Mario Draghi. L'artefice
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Mario Draghi. L'artefice

La vera storia dell'uomo che ha salvato l'euro

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Mario Draghi. L'artefice

La vera storia dell'uomo che ha salvato l'euro

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«Mario Draghi avrà un successore, non verrà sostituito.» Pierre Moscovici, commissario europeo per gli affari economici e monetari, sintetizza così quanto importanti e decisivi siano stati gli anni trascorsi al timone della Bce dal governatore italiano e quale portata abbiano avuto le iniziative da lui promosse a difesa dell'euro.
Il racconto di Jana Randow e Alessandro Speciale prende avvio dalle poche pesantissime parole pronunciate da Draghi stesso a Londra nel luglio 2012, nel momento più drammatico della crisi dell'Eurozona: quel Whatever it takes con cui il governatore annunciò che la Bce avrebbe fatto «tutto il necessario» per proteggere la moneta unica. È quello che è accaduto, di fatto: Mario Draghi è stato «l'artefice» di un salvataggio a detta di molti impossibile, quando il caso del debito greco e italiano, spagnolo e portoghese, nel pieno di una crisi globale paragonabile solo a quella del 1929, rischiava di minare l'esistenza stessa del progetto comune europeo.
Nato dalla collaborazione di due dei più accreditati giornalisti economici, che per anni hanno seguito da vicino la Bce e la politica monetaria dell'Unione; frutto di una lunga serie di incontri e interviste con molte delle figure più importanti dello scenario economico internazionale, questo libro traccia un ritratto definitivo e completo di Mario Draghi, con un focus particolare sui rapporti con l'Italia, sul tema cruciale della vigilanza bancaria e sul futuro stesso della Ue e della sua autorità monetaria centrale.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858698525
Argomento
Economics
1

Mario, è fatta!

È tarda mattina quando Jean-Claude Trichet si allontana da un gruppo di leader europei per fare una telefonata. «Mario, è fatta!» annuncia, tutto d’un fiato, lasciando trasparire dalla voce l’orgoglio, l’esultanza e il sollievo.
Dopo mesi di tentennamenti, Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, Silvio Berlusconi e gli altri capi di Stato europei hanno finalmente approvato la nomina di Mario Draghi a terzo presidente della Banca centrale europea, e tocca a Trichet comunicargli la notizia. Draghi, economista e banchiere con una lunga esperienza nella pubblica amministrazione, nel mondo accademico, nelle banche centrali e d’investimento, è consapevole delle sfide che lo attendono, ma accoglie l’annuncio con entusiasmo.
È il giugno del 2011 e l’Europa è in piena crisi. Il tracollo finanziario cominciato quattro anni prima negli Stati Uniti, e che ha trascinato l’economia mondiale in quella che sarebbe passata alla storia come la Grande Recessione, è dilagato oltre il sistema bancario. Le dispendiose misure di stimolo per sostenere l’economia e la superficialità con cui si è lasciato correre sugli eccessi della spesa pubblica hanno portato alla ribalta delle cronache il problema del debito sovrano. Particolarmente colpita, la Grecia. Entrato nell’eurozona solo nel 2001, il Paese ha perso la fiducia degli investitori dopo che i suoi governanti hanno finalmente ammesso la vera entità del suo deficit di bilancio. Impossibilitata a rivolgersi ai mercati finanziari per ottenere fondi, la Grecia si sta tenendo a galla con i prestiti di salvataggio dei vicini europei, un pacchetto che comprende draconiane misure di austerity, con riforme e tagli della spesa pubblica.
L’eurozona è impreparata a una crisi di questa natura, portata e rilevanza. Le diciassette nazioni condividono la moneta unica sotto la supervisione della BCE, ma molti dei poteri cruciali per preservarne l’unione e favorirne la prosperità sono ancora esercitati dai governi nazionali di Berlino, Parigi, Roma, Madrid e così via. Le strutture di tutela del sistema finanziario dell’area euro – un’unica authority di vigilanza delle banche, un fondo salva-Stati per soccorrere i Paesi e i prestatori in difficoltà – ancora non esistono. E i politici al potere sembrano spesso più interessati a puntare il dito contro Atene che ad ammettere che è il momento di agire.
Sui mercati finanziari sono in molti a scommettere che la Grecia non saprà far fronte ai suoi obblighi di debito, il che rende le misure necessarie a scongiurarne il default le più costose del mondo. Il rendimento dei titoli di Stato decennali chiuderà il 2011 a poco meno del 35 per cento.1 Nelle strade di Atene e nel resto del Paese la crisi si tocca con mano: nelle fabbriche e nei negozi che cessano le attività, nel rapido aumento della disoccupazione, negli scontri violenti tra decine di migliaia di manifestanti e gli agenti antisommossa che paralizzano la nazione. Gran parte degli investitori e degli addetti ai lavori è convinta che la permanenza della Grecia nell’euro abbia i giorni contati.
Ancora più preoccupante, per la BCE, è il fatto che l’eurozona abbia cominciato a operare sempre meno come una vera unione monetaria, un’economia congiunta retta da una moneta unica. Gli istituti di credito fanno incetta di titoli di Stato nazionali, scaricando quelli emessi altrove. I prestiti internazionali tra banche si stanno azzerando, mentre si allarga in maniera drastica la forbice tra gli interessi sui prestiti pagati dalle famiglie e dalle aziende in Germania e in Italia. È un segno che investitori e banchieri non si limitino a prevedere l’uscita di un Paese dall’eurozona: non sono più tanto convinti che l’euro stesso abbia un futuro. Si stanno preparando al peggio.
Nell’estate del 2011, Trichet, europeista convinto che aveva contribuito a creare la moneta unica e che aveva avuto, nel 2003, l’incarico di proteggerla in quanto presidente della BCE, avverte che «oggi l’“Europa” e i benefici che ne derivano sono dati per scontati» e chiede un «salto di qualità» per rafforzare le regole e le istituzioni dell’eurozona, e «una visione che sia facilmente comprensibile e condivisibile dai cittadini della UE».2
All’Europa serve un leader. Una personalità in grado di superare i divari tra nord e sud, est e ovest, e di garantire la sopravvivenza dell’Unione e della sua moneta. Sessantasei anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la comunità internazionale affida le sue speranze a un cancelliere tedesco: Angela Merkel. Figlia di un pastore protestante cresciuto oltre la Cortina di ferro e pupilla di Helmut Kohl, l’uomo chiave per la riunificazione del Paese dopo la caduta del muro di Berlino, Merkel è destinata a emergere come la figura politica più potente d’Europa. Ma sarà Draghi, un tecnocrate italiano che non si è mai candidato a una carica politica, ad aggiudicarsi il merito di aver salvato l’euro.
La sua ricetta per rafforzare e sostenere l’unione monetaria e la sua determinazione a spronare la leadership politica su questa strada sono evidenti fin da subito. All’inizio di giugno del 2011, ancora prima della nomina ufficiale alla guida della BCE, Draghi dice ai parlamentari europei che la crisi del debito sovrano sarà «un autentico test che mette alla prova la volontà politica, in Europa, di compiere ogni sforzo necessario per garantire il conseguimento dell’integrazione economica e monetaria europea».3 Che Draghi avrebbe fatto appello a una dimostrazione di risolutezza politica era nell’ordine naturale delle cose; sono le parole con cui ha scelto di esprimerlo a essere interessanti. Circa tredici mesi dopo, la sua dichiarazione che la BCE avrebbe fatto «tutto il necessario» per tutelare l’euro segnerà il punto di svolta, permettendo all’Unione di superare indenne il momento peggiore della crisi.
Pur essendo la seconda valuta più diffusa del mondo, l’euro è ancora relativamente giovane. Introdotta nel 1999 come valuta in undici Paesi europei, entrò in circolazione come moneta fisica tre anni dopo. Al termine del mandato di Draghi è condivisa da diciannove Stati della UE, e da molti punti di vista rappresenta il culmine di un progetto che ha un obiettivo che va ben oltre l’economia: il mantenimento della pace.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’integrazione era l’unica risposta possibile alle devastazioni che gli estremismi nazionalistici avevano inflitto al continente. «Esiste un rimedio che [...] potrebbe trasformare l’intera scena e rendere in pochi anni tutta l’Europa [...] libera e felice» dichiarò nel 1946 Winston Churchill, che aveva guidato la Gran Bretagna durante la guerra. «Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa possiamo ricostituire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà. Dobbiamo creare una specie di Stati Uniti d’Europa.»4
Oggi l’Unione Europea è ben diversa da quella che forse aveva in mente Churchill. Resta ancora un accordo stretto tra nazioni indipendenti, ed è improbabile che diventi un Paese unico come gli Stati Uniti. Ma ha fatto comunque molta strada dall’istituzione della Comuni-tà europea del carbone e dell’acciaio e della Comunità economica europea degli anni Cinquanta. L’atto fondativo della UE, il Trattato di Maastricht, siglato nel 1992, definiva anche i parametri per una moneta comune, battezzata ufficialmente «euro» nel 1995. La crisi ha generato molte incertezze sul futuro della moneta unica, palesando l’ipotesi che alcuni Paesi decidano di abbandonarla, se non addirittura che l’intero progetto finisca per sfaldarsi. Quanti hanno contribuito alla sua istituzione, Draghi compreso, restano però fermamente convinti che, con tutti i suoi difetti e difficoltà, l’unità monetaria sopravvivrà. Come ripete spesso il presidente della BCE, l’euro è «irreversibile», e parlare di uscirne non soltanto non è realistico: è da irresponsabili.
La nomina di Draghi come terzo presidente della Banca centrale europea, dopo il politico ed economista olandese Wim Duisenberg e il funzionario di Stato francese Trichet, viene annunciata alle 11.52 del 24 giugno 2011, dopo un summit di due giorni dei leader europei a Bruxelles. Nei due anni di contrattazione politica che hanno preceduto l’assegnazione dell’incarico, si credeva che sarebbe stato un tedesco, o comunque non un italiano, ad assumere una delle cariche finanziarie più influenti del mondo. La crisi del debito sovrano ha però scombinato le carte. In segno di protesta contro le politiche non convenzionali della BCE, il candidato tedesco, Axel Weber, ha annunciato le sue dimissioni dalla presidenza della Bundesbank circa nove mesi prima del termine del mandato di Trichet, spianando la strada all’unico altro contendente, che per coincidenza era stato anche il primo proposto per l’incarico.
L’Italia aveva cominciato a sostenerne la candidatura alla fine di settembre del 2009. Nonostante i numerosi dissidi con il quarto governo Berlusconi e con lo stesso Draghi, l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini dichiarò che l’Italia sarebbe stata «onorata» di vedere l’economista ai vertici della BCE.5
Per quanto innegabili le qualità del candidato, la campagna per la sua nomina non sembrava promettere bene. Era infatti opinione condivisa che dopo tredici anni di unione monetaria dovesse finalmente toccare alla Germania prendere il timone di un’istituzione la cui impostazione era stata ispirata proprio dalla sua banca centrale, caratterizzata dall’impegno prioritario per la stabilità dei prezzi e per l’indipendenza dal potere politico. Merkel aveva strappato il sostegno di Sarkozy in favore del candidato tedesco, e dato che le due massime cariche ai vertici dell’istituzione in genere andavano equamente spartite tra una nazione centrale e una periferica dell’Unione, tra un’economia vasta e una più piccola, e tra candidati con un background soprattutto politico ed economico, la strada per la presidenza di Weber sembrava ormai in discesa.6
La Germania, l’economia più forte d’Europa, non rivestiva una posizione direttiva delle politiche europee dai tempi di Walter Hallstein, presidente della Commissione europea dal 1958 al 1967. Non aveva proposto un proprio candidato al momento di scegliere il primo presidente della BCE, nel 1998, e aveva accettato l’indicazione di un francese come erede in pectore in cambio della designazione di Francoforte, capitale finanziaria del Paese, come sede della BCE.
Il piano ha iniziato a disfarsi proprio allora, nella primavera del 2010. Lo scoppio della crisi del debito greco ha gettato un’ombra su un’eurozona già in affanno nel tentativo di recuperare il terreno perduto nella Grande Recessione degli anni precedenti. I primi segnali problematici erano emersi nel 2007 negli Stati Uniti, quando i tassi di interesse sui mutui subprime, erogati al picco del boom del credito, hanno cominciato a crescere a una velocità allarmante. Il contagio ha raggiunto l’Europa nell’agosto dello stesso anno, con il congelamento di tre fondi della francese BNP Paribas, perché impossibilitata a valutare correttamente il valore degli asset. La crisi ha continuato a covare per un altro anno finché, nel settembre del 2008, Lehman Brothers, quarta principale banca d’affari americana, ha dichiarato bancarotta. Il crollo dei mercati finanziari, la caduta verticale degli scambi internazionali e l’impennata della disoccupazione che sono seguiti hanno sprofondato il mondo nella catastrofe, costringendo i governi e le banche centrali a interventi massicci per soccorrere le proprie economie. In Europa la concessione di stimoli fiscali è andata a pesare su bilanci statali già sovraccarichi. Con la Grecia impossibilitata a pagare il suo debito, i leader europei si sono preparati a un summit d’emergenza e i funzionari della Banca centrale europea si sono riuniti a Lisbona per uno dei loro regolari incontri fuori sede. La domanda posta con maggiore insistenza a Trichet il pomeriggio di quel 6 maggio 2010 è stata se la BCE fosse disposta ad assumersi l’onere dei titoli di Stato greci. «Di questo non si è parlato» fu la sua risposta.7 Qualche ora dopo sono crollate le Borse americane. Il Dow Jones, principale indice azionario statunitense e termometro dell’industria, è precipitato di quasi 1000 punti, la più grave perdita sulle contrattazioni in un’unica giornata dal crollo del 1987. I funzionari di vertice della BCE non hanno potuto fare a meno di chiedersi se il loro rifiuto di intervenire nella crisi greca non avesse contribuito al disastro o, peggio ancora, se l’avesse provocato. Dopo cena, a porte chiuse, hanno cominciato a studiare una via d’uscita.
Uno dei principi fondanti dell’Unione Europea è la rigorosa separazione tra politica fiscale e monetaria, tra il potere di imporre tasse e di decidere l’impiego del gettito fiscale e quello di fissare i tassi di interesse. È per questo che la BCE non è autorizzata a finanziare i governi dell’eurozona. I politici non possono confidare che la Banca centrale stimoli l’economia del loro Paese o, in caso di difficoltà, ne acquisti il debito sovrano. I funzionari della BCE sono tecnocrati non eletti, e il loro unico mandato è preservare la stabilità dei prezzi. Tale principio è osservato con particolare scrupolo in Germania, dove la Bundesbank opera da sempre in base a questa disciplina.
Ecco perché la proposta avanzata proprio da Weber nel maggio del 2010 ha sorpreso tutti. Nel corso di una riunione a porte chiuse, quella sera, il presidente della banca centrale tedesca è stato il primo a prendere la parola, e il suo suggerimento è stato: «Acquistiamo i titoli di Stato». Se lo è rimangiato quasi subito, giustificandolo come un’ipotesi teorica, una soluzione del tutto accademica al problema, ma l’idea ha attecchito.
Da Lisbona, Trichet si è diretto a Bruxelles, dove l’indomani si sarebbe tenuto il summit dei leader europei. Dopo trattative durate una notte intera, alle prime ore di sabato 8 maggio i capi di Stato hanno annunciato che l’Unione avrebbe istituito un fondo di emergenza per evitare che la sofferenza fiscale greca contagiasse il resto del continente. I dettagli dell’operazione sarebbero stati illustrati dai vari ministri delle Finanze nella giornata di domenica, in tempo per la riapertura dei mercati azionari asiatici.
Già così i tempi erano strettissimi. A complicare le cose c’è stato il forte ritardo dell’inizio del dibattito, previsto per le tre del pomeriggio ma rimandato per un malore dell’allora ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, ricoverato d’urgenza al suo arrivo nella capitale belga. Le sue condizioni di salute erano precarie fin dal 1990, quando, all’epoca ministro degli Interni, era stato vittima dell’aggressione di uno squilibrato. Una ferita da arma da fuoco alla spina dorsale lo aveva costretto su una sedia a rotelle. La difficile convalescenza seguita a un intervento chirurgico alla schiena cui si era sottoposto all’inizio dell’anno lo aveva confinato per settimane in ospedale, e i nuovi farmaci prescritti dai medici gli causavano problemi di respirazione. Con Schäuble impossibilitato a condurre i negoziati, la Germania si è trovata spiazzata. Il suo vice, Jörg Asmussen, superstite di un governo precedente in cui il ministero delle Finanze era in mano ai socialdemocratici, non aveva la fiducia di Angela Merkel, e il primo cristiano democratico papabile, il ministro dell’Economia e Tecnologia Rainer Brüderle, non era reperibile. La cancelliera ha inviato a Bruxelles il ministro degli Interni Thomas de Maizière, confidente stretto e cugino di Lothar de Maizière, l’ultimo e unico premier democraticamente eletto della Repubblica Democratica Tedesca nel 1990. Poi, alle nove di sera, ha convocato i ministri chiave per discutere misure in grado di supportare l’eurozona senza violare i regolamenti.
Intanto i governatori delle banche centrali erano diretti a Basilea per una delle loro regolari riunioni bimestrali alla Banca dei regolamenti internazionali. La BRI è la «banca delle banche centrali», istituita nel 1930 per stabilire le riparazioni tedesche dopo la Prima guerra mondiale. L’atmosfera era lugubre. Di solito ben disposti a scambiare due parole con i reporter accampati nella hall dell’Hilton di fronte alla sede della BRI, un originale grattacielo nei pressi della stazione ferroviaria costruito negli anni Settanta dall’architetto svizzero Martin Burckhardt, i banchieri hanno mantenuto uno stretto riserbo nel loro andirivieni tra le teleconferenze con i rappresentanti del G7 e del G20. Alle raffiche di domande sparate dai giornalisti rispondevano scuotendo la testa: «No comment». Altrettanto ansiosi di avere notizie erano i capi di governo, mentre la riunione dei ministri delle Finanze europei a Bruxelles si protraeva fino a notte fonda. Christine Lagarde, che al tempo era a capo del dicastero delle Finanze francese, telefonava ogni mezz’ora per riferire l’andamento dei negoziati.8
Le prime indiscrezioni sull’entità del pacchetto di aiuti europei sono filtrate alla stampa intorno alle 22.30. Erano affidabili? Dietro le quinte, furibondo per la lentezza dei negoziati, Trichet premeva per un accordo. Trascorsa la mezzanotte, in Nuova Zelanda la Borsa di Wellington ha aperto e ancora non ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Christine Lagarde
  4. Mario Draghi l’artefice
  5. Introduzione
  6. 1. Mario, è fatta!
  7. 2. Affrontare la sfida
  8. 3. I primi giorni della crisi
  9. 4. Whatever it takes
  10. 5. Nein zu allem
  11. 6. Rompere le convenzioni
  12. 7. Tolleranza zero per gli sciocchi
  13. 8. Finalmente, QE
  14. 9. Odissea greca
  15. 10. Una vigilanza da inventare
  16. 11. Tutto cambia
  17. 12. Realtà italiane
  18. 13. E adesso?
  19. Ringraziamenti
  20. Note
  21. Copyright