Stragisti
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Stragisti

La storia vera di una famiglia di Mafia

  1. 300 pagine
  2. Italian
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Stragisti

La storia vera di una famiglia di Mafia

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Sono gli anni del sangue. Tra il 1992 e il 1993 Cosa nostra ingaggia una guerra contro lo Stato. 23 maggio 1992, Capaci, l'attentatuni a Giovanni Falcone. Cinquantasette giorni dopo, via D'Amelio: muore Paolo Borsellino, muoiono cinque uomini della scorta. Un anno dopo, ancora a maggio, il fallito attentato a Maurizio Costanzo, pochi giorni dopo a Firenze, la strage di via dei Georgofili, e poi ancora la bomba di via Palestro, a Milano.
Questa la fredda cronaca. Dietro la secca cronologia degli eventi, ci sono le strategie della mafia di quegli anni e una «foto di famiglia» che Lirio Abbate, con documenti inediti, storie segrete, e una narrazione travolgente, ci aiuta a ricomporre: è l'immagine ravvicinata degli Stragisti, gli uomini e le donne che, sotto l'impulso del Capo dei Capi, Totò Riina, hanno insanguinato la Sicilia e il Paese intero. I due fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, sono al centro di questa cornice, affiancati da vicino dal loro «gemello diverso», Matteo Messina Denaro. I primi due verranno arrestati nel 1994, e il loro fermo coinciderà con la fine della strategia stragista. Il secondo, ancora latitante, è l'ultimo depositario dei segreti di quella stagione.
Oggi, a trent'anni da quegli eventi rimasti scolpiti nella memoria collettiva, Stragisti ci conduce nelle strade di Palermo, di Firenze, di Milano, di Roma, della Costa adriatica e della Toscana in cui i boss si muovevano quasi indisturbati; ci svela i meccanismi di potere all'interno della famiglia Graviano, getta luce sui misteri di una latitanza dorata e sul ruolo della sorella, Nunzia, fino a cercare risposta a un quesito assurdo: come è potuto succedere che due boss al 41bis abbiano avuto entrambi un figlio durante la detenzione? Ed è proprio sul carcere ostativo che Lirio Abbate ha ingaggiato battaglia: per la riforma in corso, proprio i fratelli Graviano, ergastolani, potrebbero presto tornare in libertà. A trent'anni dalle stragi per le quali furono condannati.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807906
Parte prima

Gli anni del sangue

Capitolo 1

Una casa come tante

Via Giuseppe Tranchina, civico 22. Zona San Lorenzo. Non è la Palermo che affascina i turisti, gli scrittori, gli artisti. Il Palazzo dei Normanni e i mercati popolari sono lontani da qui, in tutti i sensi.
Però non è nemmeno la Palermo di vicolo Pipitone, un’altra strada a cui la mafia ha regalato una triste notorietà, con la sua atmosfera opprimente di edifici mai completati, segreti e violenza repressa.
No, via Tranchina è un’altra Palermo ancora, più anonima: una zona adesso assalita da centri commerciali e megastore, rivenditori di elettronica e traffico. Niente verde, bisogna arrivare a Villa Niscemi per respirare un po’. L’evoluzione che il quartiere ha subìto gli ha tolto un po’ di anima, ma del resto succede la stessa cosa in tutta Italia, in tutta Europa: i negozi di un tempo muoiono, arrivano le grandi catene. Efficienza e spersonalizzazione. Sono processi lunghi, impercettibili: poi un giorno non riconosci più la tua città e ti chiedi che fine abbia fatto.
Negli anni Novanta San Lorenzo iniziava già a cambiare. Spuntavano i capannoni che poi avrebbero ospitato le catene di abbigliamento e gli ipermercati della grande distribuzione alimentare. Avvisaglie del futuro in agguato. Non c’erano solo attività commerciali, ovviamente.
Via Tranchina è una strada stretta, si snoda breve e sinuosa tra via della Ferrovia e via Ugo La Malfa: una striscia di asfalto che curva e quasi ripiega su se stessa. A un certo punto le macchine rimangono come strizzate tra il muro spoglio di un capannone e un’inferriata verde. A sinistra chiazze di umidità sui mattoni a vista, a destra, al di là della recinzione, un grande spiazzo d’asfalto antistante un complesso scolastico.
Un istituto color rosa salmone, la vernice sbeccata in più punti, grosse scale antincendio in fondo alla torre più lontana.
Pochi metri più in là la strada si allarga all’incrocio con via Ugo la Malfa. La sensazione di essere rimasti imprigionati si attenua. Ma se si torna indietro, se ci si fa inghiottire di nuovo da quel budello di asfalto, proprio di fronte alla scuola c’è una casa con un magazzino.
Anonima, anche quella. Nel 1992, del resto, l’anonimato è una grande qualità per certe persone.
L’uomo che sta in quella casa non vuole dare nell’occhio. Ha un volto ordinario, tratti regolari, taglio di capelli banale, giusto un filo trasandato. Una persona qualunque. Anonima, appunto. Sarà proprio questa sua caratteristica a rappresentare la salvezza di Cosa nostra, come vedremo.
Si chiama Salvatore Biondino, è un boss ed è il capo del mandamento di San Lorenzo.
La casa di via Tranchina non è certo un palazzo signorile, ma ha un bel giardino. Grande.
È qui che si tengono i summit criminali di più alto livello. Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro: quando bisogna parlare, o quando bisogna semplicemente rendere omaggio a quello che alcuni chiamano «la Belva», ma che per i mafiosi è «il padre di tutti noi», si va lì, a via Tranchina.
Sì, perché Salvatore Biondino è uomo fidato di Salvatore Riina, il capo dei capi. E il civico 22 è una sorta di ambasciata mafiosa, un luogo deputato agli incontri, alle discussioni.
Ma non è solo questo. È anche il board di una multinazionale, dove si prospettano e si chiudono affari dal valore di miliardi di lire; infine, è soprattutto una grande banca, per quanto non risulti in nessun registro, in nessun documento ufficiale.
Sarebbe potuta essere anche un’altra cosa, ovvero un luogo di riscatto e trionfo per lo Stato. Non è andata così, ma avremo modo di riparlarne.
Giuseppe Graviano nel 1992 è un ragazzo di trent’anni, nemmeno. Capo della cosca di Brancaccio, fratello di Benedetto, Filippo e Nunzia, tutti corleonesi doc, è al momento latitante, essendosi già beccato una condanna al primo maxi processo. Basso profilo, quindi, e prudenza, anche se è uno che ama la vita e i lussi. Non si può dire che sia bello ma si veste sempre bene, sempre elegante. Gli piacciono le donne, gli piacciono i soldi. Con Matteo Messina Denaro, il suo gemello diverso, si intende a meraviglia. Stesse passioni, stesso atteggiamento verso la vita.
Capita spesso che Giuseppe si faccia portare dal suo autista all’imbocco della via. Non proprio davanti alla porta del civico 22, no: preferisce scendere un centinaio di metri prima e farsela a piedi.
Anche se di solito è parecchio carico: come si dice in Sicilia, il buon ospite deve bussare con i piedi, perché le mani è bene che le abbia impegnate a reggere qualche dono per il padrone di casa.
Giuseppe Graviano è uno che lo rispetta, il galateo mafioso. E il capo dei capi si merita il meglio di quello che l’economia parallela e distorta dei corleonesi ha da offrire. Nel corso del tempo, per la casa di via Tranchina transitano maglioni di cashmere, scarpe di coccodrillo fatte a mano, camicie di seta, giacche di sartoria. Roba costosa, ma se sai dove rivolgerti non hai problemi a trovare la qualità, e del resto si sa quali negozi sono in mano ad amici di amici: c’è tutto un giro di affari, commercianti che campano grazie alla montagna di soldi che i mafiosi portano nelle loro casse. È chiaro che se poi arriva un boss viene trattato con i guanti bianchi.
Ma Giuseppe non regala solo capi di abbigliamento. Porta anche soldi, gioielli. Tanti, e tanti altri confluiscono in quell’appartamento da vie traverse. Un fiume di quattrini alimentato da una molteplicità di affluenti diversi. Banconote e gioielli. Tanti da comprarci la Sicilia intera, dirà Graviano.
In quei mesi la casa si fa sempre più affollata. A Palermo l’estate arriva presto e se ne va via tardi, già dalla primavera inizia a scendere sulla città, la conquista, l’assedia.
Quando arriva luglio il caldo può farsi intollerabile anche se ci sei abituato. E quel luglio del 1992 sarà molto, molto caldo. Non dal punto di vista meteorologico. Sarà l’estate delle bombe e del terrore. In 57 giorni lo Stato perderà due dei suoi più grandi eroi e l’organizzazione mafiosa dimostrerà tutta la sua terribile potenza.
La strage di Capaci, la strage di via d’Amelio.
Per arrivare fin lì bisogna metaforicamente passare per via Tranchina. Il traffico di persone e idee da quelle parti comincia a farsi sempre più intenso nei primi sei mesi dell’anno. C’è da progettare, da discutere. Bisogna lanciare una sfida che farà tremare il Paese intero.

Tieni, questo è il mio regalo

Curiosa coincidenza, l’autista che porta Graviano in via Tranchina si chiama Tranchina anche lui. Fabio Tranchina. Se la compassione è forse l’ultima delle emozioni umane che siamo abituati ad associare ai mafiosi e a tutto il circo di profittatori, lacchè e corrotti che gravita attorno a loro, Fabio Tranchina merita un’eccezione. L’impressione che lasciano le sue dichiarazioni, le risposte che dà ai giudici, tutta la sua storia personale parlano di un uomo su cui sono precipitate delle responsabilità molto più grandi dei misfatti che ha effettivamente commesso. L’omonimia con la via che ospita i summit mafiosi non è l’unica coincidenza della sua vita, né la più disdicevole. Proprio per niente.
Tranchina è un uomo che si è trovato molto spesso nel momento sbagliato e nel posto sbagliato. Se questo è un crimine, di sicuro lui è recidivo. Ah, ecco un’altra colpa per la quale ha pagato un prezzo esageratamente alto: quando si innamora si lascia trascinare. E quasi sempre gli va a finire male.
La sua storia inizia con una passione giovanile. Tranchina fa il militare presso i Vigili del Fuoco, viene da una famiglia umile, vorrebbe sposarsi con la sua Giovanna ma di soldi non ne ha. Le prospettive che gli si spalancano davanti sono uguali a quelle di centinaia di migliaia di coetanei. Anni di duro lavoro e sacrifici per mettere da parte quei due risparmi su cui poggiare le fondamenta di una famiglia.
Solo che Giovanna non è una ragazza qualsiasi. Ha un fratello brillante e carismatico, per il quale Tranchina spende parole di sincera ammirazione. Lo definisce un cervellone, uno che avrebbe potuto fare l’avvocato, del resto la laurea in tasca ce l’ha. Si chiama Cesare Lupo, ed è un peccato che i dibattimenti processuali sia destinato a conoscerli da imputato, dato che pure lui si beccherà il 41 bis. Lupo è un mafioso importante, uno che sta in alto nell’organizzazione dei fratelli Graviano. È proprio lui a prospettare al giovane militare uno «scatto di carriera» che può fargli aumentare le entrate dalla sera alla mattina. Letteralmente.
In quel periodo Giuseppe Graviano è latitante, cosa che comporta uno sforzo logistico ed economico non indifferente per la cosca: bisogna organizzare i suoi spostamenti, vigilare sulla sicurezza di ogni suo incontro, procurargli da mangiare, fargli il bucato, portarlo da un nascondiglio all’altro.
Insomma, ci vuole un autista tuttofare. Una persona di fiducia, che sappia tenere la bocca chiusa.
Uno sveglio che abbia voglia di lavorare e di tirare su qualche soldo. Se è incensurato e proviene da una famiglia insospettabile tanto meglio, così non rischia di attirare ulteriori attenzioni indesiderate da parte della Polizia.
Tranchina è perfetto. Abile e arruolato in quattro e quattr’otto. Addio alla vita militare, si cambia esercito. Dal 1991 è al servizio del boss. Viene tenuto fuori da tutti gli incontri, con lui i mafiosi sono quasi gentili: per esempio, quando per sbaglio si ritrova a un summit in cui si discute di gente da far fuori è quasi comica la sollecitudine con cui uno degli spietati assassini riuniti nella stanza lo accompagna alla porta, chiedendo agli altri di tacere per un momento, per non coinvolgere uno che non c’entra niente.
I mafiosi lo trattano bene e lui tratta bene loro. In breve tempo viene risucchiato in un mondo parallelo in cui i soldi non hanno più la minima importanza: suo padre al cantiere fa fatica a mettere insieme un milione di lire di stipendio, mentre a lui ne arrivano due e mezzo al mese, tanto per cominciare. E poi ci sono i benefit. Di ogni tipo. Certi giorni i soldi gli piovono addosso, e non è un modo di dire. Lasciamo parlare lui, perché la sua trasognata semplicità racconta bene cosa deve aver provato un ragazzo qualunque che viene scaraventato di peso in un Paese delle meraviglie persino più bizzarro di quello partorito dalla fantasia di Lewis Carroll.
Io dal nulla, senza un passato da mafioso ho avuto questo rapporto con Giuseppe Graviano che è una persona di un carisma straordinario che usava per il male, che però a modo suo era il bene. Cioè risolveva i problemi nell’arco di poco tempo.
Faccio un esempio: quando mi sono congedato dai Vigili del Fuoco dove ho fatto il servizio militare, Graviano mi ha spinto a prendere la decisione a sposarmi con la mia fidanzata. Mi dice: Giovanna la conosci, è di buona famiglia. Quindi che problemi hai a sposarti? Risposi che avevo appena finito il servizio militare e lavoravo da un mese e non avrei saputo come fare economicamente. Graviano mi rispose: quanti soldi ti servono? Gli dissi che non avevo idea, che dovevo fare due conti e che ci sarebbero voluti almeno cinquanta milioni di lire. Lui senza problemi li ha presi e me li ha dati, dicendomi: «vatti a sposare».
Dopo pochissimi giorni la notizia che mi sposavo era arrivata anche a Matteo [Messina Denaro], in quel periodo eravamo sempre nella zona di Mazara del Vallo, e Matteo mi dice: «Fabio so che ti sposi, sono contento». Ha messo le mani in tasca ed ha tirato fuori un mazzo di soldi che in quel momento non li ho nemmeno contati. Matteo mi dice: «tieni, questo è il mio regalo».
Quei soldi li ho contati dopo, quando sono arrivato a casa, ed erano cinque milioni di lire.
Ovvio, la vita insieme a Giuseppe Graviano non è tutta rose e fiori, anzi, è spesso un incubo, un miracolo di equilibrismo tra la paura della Polizia e il terrore che gli incute il suo capo. Stress, responsabilità. I giri da fare qua e là per Palermo, le mille preoccupazioni per essere sicuri che nessuno possa notare l’auto. Le zone da evitare. Le strade da cui tenersi alla larga.
Sensi di colpa e rimorsi. Se sbaglia qualcosa, il suo datore di lavoro rischia di beccarsi un ergastolo. Le regole da seguire sono tassative, guai a infrangerle. E poi il boss non parla mai chiaro, sono sempre mezze frasi, indicazioni e suggerimenti allusivi. Tutti si aspettano che lui capisca al volo, quando non è che un ragazzo catapultato in un ambiente che non conosce.
Deve tenere gli occhi aperti, in ogni circostanza. Spesso lo usano come apripista, deve fare strada e accertarsi che non ci siano posti di blocco, con Graviano subito dietro, in un’altra macchina. Una volta li fermano pure, loro sono sempre sintonizzati sulle trasmissioni della Polizia quindi di solito gli appostamenti riescono a evitarli, ma quel giorno appena svoltano a una curva si ritrovano davanti una pattuglia dei Carabinieri, paletta alzata. Non c’è niente da fare,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Stragisti
  4. PARTE PRIMA. GLI ANNI DEL SANGUE
  5. PARTE SECONDA. GLI ANNI DELLA FAMIGLIA
  6. PARTE TERZA. GLI ANNI DEL CARCERE
  7. Epilogo. «Fino all’annientamento del sodalizio»
  8. Copyright