimento.
Non avevo ancora cominciato e già pensavo a come andarmene.
Tornato a casa, mi concentrai sulle uniche due certezze che al momento la situazione mi offriva. La prima, angosciante nella sua elementare evidenza: non avevo idea della realtà calabrese, né tantomeno del suo tribunale per i minorenni. La seconda, invece, aveva un sapore dolce. Per due anni io e Gabriella avremmo preso il traghetto insieme.
Ma due giorni dopo, la strage di via d’Amelio rese la mia scelta ancora più intollerabile. La Sicilia era devastata dalla mafia, e io andavo a occuparmi di minori calabresi.
Trascorsa l’estate, a settembre volli andare a conoscere la mia nuova sede e i colleghi. Gabriella venne con me.
Il tribunale era un edificio a due piani con un grande cortile e qualche palma sparsa qua e là, a pochi metri dal lungomare reggino. Nato nel Seicento come convento, per alcuni decenni aveva ospitato il carcere minorile. Ma non c’era niente di minaccioso nel suo aspetto. Era un edificio mite, che ricordava più una scuola o un luogo di preghiera che un palazzo dove si amministrava la giustizia. Pensai che questo fosse il lato buono di non essere finito nella giustizia ordinaria. La presenza delle palme e degli altri alberi mi diede l’illusione che fosse un posto tranquillo, in cui ci si occupava di cose importanti, ma più serene, non c’era sangue, non c’erano stragi, non c’era quella ferocia che solo il mondo degli adulti conosce. Per qualche attimo la mia ansia si placò.
All’ingresso del tribunale mi venne incontro Rossella Martucci, un cancelliere con cui avrei condiviso tanti anni di lavoro. Mi accolse con un sorriso incoraggiante. Il presidente, purtroppo, era in ferie, ma poteva farmi parlare con un giudice anziano.
Insieme a Gabriella entrai nella stanza del giudice Carlo Toraldo, che in seguito divenne presidente del tribunale per un lungo periodo.
Non si mosse dalla scrivania, mi guardò oltre gli occhiali da presbite, sollevando appena gli occhi dalle carte, mentre sorridevo, timido e desideroso di piacergli.
«Sei di Messina?»
«Sì.»
«Al primo incarico?»
«Sì.»
«E chi ti porta qui?»
Il sorriso mi si era gelato sul viso. Ma lui non sembrava essersene accorto.
«Reggio non è Messina. Non ti puoi fidare di nessuno. Neppure dei colleghi e dei cancellieri.»
Si era alzato, ed era venuto verso di me.
«Lo sai cos’è la ’ndrangheta?»
«No. Ma so cos’è la mafia.»
«Non c’entra niente.»
Era tornato verso la sua scrivania, pago di avermi visto da vicino.
«E poi iniziare la carriera in un tribunale per i minorenni non è qualificante professionalmente…» aveva borbottato.
E almeno quel ragionamento ormai lo conoscevo bene. Ma sentirlo da lui, che lì dentro ci aveva passato la vita, aveva un altro sapore.
Del tutto spiazzato dall’accoglienza, cercai di abbozzare timidamente una risposta, ma fui presto incalzato dal collega: «Se sei in tempo scegli un’altra sede».
Restai in silenzio. Non ero in tempo. Ma dirlo, ormai, mi faceva male al cuore.
Il ritorno a Messina fu terribile. Sull’aliscafo, nonostante Gabriella cercasse di incoraggiarmi e di farmi ridere imitando il collega, mille pensieri si impadronirono di me. Avevo sbagliato tutto. Dovevo andarmene il prima possibile.
Quel giorno non potevo immaginare che invece tra quella mura, in cui apparentemente nessuno voleva stare, avrei trascorso quasi tutta la mia vita professionale. Senza pentirmene mai.
Inizio
Finalmente venne la mattina del mio primo giorno di lavoro. Era una giornata luminosa, come solo al Sud, anche d’inverno, può capitare.
Mentre lasciavo casa mi accorsi che mio padre, da una delle finestre, mi accompagnava con lo sguardo. La mia vita da adulto stava cominciando e non era un’emozione solo per me.
Almeno il viaggio per andare al lavoro era il più bello che si potesse immaginare. Mentre gli altri pendolari trascorrevano il loro tragitto stretti su treni affollati, io ero immerso nel paesaggio dello Stretto, tra il vento e le onde. E non ero solo, con me c’era Gabriella. E quello era sicuramente un valore aggiunto che nessun’altra sede avrebbe potuto darmi.
Mentre guardavo il mare, i pensieri che affollavano la mia mente erano tanti. Pensavo ai sacrifici fatti per superare il concorso, ai miei genitori ormai orgogliosi senza riserve, ai miei fratelli e ai miei amici di sempre, che in quel momento rappresentavano tutta la mia esistenza e un po’ il mio guscio protettivo. Sarei stato in grado di fare il mestiere che con tanta ostinazione mi ero scelto?
Ero molto timido. A scuola, ero uno di quegli alunni che non interveniva mai e che arrossiva quando il professore lo richiamava. Non sapevo nulla del mondo e della sua durezza. La mia infanzia e la mia giovinezza erano trascorse al riparo di una protettiva famiglia siciliana, padre ingegnere, direttore dell’acquedotto, e madre insegnante di Lettere. Persino gli studi mi avevano permesso di non lasciare mai il mio quartiere, il liceo classico Maurolico e la facoltà di Giurisprudenza erano a poche centinaia di metri da casa mia.
Forse no, non ero in grado, l’errore che avevo fatto era molto più grave di quello, messo a fuoco da tutti, di una sede sbagliata.
Eppure, nonostante le mie paure, avevo voglia di cominciare. Timore, curiosità, paura e una grande voglia di gettarsi nella mischia si agitavano insieme dentro di me.
Certo non potevo immaginare quello che di lì a poco mi sarebbe accaduto e che, in modo forse maldestro, mi era stato anticipato dal collega anziano.
Non ci furono periodi di prova, esperienze graduali. Fui subito gettato dentro la ferocia di un mondo che non sembrava permettere a nessuno di essere innocente. È vero, come avevo immaginato quel giorno mentre l’aliscafo si muoveva tra le onde, forse non avevo un sufficiente bagaglio professionale e di esperienza per affrontare tutto quello che inesorabilmente succedeva e che invece dovevo capire e giudicare. Ma non potevo scappare, solo mettermi sulle spalle il peso di quello che accadeva e cercare, con umiltà, la strada migliore che il diritto mi offriva. Non so se questo fece di me un buon giudice, ma di sicuro mi costrinse a sentire come mio un mondo che fino a quel momento in troppi avevano abbandonato al suo destino.
Ferocia
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