Il potere del sorriso
eBook - ePub

Il potere del sorriso

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il potere del sorriso

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

"Mi chiamo Arnaldo e prendo il nome dal barone Arnaldo di Villanova Pescorocchiano con passaporto dei Cavalieri dell'Ordine di Malta." Sembra il buffo incipit di una filastrocca, o di una fiaba di Rodari, o comunque di qualcosa che fa molto ridere. Invece no, l'inizio della storia di Arnaldo divertente non lo è affatto: prima, a soli cinque anni, deve lasciare la casa sul mare di Torvaianica per seguire la famiglia in Olanda, dove atterra come un alieno senza conoscere la lingua; poi la madre lo costringe a entrare nella Comunità, un gruppo religioso dai diktat ferrei che punisce ogni slancio di vitalità; infine, quando a dodici anni ritorna in Italia, è costretto ad abbandonare gli amici che nel frattempo aveva trovato e cade in una profonda depressione. Le vicissitudini di cui leggerete in queste pagine - alcune per la verità molto comiche - non finiscono qui, eppure tutte sono servite ad Arnaldo per capire che ridere (e far ridere) ha un potere magico: riesce a portare un filo di luce nei momenti bui, ci consente di guardare le difficoltà dal lato più buffo e renderle più piccole, meno spaventose.
Quando questa consapevolezza arriva a maturazione è una rinascita, una esplosione buona, una felicità che contagia. E nessuno meglio di Arnaldo, oggi uno dei comici più amati nel mondo con una platea di oltre 20 milioni di follower su TikTok, può spiegarci perché il sorriso può migliorare la vita ogni giorno. Quella di tutti noi.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il potere del sorriso di Arnaldo Mangini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Scienze della comunicazione. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807784
1

Nel pianeta dei tulipani

Mi chiamo Arnaldo e prendo il nome dal barone Arnaldo di Villanova Pescorocchiano con passaporto dei Cavalieri dell’Ordine di Malta. E no, non è una battuta né una fantasia scaturita dalla mente di un bambino particolarmente fantasioso. Il barone Arnaldo di Villanova Pescorocchiano è esistito davvero ed è stato il mio padrino di battesimo, nonché un esponente tipico della sua epoca, la Roma degli anni Settanta. Una Roma vivace sia culturalmente sia politicamente. Una Roma a tratti violenta, segnata da anni di lotte studentesche e operaie. La Roma di Pasolini, delle borgate e dei quartieri popolari.
Il Barone era un uomo che sapeva godersela, viveva di espedienti e amava i locali notturni. Soprattutto era un grande amico di mio padre Angelo, una specie di fratello. Li legava un rapporto profondo, nato da un’esperienza spiacevole condivisa qualche anno prima. “Errori di gioventù” dicevano, scivolate e azzardi che costano caro, segnandoti per sempre.
Si erano infatti conosciuti nel carcere di Genova e, una volta scontata la pena, si erano ritrovati a Roma, dove mio padre aveva deciso di trasferirsi dopo aver ricevuto un’offerta di lavoro e dove il Barone già viveva.
I primi anni nella capitale furono molto positivi. La mia famiglia stava bene, mamma Milena lavorava per un’importante compagnia di assicurazioni mentre papà gestiva una pizzeria al taglio e insieme alla mia sorellina Teresa vivevamo in una grande casa a Torvaianica, sul mare.
Un giorno, seduto alla scrivania della mia camera, disegnavo assorto. Disegnare era la cosa che amavo di più, che mi faceva stare bene, un po’ come più tardi la recitazione. Mi piacevano i colori vivaci, l’azzurro, il rosso e il verde. E più di tutto mi piaceva prendere la realtà e rappresentarla come volevo.
Dopo un attimo di esitazione scelsi il verde e cominciai a colorare una sagoma aliena. All’inizio il colore era vivido, intenso, ma a mano a mano che continuavo si affievoliva.
“Dai, non mi lasciare proprio ora...” ripetevo fra me e me, preoccupato di non poter terminare il disegno.
Alla fine mi fermai.
Ma non mi arresi.
Con il pennarello in mano corsi in cucina, dove mamma era occupata a preparare il pranzo della domenica, quello che più le ricordava le sue origini genovesi, pesto e trofie di pasta fresca.
«Non funziona più il verde!» dissi sventolandoglielo sotto al naso.
«Aspetta, fammi vedere...»
Mamma prese il pennarello, tolse il tappo, aprì il rubinetto e passò la punta sotto l’acqua. Poi, dopo averla asciugata, me lo ridiede. «Prova adesso.»
Affascinato da quella specie di magia tornai in camera, salii in ginocchio sulla sedia, tracciai una linea sul foglio e... funzionava! Magari non era il massimo, ma potevo finire il mio alieno.
Fu proprio allora che mio padre entrò nella mia stanza.
Aveva il viso tirato, sembrava stanco, come se non avesse mai dormito, e senza dir nulla si sedette sul bordo del letto, sopra la coperta di lana che zia Anna aveva confezionato per me.
Andavamo a trovarla raramente, la zia, in quell’edificio che ricordava un ospedale pur non avendo nulla a che fare con le malattie del corpo, ma dell’anima e del cuore. La zia, che poi non era proprio una “zia” bensì una sorella del nonno, era ricoverata dal giorno in cui le avevano comunicato che suo marito non sarebbe più tornato dal fronte, alla fine della Seconda guerra mondiale. Le altre persone che ci vivevano, i suoi amici, erano strani e io ne ero molto affascinato. Una donna camminava soltanto mettendo i piedi al centro delle piastrelle e se trovava un ostacolo aspettava che venisse rimosso. Un altro tizio passeggiava per i corridoi guardando fisso il soffitto, come se dovesse crollargli addosso da un momento all’altro. Un altro ancora chiedeva ossessivamente l’ora e sembrava in attesa di un appuntamento importante nonostante fossero anni che se ne stava chiuso là dentro. Ce n’era uno che però mi piaceva più di tutti, lo chiamavano “Fenomeno” e tutto il giorno ripeteva: «Sono un fenomeno, sono un fenomeno, sono un fenomeno…». Con le mani completamente ingiallite per via delle sigarette che fumava senza sosta, mi ricordava l’alieno dei miei disegni, eppure o forse proprio per questo non mi faceva paura, anzi.
Zia Anna era una persona adorabile, sempre pacata e molto amorevole. Se ne stava seduta nella saletta comune con lo scialle di lana sulle spalle e trascorreva ore e ore a lavorare a maglia e all’uncinetto. Era lì che la incontravo quando andavamo a trovarla, me ne stavo accanto a lei, seduto o in piedi, e riempivo i suoi silenzi con delle storielle che inventavo al momento. Le raccontavo a lei e al Fenomeno, altro assiduo frequentatore della saletta. Erano storie strambe, nelle quali amplificavo a tal punto i loro problemi che finivamo per riderci sopra. Era un modo per prendersi gioco delle cose che non andavano, per riscrivere la loro realtà e allontanare i momenti difficili che li avevano portati lì dentro.
Il Fenomeno ci metteva sempre un po’ a lasciarsi andare, ma poi rideva di gusto, con i suoi denti ingialliti e la puzza di nicotina che sentivi a metri di distanza. Ridevano, e per un attimo si scordavano della malattia, delle medicine, delle pareti bianche e della monotonia di quei giorni infiniti.
«Arnaldo? Mi senti? Ti devo parlare.» La voce di papà mi riportò alla realtà. Era una voce profonda, che raramente gli avevo sentito.
«Mmh» risposi distrattamente, senza smettere di colorare.
«Forse l’hai già intuito, ma mamma e io abbiamo deciso di trasferirci. Inizia a scegliere le cose che vuoi portare con te e che occupano poco spazio, quando sarà il momento le metteremo negli scatoloni. Poi mamma ti aiuterà a fare la valigia.»
Appoggiai il pennarello sul tavolo, ora sì che aveva la mia attenzione: «Dove andiamo, babbo?».
«In un posto lontano...»
Posai gli occhi sul mare che brillava fuori dalla finestra, poi sui suoi. Ero sorpreso, confuso, incuriosito. «Lontano... dove? In un’altra galassia? Sul pianeta degli omini verdi?»
«No, no, non così lontano» non trattenne un sorriso.
«Peccato...» commentai seriamente dispiaciuto.
Per un attimo i suoi occhi erano tornati limpidi, liberi dal velo di tristezza con cui si era presentato.
«Andiamo in Olanda, il Paese dei tulipani. Sono sicuro che ti piacerà. E poi qui in Italia non si può più vivere...» Di nuovo quel velo, di nuovo quel tono. E in sottofondo, dalla cucina, il ritornello di una delle sue canzoni preferite: “Extraterrestre vienimi a pigliare, voglio un pianeta su cui ricominciare…”.
«Olanda?» Mi alzai dalla sedia e guardai di nuovo fuori dalla finestra, cercando di immaginare quanto fosse distante da Torvaianica. Osservai il mare in lontananza, quel giorno era di un azzurro intenso. Mi fissavo a guardarlo per ore, il mare. Mi dava un senso di pace e tranquillità.
«Ma andiamo tutti, babbo? Anche Angelino?»
Angelino era il mio babysitter. Cioè, diciamo così.
Fondamentalmente era il cugino del barone Arnaldo e, avendo un trascorso ma anche un presente piuttosto irregolare, i miei avevano deciso di aiutarlo, ospitandolo in casa e affidando me e mia sorella alle sue cure. In realtà passava la maggior parte del tempo chiuso in camera a leggere libri gialli e fumare. E per me rappresentava una presenza, una parte dell’arredamento più che della mia vita.
«Certo che viene! Come puoi pensare di respirare senza l’odore delle sue sigarette?» rispose sorridendo mio padre, prima di alzarsi e uscire dalla stanza. Ma nei suoi occhi e nella voce non c’era traccia di quel sorriso. Era un sorriso finto, flebile come una nuvola di fumo.
Fino a quel giorno Torvaianica era stata il mio mondo. Papà gestiva la pizzeria al taglio, un locale di due metri per due nel quale trascorreva il tempo quando non era con i suoi amici a discutere di politica, mentre mamma si faceva in quattro per star dietro a me, Teresa e il suo lavoro.
E adesso sapevo che da un momento all’altro tutto questo sarebbe svanito.
All’epoca avevo cinque anni, ero troppo piccolo per capirlo, ma nell’aria percepivo una strana elettricità. Nei giorni precedenti alla partenza mamma faceva avanti e indietro per casa, piegando vestiti e impacchettando tutto quel che trovava sulla sua strada, papà era sempre più silenzioso, Angelino fumava una Nazionale dopo l’altra, cosa che in realtà faceva comunque, mentre io e mia sorella ci limitavamo a raccogliere i giochi e gli oggetti che avremmo portato con noi, accatastandoli sotto la finestra di camera mia.
Finché qualche settimana più tardi, senza quasi che me ne rendessi conto, mi ritrovai davanti a un’altra finestra, molto più grande di quella che avevo lasciato. Dei centrini color panna adornavano i vetri e il panorama era completamente diverso. Il cielo era grigio, il mare sparito, e al suo posto c’erano palazzi e giardinetti curati. Sulla nuova scrivania c’erano i pennarelli e Scooby-Doo, un peluche rosso a forma di bassotto che era anche il mio migliore amico. Invece sulla mensola c’erano le bambole di mia sorella, con cui dividevo la stanza, che sembravano scrutarmi con uno sguardo interrogativo: magari anche loro si stavano chiedendo dove fossero finite.
Come sempre Angelino stava con noi ma da solo, in una camera tutta per sé, la più grande e fredda della casa. E come sempre trascorreva le giornate seduto sulla poltrona nel suo abito elegante di lana grigia, fumando senza sosta e leggendo come un turco e viceversa.
Spesso finivo nella sua stanza a giocare. E allora, senza farmi notare, lo osservavo. Osservavo i suoi baffi ingialliti dalla nicotina, come le dita della mano con cui reggeva la sigaretta. Osservavo mentre aspirava a grandi boccate e poi rilasciava il fumo dalle narici, e mi chiedevo cosa provasse, cosa sentisse a compiere quei gesti.
Eppure non gliel’ho mai domandato. Io non parlavo con lui. E lui non parlava con me. Lo sentivo troppo distante, troppo solo e lontano da tutto. Nessuno dei due aveva interesse a parlare con l’altro. C’eravamo trovati insieme per quel tratto di viaggio, era sufficiente.
In principio fu tutto molto difficile.
Quei suoni gutturali facevano veramente fatica a entrarmi dentro, perciò non riuscivo a comunicare se non con i miei. Trascorrevo la maggior parte del tempo da solo, incerto se andare a giocare al campetto sotto casa insieme a bambini con cui non avrei saputo spiccicare mezza parola o starmene al riparo nella camera che dividevo con Teresa. Passavo letteralmente ore a guardare fuori dalla finestra, a osservare quel grande cielo grigio che i centrini incorniciavano come un quadro antico. Quel grigio che ti entrava dentro e si incideva nell’anima come un tatuaggio, quel grigio che mi porto dietro tuttora, che mi costringe a reagire, a riversare colore.
Stavo lì alla finestra e ripensavo all’azzurro di Roma, al cielo che avevo lasciato, al mare che luccicava all’orizzonte. Ripensavo ai vicoli, alle strade, alla voce dei negozianti sotto casa che mi chiamavano per nome. Al silenzio che ora mi circondava.
Ero timido, anche un po’ spaventato, eppure quel nuovo mondo mi incuriosiva. E alla fine arrivò il giorno in cui mi feci coraggio, richiusi la finestra, aprii la porta, uscii da casa, raggiunsi il campetto e senza quasi realizzarlo mi ritrovai a correre insieme agli altri ragazzini, emozionato e stupito che fosse bastato così poco, un sorriso e un calcio al pallone, per comunicare e rompere il ghiaccio.
Poi, a settembre, cominciò la scuola.
Il primo giorno ero molto agitato. Piangevo, non volevo staccarmi da mia madre, che mi aveva accompagnato nonostante l’edificio fosse a pochi passi da casa. Eravamo in cortile, in attesa che mi chiamassero. Con noi altri genitori e altri bambini. Alcuni sorridevano, altri non smettevano di muoversi, altri ancora erano spaventati quanto me. A un certo punto sentii dei suoni che ricordavano il mio nome, mi alzai sulle punte e vidi una donna con una lunga coda di capelli castani e un foglio in mano, che ci guardava da sopra le scale, accanto all’ingresso.
Mamma sorrise e, passandomi il piccolo bauletto con la merenda, disse: «Devi andare».
La salutai rassegnato e lei ricambiò con gli occhi che brillavano più di orgoglio che di preoccupazione. La donna in cima alla scalinata, la mia nuova maestra, mi guardò con dolcezza, poi mi prese per mano e canticchiando una specie di filastrocca mi accompagnò oltre l’ingresso e lungo un corridoio variopinto, con le pareti tappezzate di disegni e opere in carta crespa realizzate dagli alunni. Camminavo appiccicato alle sue gambe, quasi nascosto dietro di lei, mentre altri bambini, chiaramente più grandi, mi osservavano, o almeno avevo questa sensazione, che mi faceva sentire ancora più a disagio.
Una volta in classe, mi sedetti a un grande tavolo circolare, insieme ad altri bambini, tutti un po’ disorientati. Al centro c’erano fogli e pennarelli che potevamo liberamente utilizzare. Esitai un attimo, poi ne presi uno e cominciai a disegnare, a rifugiarmi nei colori.
I primi giorni li passai così, a testa bassa, senza socializzare con nessuno. Disegnando e cercando di comprendere quei suoni che uscivano dalla bocca della maestra e dei compagni senza farmi notare. Finché una mattina, mentre ero intento a colorare uno dei miei alieni, un bambino moro con la carnagione olivastra si avvicinò al tavolo e mi chiese qualcosa indicando il foglio.
Pensai di intuire cosa volesse, così lo presi e glielo porsi. Sorridendo, lui scosse la testa. Non voleva il foglio, eppure me lo indicò di nuovo. Ebbi un’illuminazione, forse voleva il pennarello che avevo appena usato. Glielo mostrai, lui annuì e ci aprimmo entrambi in un grande sorriso.
Si chiamava Memez, era un bambino turco e come me aveva problemi a comunicare in una lingua che non era la sua. Perciò da quel m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il potere del sorriso
  4. Prologo
  5. 1. Nel pianeta dei tulipani
  6. 2. Un leone come amico
  7. 3. Clown Paziente
  8. 4. Chi ha spento la luce?
  9. 5. Tu sei tu e io sono io
  10. 6. La mia vicina è la fine del mondo
  11. 7. Farai ridere tu
  12. 8. È già finito?
  13. 9. Il sosia che avanza
  14. 10. Diversamente allegro
  15. 11. Le regole del gioco
  16. 12. Guerra e pace
  17. 13. Mangiafuoco
  18. 14. (Sittin’ on) the dock of the bay
  19. 15. E ho capito ragazzi però
  20. 16. Salto quantico
  21. Epilogo
  22. Ringraziamenti
  23. Copyright