Omeopatia
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Omeopatia

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Omeopatia

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Medici autorevoli sostengono che l'omeopatia non ha alcuna efficacia. Affidabili siti internet scrivono nero su bianco che nei preparati omeopatici non c'è nulla se non acqua o zucchero. Eppure ci sono altri medici che prescrivono e farmacisti che vendono cure omeopatiche, e molte persone che conosciamo, di cui non possiamo mettere in dubbio né l'intelligenza né la buona fede, affermano di avere tratto grandissimi benefici dall'omeopatia. In questo libro, Roberto Burioni passa in rassegna bugie, leggende e verità di un metodo di cura seguito da oltre 9 milioni di italiani. Parla delle idee di Samuel Hahnemann, il fondatore, duecento anni fa, dell'omeopatia; della teoria dei quattro umori e del salasso come rimedio universale; di un elusivo batterio che un medico francese alla disperata ricerca di una cura per l'influenza spagnola trovò in grande quantità nel fegato e nel cuore di un'anatra muschiata; della tecnica delle infinite diluizioni alla base delle preparazioni omeopatiche, del numero di Avogadro, delle leggi della chimica e dell'esperimento che trent'anni fa rischiò di farle saltare, ipotizzando l'esistenza di una "memoria dell'acqua"; di un illusionista innamorato della razionalità scientifica; delle prodigiose proprietà della luce di Sole, Luna e Saturno, della nota Fa e del Muro di Berli- no, tutti infinitamente diluiti; di effetto placebo e di sperimentazioni "in doppio cieco"; di omeopatia e Servizio sanitario nazionale. Questa appassionante carrellata di storie, personaggi, fatti incontrovertibili e opinioni a confronto — alla ricerca della verità, senza diluizioni — si conclude con una domanda: gli omeopati hanno qualcosa da insegnare ai medici "tradizionali"? La risposta ci sorprenderà.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
ISBN
9788858698693
1

Il batterio che non c’è

Joseph Roy era nato in Francia nel 1891 e sembrava avere scelto un momento particolarmente fortunato per venire al mondo. La sconfitta nella guerra con la Prussia del 1870 era ormai solo un ricordo e si viveva in un confortevole senso di sicurezza e prosperità. I conflitti, se c’erano, erano lontani e non erano più interessanti: quel neonato si sarebbe dunque goduto in pieno le meraviglie della Belle Époque. A viverla, pareva effettivamente un’epoca d’oro, di benessere inarrestabile, di ottimismo sconfinato. La scienza sembrava, con le sue scoperte, tracciare una strada verso la felicità e verso una nuova vita. Le ferrovie venivano costruite a migliaia di chilometri l’anno, rendendo vicini posti prima lontanissimi; i motori stavano liberando l’uomo dalla fatica del lavoro più duro; gli avanzamenti della medicina avevano chiarito la natura di molte malattie e ridotto in maniera drastica la mortalità infantile, facendo sparire numerose epidemie. La popolazione aumentava e l’economia prosperava mentre le nazioni, invece di scontrarsi sui campi di battaglia, si incontravano pacificamente in esposizioni universali meta di decine di milioni di visitatori, in occasione delle quali venivano costruiti strabilianti edifici di ferro come il Crystal Palace a Londra o la Torre Eiffel a Parigi.
Le novità partorite dalla scienza erano molte e rivoluzionarie: il telefono di Meucci, la radio di Marconi, la lampadina e il fonografo di Edison, l’aereo dei fratelli Wright, il cinematografo dei fratelli Lumière fino ad arrivare alle prime automobili. Insomma, il mondo moderno stava prendendo forma e sembrava davvero che questa forma fosse bellissima: pace e prosperità.
Tutti erano più ricchi: le case erano più belle, e le tavole imbandite di cibi più buoni, più sani e più nutrienti. Ognuno pensava a qualcosa di nuovo: le donne a conquistare il diritto di voto, gli uomini a organizzare le prime Olimpiadi, che cominciarono proprio in quegli anni insieme ai tornei di tennis di Wimbledon e di Parigi, al Giro d’Italia, al Tour de France e ai campionati nazionali di calcio.
Insomma, agli inizi del Novecento l’orizzonte era splendido e nulla faceva pensare che qualcosa avrebbe potuto turbare il progresso ininterrotto verso il benessere e la ricchezza. Addirittura un libro di enorme successo internazionale, La grande illusione di Norman Angell, aveva spiegato come il sopravvenuto capitalismo globale avesse reso le conquiste territoriali del tutto inutili, e per questo era concretamente scomparso il rischio di una grande guerra tra le nazioni più ricche e più potenti. A convincere i più pessimisti ci aveva pensato la prestigiosa rivista «The Economist», che rassicurava i suoi lettori con un editoriale dal titolo La guerra è diventata impossibile nel mondo civilizzato. Non si poteva chiedere una prospettiva migliore.
Purtroppo i fatti si incaricarono di dimostrare nel modo più terribile quanto le previsioni fossero sbagliate. Il nostro Joseph Roy non aveva ancora 23 anni quando l’Europa, senza un vero motivo apparente, esplose come una polveriera. Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, un giovane di 19 anni aveva ucciso a revolverate l’erede al trono dell’Impero austroungarico e la moglie. Non era a prima vista una notizia sconvolgente: anche il re d’Italia Umberto I ed Elisabetta di Baviera – la principessa Sissi – erano stati assassinati, e l’anarchico con il cappello nero e la bomba pronta a scoppiare era allora un cliché tanto quanto lo è oggi il fanatico islamista imbottito di esplosivo.
Invece, mentre la notizia dell’assassinio di Sarajevo scompariva dalle prime pagine dei giornali francesi scalzata dal processo per l’omicidio del direttore del «Figaro», l’Europa era precipitata nel baratro. L’Austria-Ungheria aveva dichiarato guerra alla Serbia, i tedeschi avevano dichiarato guerra ai russi e ai francesi, poi invaso il Belgio; infine la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Era l’inizio di agosto del 1914 e l’impossibile, nel giro di pochi giorni, era diventato inevitabile.
Il mondo, stupito, tratteneva il fiato, ma l’ottimismo continuava a regnare: la gente pensava che la guerra sarebbe stata breve e quasi indolore. Guglielmo II, imperatore di Germania, aveva detto ai suoi soldati che sarebbero tornati a casa prima del cadere delle foglie. Non fu così.
Di colpo ci si rese conto che la scienza e la tecnologia, così come avevano portato benessere e ricchezza, potevano generare terribili strumenti di morte. Mitragliatrici, esplosivi, cannoni giganteschi, gas asfissianti: quattro anni e mezzo di atrocità inimmaginabili e morti, tanti morti, così tanti che fu difficile contarli tutti.
Joseph Roy si era trovato in mezzo a questa carneficina, precipitato come medico militare nelle trincee e tra i reticolati nel pieno dei suoi 23 anni. Per essere arrivato vivo e indenne alla fine della guerra doveva essere stato molto fortunato, visto che degli 8.400.000 soldati francesi quasi 1.400.000 erano morti e oltre 4.200.000 erano rimasti feriti. Ma chi ce l’aveva fatta si cullava nell’illusione che quella sarebbe stata «la guerra che avrebbe fatto finire tutte le guerre» (forse non era un caso, però, che a pronunciare quella frase fosse stato un grande autore di fantascienza, H.G. Wells; ci aveva visto giusto invece Ferdinand Foch, il generale francese comandante in capo degli eserciti alleati sul fronte occidentale, che con incredibile precisione aveva definito quella pace «un armistizio di vent’anni»).
Invece, mentre terminava quell’orrore, ecco che ne arrivava un altro, addirittura peggiore. L’epidemia di influenza spagnola.
In realtà questa terribile piaga, del tutto naturale e completamente slegata dal progresso scientifico e dalla volontà dei governanti, che colpì il mondo dopo che il genere umano si era messo d’impegno per autoestinguersi, di spagnolo non aveva molto. I primi casi si verificarono mentre la guerra era ancora in corso e la censura in atto negli Stati belligeranti non faceva filtrare alcuna notizia. In Spagna la guerra non c’era, e quando il re Alfonso XIII si ammalò la stampa diede grandissimo risalto alla sua grave malattia e alla sua insperata guarigione. Questo bastò a dare all’epidemia il nome con cui è tuttora ricordata: la «spagnola».
Ancora oggi si discute sul vero luogo di origine del ceppo mortale, anche se le ipotesi più accreditate parlano della Cina meridionale, del Kansas, della Francia. Il fatto incontrovertibile è che si trattava di qualcosa mai visto prima, soprattutto per il modo in cui uccideva le persone. L’epidemia influenzale, allora come oggi, arrivava ogni anno all’inizio dell’inverno e pretendeva il solito tributo di vecchi e bambini che, con l’apparato respiratorio indebolito dall’infezione, cadevano vittime di polmoniti batteriche che allora non potevano essere contrastate dagli antibiotici. La spagnola, invece, era del tutto diversa: uccideva in particolare i giovani, che si ammalavano e pochi giorni dopo morivano tra atroci sofferenze, non riuscendo più a respirare. Se la guerra era stata una tragedia, l’epidemia fu peggiore: tra i soldati statunitensi, che si erano uniti al conflitto nel 1917, ne morirono più per l’influenza che per le pallottole e le bombe. In fondo la guerra falcidiava solo chi era al fronte, mentre la spagnola non risparmiava nessuno. Si stima che un terzo della popolazione mondiale sia stato infettato ed è difficile calcolare il numero preciso dei decessi. Certo è che se i soldati caduti in guerra sono stati circa 10 milioni, nel caso dell’influenza sono morti – a seconda delle stime – tra i 40 e i 100 milioni di persone. Per capire bene la portata della più grande strage per cause naturali mai conosciuta dal mondo, basti pensare che l’influenza spagnola ha ucciso in 24 settimane più di quanto non abbia fatto l’AIDS in 24 anni, e in un anno ha causato più morti della peste nera in un secolo.
Insomma, un’ecatombe, peggiore della guerra. Almeno in mezzo al campo di battaglia si capiva benissimo che a uccidere erano le pallottole delle mitragliatrici o le schegge delle bombe gigantesche scagliate dai cannoni nemici, invece in questo caso l’assassino restava sconosciuto. Si moriva per una malattia infettiva ma – nonostante i progressi della scienza e in particolare della microbiologia, che dopo Pasteur e Koch aveva fatto passi da gigante individuando le cause di moltissime infezioni – non si riusciva a capire l’agente patogeno che provocava la strage.
In questo mondo attonito e spaventato lavorava il nostro Joseph Roy, giovane medico, appena congedato dall’esercito. Era nato a Digione tre giorni prima di Natale e aveva frequentato un liceo dove suo padre era professore. Poi si era dato agli studi di medicina e questo l’aveva fatto partecipare all’inferno della guerra come medico militare. Sopravvissuto alla carneficina, era deciso a indagare sulla natura dell’epidemia che stava sterminando la popolazione.
Così, armato di un microscopio, si mise a osservare i campioni clinici provenienti da malati di influenza spagnola per tentare di identificarne la causa. Non era certamente un esperto batteriologo, ma era animato da molto entusiasmo e da una notevole fiducia nelle sue possibilità. Si mise dunque a lavorare senza sosta e a un certo punto – eureka! – pensò di avere fatto un’importantissima scoperta: nei suoi preparati vedeva chiaramente un microbo costituito da due corpi ineguali e animato da un rapido movimento vibratorio, mai descritto prima. C’era in tutti i tessuti che provenivano dai malati e ritenne di avere fatto centro. Già erano stati identificati gli stafilococchi, batteri rotondi (kókkos in greco significa «chicco») che si radunano in grappoli (staphylé), e gli streptococchi, che si osservano in catenelle (streptós in greco vuol dire «attorcigliato») e sono la causa di pericolosissime tonsilliti. Roy pensò dunque di battezzare «oscillococchi» gli organismi che aveva scoperto: «batteri tondi che oscillano e vibrano». Erano però molto strani, in quanto oltre a essere animati da queste insolite vibrazioni, cosa unica tra i microrganismi, erano anche di forma estremamente variabile: il microbo poteva restringersi fino a diventare invisibile al microscopio oppure ingrandirsi invecchiando, rivelando un terzo e addirittura talvolta un quarto corpo tondeggiante. Roy li vedeva in tutti i preparati ed era contentissimo che le sue ricerche avessero avuto un risultato così lusinghiero.
Il dato sperimentale appariva sensazionale, il che portò Roy a cercare questo batterio anche in altre patologie, e questa intuizione diede risultati talmente positivi da essere quasi incredibili. L’oscillococco era presente negli ammalati di tubercolosi, nelle lesioni causate dalla sifilide, nella gonorrea, negli individui affetti da eczema, herpes, reumatismi cronici, orecchioni, varicella e morbillo. Insomma, questo strano batterio pareva essere la causa di tutto, non soltanto dell’influenza spagnola. Roy non fu sfiorato dal dubbio che il batterio, trovandosi ovunque, non c’entrasse nulla con le malattie. Per cui continuò alacremente a cercarlo in altri campioni clinici.
Alla fine della storia, com’è ovvio, l’oscillococco fu trovato in grande abbondanza anche nel sangue e nei tessuti dei malati di cancro, il che portò il nostro baldo medico a scrivere un libro dal cauto titolo Verso la comprensione e la guarigione del cancro. Questo gli valse l’attenzione di Léon Daudet, un intransigente monarchico, fanatico antisemita, oppositore della democrazia che lo reclutò indovinate in quale battaglia? Quella contro le vaccinazioni obbligatorie, con editoriali al vetriolo sul giornale da lui diretto, «L’Action Française», che riprendevano articoli dove il nostro Roy sciorinava con notevole anticipo sui tempi il repertorio odierno delle sciocchezze antivacciniste (i vaccini sono troppi, sono tossici, uccidono i bambini, vengono somministrati troppo presto, non siamo contro le vaccinazioni ma per la libertà dei pazienti di scegliersi le cure e dei medici di decidere cosa somministrare e tutto il resto).
Insomma, il dottor Roy era diventato famoso e proponeva con notevole successo, anche economico, le sue teorie (con relative cure) ai malati che si convincevano delle sue scoperte. Però adesso bisognava mettere a punto un metodo codificato per ottenere una preparazione standardizzata di questo fondamentale oscillococco. Dove prenderlo, visto che era dappertutto? Dopo lunghi ragionamenti, il nostro Roy decise che la fonte migliore era l’anatra muschiata e spiegò nei dettagli come prepararlo:
Mettere in un pallone da un litro, in condizioni rigorosamente asettiche, una miscela di succo pancreatico e soluzione glucosata. Decapitare un’anatra muschiata ed estrarne fegato e cuore. Aggiungere dunque alla miscela nel pallone 35-37 grammi di fegato e 15 grammi di cuore dell’anatra. Lasciare «in incubazione» per 40 giorni. Dopo questo periodo, i visceri dell’anatra saranno «autolisati», vale a dire i tessuti si saranno decomposti senza contaminazioni esterne. L’autolisato filtrato costituisce il campione a partire dal quale si preparerà il rimedio.
Se crediamo a Roy, in questo preparato c’è una grandissima quantità di oscillococchi. Passi per l’anatra, che magari si trova in cucina, visto che è un cibo apprezzato, ma perché proprio il cuore e il fegato di questo animale? Ce lo spiega lo stesso Roy con un ragionamento che non fa una grinza.
Gli antichi vedevano nel fegato una sede di sofferenza più importante del cuore; nozione profondamente giusta: è a livello del fegato che avviene la modificazione patologica del sangue, è lì che la qualità di energia del nostro muscolo sanguigno cambia durevolmente, in maniera talvolta leggera, talvolta grave.
Forse l’abitudine dei francesi di chiamare un generico malessere «crisi di fegato» (crise de foie) ha qualcosa a che fare con questa scelta molto originale?
Ma alla fine qual è stato il destino dell’oscillococco? In quali malattie è implicato? Quale ruolo gli è stato attribuito come causa di malanni? Certamente l’oscillococco non è all’origine dell’influenza, il cui responsabile è un virus che non può essere visto con un microscopio ottico come quello usato da Roy; tanto meno causa i tumori, i reumatismi e gli eczemi, che non sono provocati da agenti infettivi.
Siete curiosi? Bene, vi offro un indizio importante: negli anni successivi nessuno studioso è mai più riuscito a osservare questi oscillococchi, anche con mezzi ben più potenti e con metodiche estremamente accurate. In molti ci hanno provato, ma il risultato è stato sempre lo stesso: niente oscillococco.
Ebbene, sapete qual è la triste verità?
L’oscillococco non esiste.
Roy non era proprio un prodigio come microscopista e non sapeva usare lo strumento con la necessaria abilità. Quando preparava i vetrini lo faceva maldestramente, e i suoi batteri non erano altro che bolle d’aria che si formano tra i campioni e i vetrini coprioggetto, bolle tonde che vibrano come tutte le bolle del mondo. Io, che insegno Microbiologia all’università, questo oscillococco lo vedo molto spesso: si trova nei vetrini preparati dai giovani alle prime armi. Quando cominciano a mettere le mani sul microscopio sono poco pratici, e imparano come abbiamo imparato tutti: facendo errori. Agli inizi, quando tanti anni fa ero un giovane inesperto, gli oscillococchi c’erano anche nei miei vetrini. Per fortuna, però, io avevo un bravo maestro che mi spiegava l’errore e mi insegnava a fare gli esperimenti come si deve. Roy, purtroppo, no. Faceva da solo, e da solo ha continuato a sbagliare.
Insomma, l’oscillococco è un artefatto di laboratorio, e si tratta semplicemente di un errore sperimentale da parte di uno scienziato inesperto. Capita, è sempre capitato e continuerà a capitare.
Però in tutto questo c’è un fatto molto strano: in genere gli errori di laboratorio vengono velocemente dimenticati, talvolta dopo una sfuriata del professore nei confronti dell’allievo inetto.
In questo caso, invece, le cose sono andate in maniera molto diversa. Anche se l’oscillococco non esiste, ed è certo che si tratta soltanto di un artefatto dovuto al maldestro microscopista, nel momento in cui entrate in una farmacia rifornita di prodotti omeopatici trovate in vendita il preparato ricavato, secondo le istruzioni di Joseph Roy, dal fegato e dal cuore di quell’anatra muschiata, piena zeppa di oscillococchi, sotto forma di granuli omeopatici proposti come cura e profilassi contro l’influenza: è l’Oscillococcinum, che in alcune nazioni è nelle prime posizioni della classifica dei farmaci più venduti.
A essere sinceri, in quei granuli di Oscillococcinum l’oscillococco – che come avete già capito non esiste – in realtà non c’è. Mi rendo conto che il discorso a questo punto si fa complicato, ma spiegarvi il paradosso è cosa lunga e il libro che avete in mano è stato scritto proprio per questo.
Farmaci che non contengono qualcosa che non c’è: sembra un gioco di parole ma è una storia appassionante, che vi racconterà una vicenda di errori, di paradossi, di sostanze assenti dai preparati ma che per qualche magia, pur non essendoci, dovrebbero farvi bene. E vi spiegherà anche perché talvolta queste sostanze – che non ci sono, beninteso – pur non essendoci fanno inaspettatamente bene per davvero.
Nel frattempo, sappiate che ovviamente l’oscillococco (che non esiste) non ha alcun ruolo nella prevenzione e nella cura dell’influenza.
Figuriamoci i granuli dove non c’è.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Omeopatia
  4. Premessa
  5. 1. Il batterio che non c’è
  6. 2. Il simile cura il simile?
  7. 3. Diluite, diluite, qualcosa (non) resterà
  8. 4. La memoria dell’acqua
  9. 5. James Randi e il suicidio degli scettici
  10. 6. Il rimedio perfetto
  11. 7. «Vedi che funziona?»
  12. 8. Assenza, più acuta presenza
  13. 9. Quindi l’omeopatia funziona o no?
  14. 10. Medici, farmacisti e sanità pubblica
  15. 11. Cosa possiamo imparare dagli omeopati
  16. Riferimenti bibliografici
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright