Appunti per me stessa
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Appunti per me stessa

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Appunti per me stessa

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«Ho scritto questa storia per spezzare il codice del silenzio ed essere finalmente presente nella mia vita.» Sei confessioni in un'unica voce, la cui gioia liberatoria affiora, in filigrana, dalla trama delle parole. Con questo libro che le è valso il prestigioso Irish Book Award, Emilie Pine scosta il velo dallo specchio, si guarda, e si racconta con la forza di chi ha deciso di indagare se stessa infischiandosene dell'approvazione altrui. Dalle difficoltà relazionali con un padre amato e odiato, all'esperienza cruda dell'infertilità, alla fame imposta al proprio corpo di adolescente, fino al corpo, ancora lui, violato dalla prepotenza degli uomini: in queste pagine non trovate sguardi accomodanti ma parole come frecce imbevute di onestà e fierezza. Scava con foga, Emilie, nei ricordi. E dagli angoli bui della clandestinità emotiva ecco venire alla luce un autoritratto schietto e tagliente, una voce pronta a dettare le sue regole, figlie di una storia personale ma in cui ogni donna potrà riconoscere una caduta, o una vittoria, comunque la stessa, appassionata strada percorsa.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831803106

Gli anni del concepimento

Faccio pipì su dei bastoncini e dentro dei bicchierini di plastica. Quando il getto si sposta mi faccio pipì sulla mano. Apro le gambe per fare sesso e per lo specolo della ginecologa. Tendo il braccio per gli aghi e le misurazioni della pressione, e certe volte per aggrapparmi al mio compagno seduto vicino a me. Sono piena di paura, speranza e vergogna. Temo di essere vuota o piena delle cose sbagliate. Temo di scomparire, di erodermi, di fallire. Non so che farmene di tutti questi sentimenti. Voglio soltanto diventare madre. Ma perché per certe persone è così facile e così difficile per altre? Perché per me è così difficile?
Domanda complicata. Voglio dei figli? Mi sono tormentata per anni. Ho cercato di metterla sotto forma di dibattito, con i pro e i contro. Ho soppesato la libertà e l’amore, l’egoismo e l’altruismo, il presente e il futuro. Tra i venti e i trent’anni ho visto i miei amici rispondere alla domanda con un «sì» e diventare genitori. Ho visto lo shock sulle loro facce, la stanchezza nei loro occhi, la straordinaria gamma di emozioni suscitate dalla persona nuova che avevano fabbricato. E ho visto l’amore.
Non ho affrontato da sola questo negoziato tormentoso: il mio compagno, R., provava le stesse cose. Abbiamo parlato della possibilità di diventare genitori, abbiamo parlato, quasi con nostalgia, della nostra vita di persone che amavano il silenzio, la calma e lo spazio per leggere e scrivere. Su carta possono sembrare piccole virtù, ma quell’elenco rappresentava per me, per noi, una vita piena di pace, felicità e appagamento. Un bambino avrebbe significato rinunciare a tutto questo per anni. Ne sarebbe valsa la pena? Avevo paura di riprodurre gli errori dei miei, paura per la mia relazione, paura che davanti a una personcina in lacrime di cui avrei dovuto soddisfare le necessità, mi sarebbe sembrato un compito impossibile. Era come dover scegliere alla cieca tra ciò che avevo e ciò che avrei potuto avere. Mi pareva di mettere in discussione tutto. E non sapevo che ne sarebbe valsa la pena.
Un sabato mattina incontro degli amici al parco e ci sediamo a parlare, a bere i nostri bicchieroni di caffè e a guardare i loro figli giocare sugli scivoli, le altalene e quella cosa che continua a girare. Una bambina cade. Sotto c’è della corteccia morbida e la bambina non si fa male ma, spaventata, corre dalla madre e le affonda il viso in grembo alla ricerca di una carezza. Eccolo lì. L’amore. Mi si stringe lo stomaco e devo alzarmi per nascondere un improvviso impeto di emozioni. La bambina si allontana dalla madre, mi vede lì in piedi e mi prende la mano. Mi accompagna fino all’altalena, la sollevo e inizio a spingerla e lei ride e sorride, la paura è dimenticata. Eccolo di nuovo, l’amore. L’amore demolisce me e tutte le mie scuse a base di pace, silenzio e calma. Voglio quest’amore.
Per un po’ tengo per me quest’epifania, per paura che R. non la condivida. Quando gli dico che ho preso una decisione, esita ancora, e ci aspettano mesi lenti e difficili durante i quali parliamo e non parliamo di questa enormità che io penso di volere e che lui pensa di non volere. Un bambino non è una cosa che posso fare da sola, nonostante abbia sentito alcune amiche raccontare di aver smesso in segreto di prendere la pillola in modo da poter restare incinte «per sbaglio». Non riuscirei a imitarle, perché è un gesto che mi parla di fiducia e tradimento insieme. Io voglio formare una famiglia con quest’uomo, la persona migliore che conosca, la persona che amo di più. Voglio fare tutto questo con lui, condividere l’amore.
Una sera succede una cosa. Torno a casa dal lavoro. Sta piovendo, sono fradicia e R. viene ad aprire la porta, mi fa sfilare il cappotto sgocciolante e mi chiede se sto bene. Sono infelice, ma non per via della pioggia. Non riesco a trattenermi e scoppio a piangere. «Sono sempre triste. Sempre. Voglio un bambino mio.» Lui è altrettanto sconvolto. Mi dice che farà qualunque cosa, tutto quello che desidero, per evitarmi questa infelicità. Io ripeto che voglio avere un figlio. Lui mi chiede se sono sicura. Rispondo di sì. R. non lo è, ed è la sua incertezza a permettermi di avere la meglio. «Okay» dice.
La prima volta che facciamo sesso non protetto è davvero strana. Cerchiamo di fingere che non sia così. Ci abituiamo. Crediamo entrambi che se lo facciamo un sacco di volte la gravidanza arriverà. Ma il divertimento e i giochi, fare sesso tutto il tempo, dopo un po’ vengono a noia, mentre i mesi passano e inizio a chiedermi perché spermatozoi e ovuli siano così recalcitranti a fondersi.
Poi, dopo otto mesi di tentativi, come si suol dire, ho un ritardo. Me ne accorgo soltanto dopo, in un’altra città, a un convegno. Arrivo all’albergo, e mentre sto disfacendo le valigie impreco perché ho dimenticato di portare i tamponi. Poi mi rendo conto che avrei già dovuto avere il ciclo. Oh. Esco dall’albergo, e come una specie di agente segreto inizio ad allontanarmi dal luogo del convegno, alla ricerca di una farmacia dove non rischi di incocciare in uno dei partecipanti. Compro un test di gravidanza, me lo infilo in borsa e torno indietro, sudando leggermente. Durante l’aperitivo di benvenuto me ne sto lì, tra vassoi di tartine e vino bianco tiepido che passano avanti e indietro, e riesco solamente a pensare a quando potrò scusarmi e andare in bagno. Rimango seduta in un cubicolo strettissimo per un tempo che mi sembra eterno e poi con mani tremanti scarto il test. Leggo le istruzioni, faccio pipì sul bastoncino e aspetto. Le donne vanno e vengono, tirano l’acqua e si lavano le mani. Cerco di non guardare fino a quando la lancetta dei minuti mi dice che ho aspettato abbastanza. È un po’ sbiadita, ma vedo la linea che indica che il test è positivo. Porca miseria. Che cosa ho fatto? Me ne vado. In albergo, faccio un altro test che è di nuovo positivo, quindi, con il cuore a mille, chiamo R. Sto per impazzire ma lui sembra calmo, anche se è fisicamente lontano. Mi rassicura, e mentre ascolto la sua voce inizio a credere che possiamo farcela. Però non riesco a dormire, ossessionata dal terrore di avere appena perso il controllo della mia vita.
La mattina dopo tengo la mia relazione e non batto ciglio quando PowerPoint non funziona, perché in realtà mi sto chiedendo che cosa diavolo ci faccio lì. Ma quando faccio un terzo test, perché, be’, io sono fatta così, risulta negativo. Non capisco. Com’è possibile che i due di ieri fossero positivi e quello di oggi negativo? Prendo di nuovo il telefono per riferire la novità e il mio compagno, sempre calmo, mi dice che comunque vada non è un problema. Riesco a superare la giornata e trascorro un’altra notte insonne in albergo. La mattina dopo mi invento un’infezione urinaria e abbandono il convegno, torno a casa.
R. mi accompagna dalla guardia medica e il dottore per sicurezza mi fa qualche esame, ma sono tutti negativi; dice che probabilmente si è trattato di una «interruzione di gravidanza». Mi preleva del sangue, mi suggerisce di rilassarmi e dice che la prossima volta andrà a buon fine. Un po’ sconvolti dal bombardamento di informazioni contraddittorie delle ultime quarantotto ore, andiamo alla festa di compleanno di un amico e ordiniamo delle birre medie, senza sapere bene se stiamo festeggiando per il sollievo o annegando il nostro dolore. Il giorno dopo la botta di adrenalina è passata e siamo entrambi avviliti. E delusi. Mi rendo conto che sono in lutto. R. è d’accordo con me. Vogliamo essere genitori ed è ora di smetterla di lasciare tutto al caso.
Vado in farmacia e compro metà della loro scorta di test di ovulazione, cercando di ignorare la scatola con la fotografia irritante di un bambino sorridente e sperando di non incontrare qualcuno che conosco. Mi chiedo come ho fatto a diventare il tipo di persona che compra roba del genere. Appena arrivo a casa apro il pacchetto per iniziare a registrare il mio ciclo e scoprire quali sono i «giorni ottimali per il concepimento». Leggo e rileggo le istruzioni. Non riesco a credere che i giorni ad alto tasso di fertilità siano soltanto tre al mese. Tre? Ricordo il panico che scatenavano a scuola, quando avevo tredici anni, durante il corso obbligatorio di educazione sessuale. Ci terrorizzavano con l’idea che potevamo restare incinte, ci avevano convinto che se un pene si trovava anche solo in prossimità della nostra vagina saremmo rimaste fregate. Ma adesso che voglio restare incinta ho la magica rivelazione che la finestra utile per concepire un bambino, cazzo, è microscopica.
Inizio a tener traccia del ciclo e attraverso tutte le fasi, dall’entusiasmo alla noia al risentimento. Mi tengo monitorata, ma rifiuto l’allegria forzata dei calendari della fertilità online che ogni mese si animano di immagini di neonati angelici e cuoricini. Allo stesso modo rabbrividisco quando leggo i consigli utili di un manuale sulla fertilità su come insegnare al proprio compagno a osservare i «segnali» fisici. Digli di dirti quando gli sembri in fase premestruale. Be’, non me lo sogno nemmeno. Forse anche perché alcuni segni premonitori imbarazzano perfino me.
Leggo che per garantire la motilità ottimale degli spermatozoi il muco cervicale dovrebbe somigliare all’albume d’uovo. Bene. Prima di adesso non sapevo nemmeno di avere del muco cervicale, ma ormai sono diventata una raffinata estimatrice della sua consistenza. Mi preparo una frittata giusto per ricordarmi come sono fatti gli albumi. Poi comincio a tastare il mio corpo, a inserire un dito e, seguendo le istruzioni del manuale, a estrarre il fluido per annotare le mie osservazioni. Certi giorni è denso e bianco, certi altri oleoso e viscido. Quelli sono i giorni buoni. Scrivo tutto nel diario, vicino ai miei orari di insegnamento. Alcuni segni criptici indicano niente muco, troppo muco, muco perfetto. E quando arriva il momento di annunciare a R. che è il giorno giusto per l’impianto, scopro che quello che ho letto è vero: agitare davanti a un uomo un test per l’ovulazione su cui hai appena fatto pipì per invitarlo a fare sesso, in realtà non è sexy.
Si tratta di un comportamento risibile, va riconosciuto; anzi, ridere dell’assurdità di tutto questo sembra l’unica risposta sensata. Se non ci avete mai provato, lasciate che vi dica che fare un test di ovulazione quando sei al lavoro, tra una lezione di teatro d’avanguardia europeo e l’altra, cercando di ricordarti di non fare pipì per quattro ore in modo che il responso sia esatto, è ridicolo e insieme stressante. Sfortunatamente la mia maniera di affrontare lo stress (cioè vuotare il sacco con le amiche davanti a un bicchiere di vino) per ora non è un’opzione praticabile, visto che per metà mese tengo le dita incrociate sperando di essere rimasta finalmente incinta. E quando parlo del momento decisamente poco sexy del test di ovulazione a un’amica, una di quelle con tre bambini che ha concepito «senza nemmeno provarci sul serio», lei mi accarezza il braccio con aria piena di compatimento. Allora giuro solennemente che non condividerò mai aneddoti sui miei fluidi corporei con le amiche fertili e mi rendo subito conto che l’infertilità è un tipo di solitudine molto particolare.
Anche se pochissimi sanno che ci stiamo «provando» (oh, comincio davvero a odiare questa parola), gli amici al corrente ci offrono consigli di vario tipo, e si va dalle migliori posizioni sessuali al problema dell’utero retroverso (ma come fai a sapere se ce l’hai così?) alla battuta che fare sesso da ubriachi o, incredibilmente, sotto l’effetto di droghe, assicura il concepimento. Sono così paranoica sui motivi per cui non resto incinta e ho così tanta paura di sbagliare tutto che una sera mi ubriaco apposta prima di saltare addosso a R., tanto per verificare che gli amici non abbiano ragione. Un’altra amica mi sconvolge spiegandomi tutta beata che dovrei prendere in considerazione l’adozione, perché lei conosce parecchie coppie che hanno concepito naturalmente soltanto dopo aver deciso di adottare. Non può dire sul serio. Cerco di cambiare argomento di conversazione.
Alla ricerca di compagnie più congeniali, comincio a navigare sul web. I forum sulla gravidanza sono una cosa nuova, per me, e mi metto a scandagliarli, con il desiderio folle di trovare una risposta sullo schermo. Inizio a riconoscere gli acronimi, a modo loro utili, bizzarri e un pochino tristi. Per non scrivere «sesso», scrivono BD (baby dance), per non scrivere «niente di fatto», scrivono PAN (peggio che andar di notte), e quando non osano scrivere quello che speriamo tutte, scrivono BDC (botta di culo). Mi commuovo quando alcune donne postano lunghissimi messaggi sulla loro infertilità, sulle speranze che lentamente svaniscono, su come si puniscono per avere fallito. Mi commuovo quando leggo i commenti ai post, nei quali le donne cercano di sostenersi, di incoraggiarsi, di spiegare che non esistono colpe.
I mesi si susseguono finché non passa più di un anno dal momento in cui abbiamo deciso che un bambino sarebbe stato una bella cosa. Non sono ancora rimasta incinta. Il medico di famiglia mi dice di rilassarmi e poi di rilassarmi ancora un po’. Mi suggerisce di smettere di pensarci, perché ovviamente pensarci troppo spinge spermatozoi e ovuli a disobbedire all’imperativo biologico. Mi sembra un consiglio incautamente vicino ad affermare che la mente di una donna è pericolosa per il suo corpo. Fisso un appuntamento con un medico diverso, ma quando le chiedo come la vede, mi risponde che purtroppo resta la fecondazione in vitro e nient’altro, e «quella costa molto». Si offre di stamparmi il dépliant «Rimanere incinta» preso dal sito del ministero della Salute. Le rispondo no grazie, di stampate ne ho fin troppe.
E poi resto incinta.
Mentre torno dall’ambulatorio del medico (stavolta non voglio correre rischi con i test casalinghi), io e R. non riusciamo a smettere di sorridere. Lui mi prende sottobraccio e mi guarda negli occhi. Mi rendo conto che sorride e piange al tempo stesso, dice che ci ha pensato e sa che per me sarebbe importante, e mi propone di dare al bambino il mio cognome. È un momento prezioso e pieno di gioia. Per tanto tempo mi sono chiesta (a voce alta) perché i bambini prendano automaticamente il cognome del padre. Il suggerimento di R. significa che forse le nostre vite cambieranno, ma che noi non cambieremo. La stessa settimana in cui la mia gravidanza viene confermata stipuliamo un rogito per acquistare una casa. Una casa grande abbastanza per una famiglia di tre persone.
Ma molto presto compare il sangue. Ogni mattina. Quantità minuscole, è vero, ma abbastanza da farmi preoccupare. «Si rilassi» dice l’infermiera. «Probabilmente è sangue vecchio» dice il medico. Vorrei tanto crederci, ma la paura mi spinge a guardare su internet. Faccio una ricerca online, «emorragia in gravidanza», mentre aspetto di incontrare un’amica, e poi di nuovo mentre aspetto l’autobus e ancora al supermercato, nella corsia della pasta, dopo aver appoggiato a terra il cestino. Non dovrebbe uscire sangue ogni giorno. Ed è molto rosso per essere vecchio. Internet dice che è uno dei primi segni di aborto spontaneo. Torno ai forum sulla gravidanza. Da un lato mi permettono di credere che va tutto bene, dall’altro mi confermano quello che dentro di me so già, e cioè che non va bene. Non sono sola, questo è certo, trovo un milione di post, leggo di storie finite bene e finite male. Ne seguo alcune che somigliano alla mia, e poi, quando un thread si interrompe, muoio dalla voglia di sapere perché. Sono troppo impegnate con la gravidanza o troppo tristi per scrivere? Credevo di avere superato l’ansia, ormai, ma invece di rilassarmi sono passata dal desiderare di essere incinta al bisogno di esserlo ancora.
La gravidanza è talmente all’inizio che non lo sa quasi nessuno, tranne noi. Non l’ho nemmeno detto a mio padre, perché deve affrontare anche lui un dramma clinico, il post-insufficienza epatica. Durante le normali conversazioni con amici e colleghi, oppure durante le riunioni, mi viene voglia di mettermi a urlare che sono incinta e cosa significa per me. Ho bisogno di condividere i sintomi, le piccole prove (i jeans mi vanno decisamente più stretti), le verità rassicuranti (le due lineette) e gli effetti collaterali (mi gira la testa continuamente mentre il mio corpo si prepara fabbricando sangue nuovo). È come una pressione che monta dietro le labbra e si blocca in gola. Una sera, nel foyer soffocante di un teatro, ho un mancamento. Un amico premuroso mi offre un brandy. Sta soltanto cercando di essere gentile, ma io me ne vado borbottando una scusa in tono furioso. Il mancamento mi spaventa ancora di più e la mattina dopo, dal letto, chiamo la maternità dell’Holles Street. Racconto del precedente aborto spontaneo e che sanguino ogni mattina. La donna al telefono mi dice di presentarmi in ambulatorio, dove potrò parlare con un’ostetrica. Questo significa chiedere mezza giornata di ferie e trascorrere un paio d’ore in fila, ma almeno inizio a calmarmi.
Naturalmente adesso vorrei prendermi a calci per non avere sottoscritto una polizza sanitaria privata, di quelle che permettono l’accesso a numeri verdi dedicati e a corsie preferenziali per gli appuntamenti. Perché, perché non ce l’ho anch’io? Mia madre mi aveva consigliato di farla, gli amici mi avevano parlato dei vantaggi dei diversi pacchetti. Sono andata a trovare le amiche e i rispettivi neonati nelle loro stanze semi-private e le ho sentite parlare di visite con specialisti, il tutto pagato dall’assicurazione sanitaria. E io? Niente, non me la sono fatta. Che idiota.
In sala d’aspetto sembrano tutte esperte in materia, io sono l’unica senza pancia. Metto una crocetta sul quadratino di primipara attempata, definizione medica ufficiale per le donne che fanno il primo figlio a trentacinque anni suonati. Ci siamo portati qualcosa da leggere e R. sembra effettivamente in grado di farlo, ma io passo quasi tutto il tempo a guardare le altre e i manifesti affissi alle pareti, di cui molti riguardano il fumo in gravidanza o i vantaggi dell’allattamento, mentre altri riportano numeri verdi per donne che subiscono violenze in famiglia. Quando tocca a me, entriamo in una stanzetta e spiego la situazione alla dottoressa (scoprendo che oggigiorno le ostetriche sono merce rara). Vicino al lettino viene collocato l’ecografo e ci prepariamo a fare quella cosa che ho sempre visto in televisione. Dopo qualche istante di ansia in cui mi preme ripetutamente la sonda sull’addome ricoperto di gel, la dottoressa trova il feto, chiaramente delineato, e nel punto esatto in cui deve stare. Meno male. Poi però mi dice che la macchina è troppo vecchia, quindi non è possibile ottenere un’immagine abbastanza buona. Mi chiede di tornare per un’altra visita al reparto di medicina fetale. Stampa l’immagine del mio utero con quella macchia bianca che significa «bambino». La prendo e mi rendo conto che sto tremando.
Alla visita successiva, qualche giorno dopo, aspettiamo insieme in corridoio. Mentre siamo lì la direttrice dell’ospedale ci passa davanti, mette in ordine alcuni fogli su un carrello vicino, e poi si gira a chiedere se c’è qualcuno che si sta occupando di noi. La riconosco, l’ho vista al telegiornale. Rispondo che va tutto bene, anche se vorrei aggiungere che i battiscopa di epoca vittoriana sono lerci. Nella zona per il triage del reparto di ginecologia ritrovo la dottoressa del piano terra insieme a un’altra dottoressa più anziana che, scopro, lavora nella mia stessa università. Per un istante spero che la coincidenza la disponga positivamente nei miei confronti, come se il fatto di piacerle potesse fare la differenza. Stavolta si tratta di un’ecografia transvaginale. Fingo di averne già fatte e seguo le istruzioni: mi tolgo i jeans e le mutande e mi stendo a piedi uniti e ginocchia divaricate. Mi chiedo che cosa starà pensando R., che è seduto vicino al lettino. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Appunti per me stessa
  4. Appunti sull’intemperanza
  5. Gli anni del concepimento
  6. Parlarsi/Non parlarsi
  7. Appunti sul sangue e altri crimini
  8. Qualcosa di me
  9. Cose non in programma
  10. Ringraziamenti
  11. Copyright