Decisi di non depilarmi mai più.
Il momento della decisione è importante: dalla pubertà e fino a quel giorno, avevo trascorso la maggior parte della vita senza depilarmi, ma dietro a questa scelta non c’era la consapevolezza di sfidare qualcosa. Come molte donne, accettavo di dovermi radere se avevo intenzione di mostrare le gambe, le ascelle o l’inguine in pubblico, altrimenti rimandavo. Dopo la doccia, giocherellavo con i peli delle gambe (che a forza di strapparli e tagliarli erano sempre più ispidi) e pensavo: “Uno di questi giorni mi tocca depilarmi”, ma poi lasciavo perdere fino a quando non arrivava il caldo.
Durante l’adolescenza, guardavo affascinata le gambe impeccabili e apparentemente lisce di alcune amiche e mi chiedevo come facessero. I miei peli erano ribelli, folti e neri. La ceretta non li strappava via tutti e, se passavo la mano sopra la pelle irritata e ancora calda per via della cera, continuavo a sentirla ruvida e per niente sensuale. Dopo pochi giorni ero punto e a capo. Ogni volta l’estetista giurava che aveva trovato una nuova tecnica grazie alla quale non sarei dovuta tornare da lei per almeno un mese, e ogni volta era una bugia. Quando ormai era innegabile che, sì, avevo di nuovo le gambe pelose, allora tiravo fuori i pantaloni lunghi ed evitavo la spiaggia fino all’appuntamento successivo: ed ecco ripetersi la tortura della cera calda; la pelle arrossata e sensibile; i peli che facevano capolino, minacciosi.
Le creme depilatorie, quelle sì che mi lasciavano la pelle bella liscia, ma era un’illusione che durava solo poche ore. I peli crescevano ancora più in fretta rispetto a quando facevo la ceretta ed erano più ostinati, quasi arrabbiati per quell’aggressione. Con il rasoio, che era l’altra opzione, diventava un’operazione lunga e noiosa. Spesso mi tagliavo e il prurito delle ferite non mi abbandonava finché non veniva sostituito da quello della ricrescita.
Questa totale disfatta, questa completa incapacità di tenere a bada i miei peli, era ben più di una sconfitta pratica che mi condannava a indossare i pantaloni lunghi e a restare giorni lontana dalla spiaggia: era la sconfitta palese della mia femminilità. Già avevo la sensazione di imbrogliare nel mio ruolo di ragazza: lo interpretavo al meglio delle mie possibilità, per paura di perdermi e di ritrovarmi poi ancora più sola di quanto non fossi, ma sapevo che i capelli lunghi e i vestitini erano una bugia che riuscivo a sostenere a fatica. Che per giunta i peli si intestardissero a ricoprirmi le gambe, che mi spuntassero fuori in modo incontrollabile e sempre più abbondanti, che fossi impotente di fronte alla testarda frondosità della natura, era l’inequivocabile segno che no, non ero una vera donna.
DURANTE L’ADOLESCENZA, GUARDAVO AFFASCINATA LE GAMBE IMPECCABILI E APPARENTEMENTE LISCE DI ALCUNE AMICHE E MI CHIEDEVO COME FACESSERO. I MIEI PELI ERANO RIBELLI, FOLTI E NERI.
Mia madre diceva che era colpa mia. Non ero abbastanza disciplinata con la ceretta, soccombevo troppo spesso al rasoio. In realtà fare la ceretta era costoso e le mie finanze di adolescente erano scarse. Lei aveva quattro peli in croce, fini e chiari, e se li toglieva solo una volta all’anno. Forse, se avessi ereditato questa sua caratteristica, non avrei sentito il bisogno di problematizzare la depilazione, di cercare un modo per liberarmene. Quanto più è facile per noi adattarci a un canone, tanto meno insopportabile ci sembra ciò che ci impone. Ma adattarmi non è mai stato il mio forte.
Ci impiegai parecchio a capire che le pubblicità dei prodotti per la depilazione – in cui una donna senza peli si depila per continuare a essere senza peli – erano una farsa e che a molte altre donne succedeva proprio come a me. Di fatto, lo scoprii attorno ai diciassette o diciotto anni, quando iniziai ad andare a letto con donne più libere di me che mi invitavano ad accarezzarle senza preoccuparsi di essere più o meno “presentabili” e che mi offrivano le loro gambe aperte senza nemmeno prendere in considerazione cosa avrei potuto pensare del loro inguine. Tutta questa indifferenza mi contrariava, mi irritava un po’ che non stessero alle regole del gioco, ma scoprire che esistevano fu straordinario. L’idea che i corpi possano sentire, vibrare e vivere al di là delle norme mi scosse nel profondo al di là delle norme e desiderai avere la forza di essere uno di questi corpi. Ma invece, nonostante l’importanza della rivelazione, continuai a cercare di sembrare “normale”. Quantomeno se indossavo il costume o i pantaloncini corti. Quantomeno se avevo addosso un vestitino. Quantomeno se sapevo che mi sarei spogliata per la prima volta davanti a una persona. E andai avanti così per molti anni, almeno fino ai quaranta. A quel punto, un giorno decisi che non mi sarei mai più depilata.
QUESTA TOTALE DISFATTA, QUESTA COMPLETA INCAPACITÀ DI TENERE A BADA I MIEI PELI, ERA BEN PIÙ DI UNA SCONFITTA PRATICA CHE MI CONDANNAVA A INDOSSARE I PANTALONI LUNGHI E A RESTARE GIORNI LONTANA DALLA SPIAGGIA: ERA LA SCONFITTA PALESE DELLA MIA FEMMINILITÀ.
Da fuori, non cambiò praticamente nulla. Le persone con cui condividevo letto e intimità erano abituate alla frondosità dei miei riccioli fitti, diffusi e odorosi quanto il desiderio stesso. Ma io sapevo che avevo deciso di non depilarmi e che quei peli non erano occasionali. Non erano un incidente di percorso che a un certo punto avrei corretto, non erano squatter della mia pelle. Avevo riconosciuto loro il ruolo di abitanti legittimi del mio corpo e intendevo autorizzarli a starmi accanto in salute e in malattia, in spiaggia e in piscina, finché morte (preferibilmente la loro) non ci avesse separati.
La prima volta che uscii di casa con i pantaloncini e i peli (molti peli, molto lunghi) sulle gambe, mi sentivo assolutamente vulnerabile ed euforica. Non sapevo cosa sarebbe successo, ma stavo contravvenendo a una regola molto rigida. Una regola per rispettare la quale avevo investito ore, soldi, sudore e lacrime. Ero orgogliosa della mia decisione e, al tempo stesso, mi sentivo ridicola per l’innegabile piccolezza del gesto. Ogni giorno migliaia di donne lottano per cause nobili, nobilissime, importantissime e io ero orgogliosa perché mettevo in mostra quattro peli.
Alla luce fosforescente della metropolitana, le mie gambe sembravano più brutte ancora che sotto il chiarissimo sole di quella mattina di giugno. Le accarezzai con le mani, come a voler lisciare i peli. La signora seduta davanti a me mi guardava le gambe, ipnotizzata. Quando si accorse che la stavo osservando a mia volta, ebbe una reazione di sorpresa, o di imbarazzo, quasi l’avessi colta mentre faceva qualcosa di sbagliato. Spostai le gambe indietro, sotto il sedile, per cercare di nasconderle il più possibile.
Ero uscita di casa pensando che finalmente mi stavo liberando dagli obblighi di genere e che stavo affermando in modo definitivo la mia libertà di essere così com’ero. Ma invece che euforica e felice, mi sentivo brutta e a disagio. Il percorso più importante – la vera accettazione di me stessa per quella che ero, e non come una bozza della mia versione ottimale, non tra virgolette, non in modo occasionale perché poi domani mi depilerò – era appena iniziato. E i peli sulle gambe erano soltanto la punta dell’iceberg.