II. Lo spazio dell’impero
Ogni carta è un progetto del mondo e il progetto di ogni carta è quello di trasformare la faccia della terra a propria immagine e somiglianza1.
Noi non abbiamo finito. Gli editori lo sentono così bene che non fanno più gli atlanti a pagine legate, ma a pagine staccate, in modo da non aver bisogno di rifare tutto il volume2.
1. La cartografia e l’ideologizzazione dello spazio.
Un’azione di conquista di un territorio segna l’inizio di una ridefinizione dei confini e in questo processo la scienza cartografica assume un ruolo di primaria importanza, non solo per una semplice registrazione della trasformazione ma anche e soprattutto per la successiva culturalizzazione. Per due essenziali ragioni: la mappa è un elemento strategico efficace che ferma convenzionalmente, nel simbolo cartografico, i cambiamenti avvenuti sul territorio e in un certo senso li precede. Secondariamente, come tutti i simboli, quello cartografico è destinato a rappresentare una figura socialmente riconosciuta, un’immagine in cui una comunità può identificarsi, ravvisare il proprio spazio di diritto, pensarsi entro determinati confini, con la stessa efficacia di un logo, per dirla con Anderson3, e facendo affidamento su un certo valore autentificante conferito dal regime scientifico al quale la mappa appartiene. L’operazione del cartografare è dunque una conquista dello spazio, o meglio è un atto rappresentativo per «ridurre il mondo a spazio»4.
Quest’atto di riduzione offre la percezione delle dimensioni del limite, del confine con il quale il soggetto guarda il mondo, la totalità. E questi confini vengono disegnati su un piano, una tavola, dove si può indicare, piantare dei segni, proiettare le proprie ambizioni di viaggio, di conquista, o semplicemente immaginare le distanze. Questa proiezione sul piano è d’altronde presente nell’etimologia della parola «mappa» che in latino significa «tovaglia», un piano orizzontale su cui vengono ridotte le discontinuità del mondo e che crea un’immagine che porta lo spettatore a «far fare»: indicare, calcolare distanze, riconoscere e stabilire relazioni fra luoghi, selezionando i vari punti di ancoraggio.
Sebbene questa sia in fondo l’efficacia di qualsiasi immagine, tra lo statuto della mappa e quello del dipinto (e del resto qualsiasi rappresentazione che faccia uso del dispositivo della prospettiva) c’è una fondamentale differenza: «una volta completata, la carta geografica può essere arrotolata, srotolata, distesa su un tavolo, appesa ad una parete […] Qualunque ne sia l’impiego, non offre mai una vista attraverso, come nel caso del quadro, ma una vista “su”»5. Questo spazio così costruito diventa un nuovo spazio da semantizzare, da descrivere con un certo linguaggio, e su cui un’intera collettività proietta la propria immaginazione. La cartografia, o l’immagine che ne fa uso richiamandola più o meno direttamente, è quindi depositaria di una forte efficacia referenziale, poiché la carta, quando si basa sulla convenzione mimetica della scala, ha la capacità di indicare proprio quel determinato posto, quello spazio del mondo, ma ha anche una capacità immaginativa, nel senso che fornisce all’osservatore la possibilità di proiettare un’ampia gamma di significati: un oggetto, cioè, che sollecita la cooperazione immaginativa del lettore6. E grazie alla chiarezza geometrica del suo messaggio tende a favorire la memorizzazione.
Si può arrivare ad affermare che ogni operazione cartografica è in un certo senso la «fondazione» di un territorio, attraverso le linee di confine, i punti di riferimento, le relazioni fra le distanze, gli eventuali nomi, e tutti gli svariati simboli che una carta può contenere. Se pensiamo all’opera cartografica come a un rituale di fondazione, possiamo allora trovare un proficuo parallelismo tra l’immagine della mappa e le tracciature fisiche di solchi sul territorio per segnare i confini di nuovi insediamenti. Durante l’epoca fascista, la prima prova di questa retorica appartiene alla costruzione delle nuove città nell’Agro pontino, una colonizzazione interna di un territorio malsano e inospitale e una delle opere che dette vita a una delle forme di propaganda più riuscite e a una delle assiologie valoriali più emblematiche del ventennio. La bonifica del territorio fu un elemento centrale della propaganda fascista, diventando un simbolo ricorrente della politica del regime e della sua strategia di modernizzazione anche al di là del contesto territoriale. Il concetto di bonifica fu infatti inserito nel lessico di altri ambiti semantici come la cultura e l’organizzazione sociale, estendendo il progetto di «purificazione», corollario di quello di bonifica, fino al punto più aberrante, quello razziale, a partire dal rapporto tra cittadini e sudditi dell’impero fino ad arrivare alle leggi del 19387.
L’Agro pontino rappresentava in effetti un vero e proprio blank space di conradiana memoria, uno spazio vuoto, dato che anche nelle mappe non venne segnalato fino alla costruzione delle nuove città, alla stregua delle rappresentazioni cartografiche dei territori africani prima della colonizzazione. Furono cinque le città costruite negli anni trenta in questa zona: Littoria (1932), Sabaudia (1933), Pontinia (1934), Aprilia (1936) e Pomezia (1938). Bonificare l’Agro pontino costruendo città all’interno di perimetri solcati dove far svettare in pochi mesi la torre della Casa del fascio: questa è l’operazione che imposterà concettualmente più di altre la retorica fascista e che troverà una forte risonanza nelle colonizzazioni esterne. Il regime si trova infatti davanti a una penisola in cui alcune aree sono a mala pena esplorate, con uno spazio vitale da far emergere come spazio fascistizzato, aree culturalmente vuote dove imporre la grammatica della dittatura. L’opera di fascistizzazione sembra quindi trovare nel territorio e nella sua trasformazione una fonte di propaganda molto efficace che si presta ad essere presa a modello per il futuro: non a caso le «colonizzazioni» interne ispirarono i piani urbanistici dell’impero. Questo parallelismo era esplicito nelle parole del noto giornalista Giorgio Maria Sangiorgi:
L’Impero è la vittoria, la più grande per ora, di tutta una serie di principi sociali, economici, politici, militari, che formano la dottrina stessa del fascismo: l’etica dell’Impero non si dissocia dall’etica fascista, in quanto è lo stesso motivo che ci induce a fondare città nell’Agro redento ed a colonizzare l’Etiopia8.
L’aspetto sacro e rituale di questi processi viene sottolineato dalla presenza della benedizione durante le pose della prima pietra. Un esempio ci è dato dall’estratto del cinegiornale Luce del 7 luglio 1932, riguardante la futura città di Littoria, dove il montaggio che documenta l’evento innesta la teatralità cattolica su quella fascista, creando un cortocircuito tra valori autolegittimanti poiché tendenti alla mitologia dell’universalità9. Il prete, probabilmente a conclusione della sua predica, pronuncia una frase che rientra perfettamente nella retorica demografica del regime: «Se si vuole che gli italiani siano occupati in opere di pace per l’incremento della nostra nazione»: a queste parole, nel piano sequenza cinematografico, segue senza soluzione di continuità il grido ripetuto della folla degli astanti: «Per il Duce, Eia Eia Alalà»10. Il blocco di travertino, sorretto da una catena agganciata all’impalcatura che delimita l’area del rituale, si trasforma in un elemento «scenico» fondamentale per i due discorsi pronunciati da posizioni speculari: diventa una sorta di altare improvvisato per l’omelia del prete e, sull’altro fronte, un arengario altrettanto provvisorio per il discorso del gerarca fascista, infarcito di rievocazioni della Roma antica, a cui paradossalmente segue solo un «laico» applauso.
Ma la ritualizzazione della fondazione del territorio attraverso la sua fascistizzazione si può ritrovare anche in altre occasioni non direttamente riconducibili alla colonizzazione, interna o esterna che sia, a dimostrazione dell’esistenza di una vera e propria figura ricorrente nella rappresentazione che il regime dava di sé e della sua ideologia di redenzione, applicata con lo stesso metro sui territori («la redenzione della terra» faceva parte del linguaggio propagandistico della bonifica «integrale») e sui popoli. Così viene commentata l’inaugurazione degli edifici di Cinecittà da parte di Mussolini:
Un amplissimo palco coperto, con la sua veranda, è stato eretto per la circostanza. Dalla veranda si discende, per pochi gradini, sul terreno «fino alla capra» che sorregge con le sue catene il piccolo blocco di travertino, pietra di fondamento, che reca scolpita semplicemente la data odierna fra due fasci littori. Sul palco, alle pareti rivestite di panno cremisi, sono appesi i disegni prospettici della cittadella e dei suoi singoli edifici, mentre un grande plastico colorato mostra, quale sarà nel suo complesso, la cittadella medesima.
Dinnanzi al palco, sul terreno erboso, è tracciato appena un ampio solco rettangolare: una centuria di operai, presso il solco, impugna i badili, pronta ad approfondirlo quando il Duce darà il segnale. […] Poi il Duce si è portato presso la maestranza, ha dato il segnale dell’inizio del lavoro e ha assistito all’approfondirsi del solco perimetrale della cittadella11.
Il titolo di questo articolo (pubblicato in piena campagna d’Etiopia), d’altro canto, parla di «fondazione» della città del cinematografo e quindi non nasconde il fatto che siamo proprio di fronte a un caso che rimanda ai rituali tipici di colonizzazione del territorio. La topologia del rituale, il palco rialzato dal quale impartire l’ordine, il gruppo allineato di lavoratori ordinati in una fila che ricalca quella del perimetro della zona da edificare e la tappa finale dello scavo del solco sono la traduzione di molte immagini che illustrano il tema del controllo del territorio sfruttando la citazione del dispositivo cartografico. Il punto di vista dell’articolo de «La Tribuna» ci riporta una visione dal basso verso l’alto, quella dal suolo al palco rialzato, per poi estendere la visione dall’alto verso il basso, a volo d’uccello, per alludere infine al «solco perimetrale» tipico di una visione zenitale, a pianta, della superficie terrestre. Viene quindi tradotta l’opera cartografica in un rituale di fondazione, fino a creare un intertesto che contribuisce a formare una vera e propria cultura della colonizzazione, facendo sì che rappresentazione e rituali funzionino uno in sostituzione dell’altro, nell’obiettivo comune di creare il kosmos fascista, un’entità chiusa e ben organizzata. E questo assetto vede primeggiare un soggetto collettivo agli ordini del duce, quello dell’esercito di «contadini/muratori/soldati» che alzano la vanga, la pala o la baionetta in segno di acclamazione.
Questo esempio ci aiuta a capire meglio come intendere l’atto cartografico consustanziale a quello di tracciare confini, fisici o simbolici poco importa: non come un atto esclusivamente confinato alle stanze dei cartografi ma, ancor di più in un’epoca come quella imperiale, come una vera e propria figura retorica ricorrente di un certo fare po...