Giovedì 4 marzo
Era un mattino freddo, il sole nascosto. Il cielo plumbeo ogni tanto s’illuminava, per poi offuscarsi di nuovo, coprendosi di nubi sospinte dal vento. La pioggia era vicina.
Elisabetta Ciraci preparò il caffè. Era ancora strano usare la macchinetta per due tazzine invece che quella per una. Ormai capitava almeno un paio di volte a settimana che Patrizia si fermasse a dormire lì – molto più di rado succedeva il contrario –, eppure le mattine continuavano a metterla un filo a disagio. Non era, ovviamente, lo svegliarsi nello stesso letto: era uscire dalla stessa casa. Elisabetta cercava di non darlo a vedere, ma tentava di organizzarsi la mattina perché lei e Patrizia non scendessero le scale insieme; o, se proprio dovevano, sceglieva i momenti in cui era meno probabile incontrare la vicina. Faceva a malincuore calcoli del genere, perché ritrovarsi Patrizia accanto nel letto era la cosa più bella che le fosse capitata da anni.
Quella mattina non aveva dovuto nemmeno mentirle: quando Patrizia le aveva proposto di fare la strada per il tribunale insieme – lei ci doveva andare per il giornale –, Elisabetta aveva risposto che le sarebbe piaciuto molto, ma preferiva arrivare prima, per discutere di alcuni dettagli con Nicola Lorusso. Era sincera, e Patrizia probabilmente lo aveva intuito, perché non aveva insistito. Eppure...
Bevve il caffè in silenzio, e altrettanto in silenzio finì di vestirsi. Era ormai alla porta quando sentì Patrizia girarsi nel letto. Scivolò fuori veloce.
Qualche minuto dopo la dottoressa Ciraci era in macchina, sotto l’acqua: l’aspettava il processo più importante della sua giovane carriera.
Nonostante le centinaia di casi di cui si era occupato nel corso degli anni, Enrico Martucci era sempre teso alla vigilia di un processo importante.
Questa volta persino di più.
Con Fiorenza ostentava sicurezza, ma mentre uscivano di casa si sentiva un ragazzino al primo giorno di scuola. Aveva sperato in un caso difficile che gli permettesse di dimostrare a tutti di essere ancora il migliore, di essere ancora la Iena, l’aveva addirittura invocato...
E invece, adesso che quel caso impossibile stava per iniziare, a Enrico Martucci tornò in mente un vecchio detto delle storie antiche: “Sta’ attento a quel che desideri”.
Infilandosi in macchina, prese la mano a Fiorenza e gliela strinse, subito imbarazzato da quel suo gesto.
«Dritti in tribunale» ordinò all’autista, mentre sopra di lui un fulmine spaccava il cielo.
Mancava poco all’inizio dell’udienza. Una manciata di minuti per ingoiare le tre rampe di scale in marmo bianco che sbucavano nel lungo e freddo corridoio delle aule penali; da lì, un altro centinaio di metri per arrivare, in fondo, alla sobria scritta verde che annunciava la camera di consiglio della prima corte d’assise.
Non pensava che sarebbe stata così emozionata. In fondo non era passato molto dall’ultima causa di cui si era occupata. Eppure, quella manciata di mesi significavano una vita. Pensò di mandare un messaggio a Luigi – dirgli che, sì, era tornata, come lui le aveva suggerito –, ma forse era con qualcuno, e alla fine vinse la timidezza.
Virginia salutò in modo fugace colleghi e avvocati intercettati sulla via, e si fermò un istante con la mano sulla maniglia della porta. Dall’altra parte, in quella stanzetta spoglia, da anni si decideva il destino degli imputati.
Il rituale era sempre lo stesso. Al termine del processo, esaurite le requisitorie dell’accusa e le arringhe della difesa, il presidente e gli altri giurati si rintanavano nella camera di consiglio, si liberavano di toghe e fasce tricolori e, dopo essersi seduti attorno a un tavolo tondo, cercavano di arrivare a un verdetto. Parlava per primo il giudice relatore, poi i giudici popolari, in ordine crescente di età. Alla fine tirava le somme proprio il presidente della giuria – lei, in questo caso. Ci si pronunciava innanzitutto sulla colpevolezza, mettendo a confronto le prove d’accusa e la solidità delle difese. Quindi, con il bilancino delle circostanze, si quantificavano gli anni di galera.
Tra quelle mura spesse e alte si decidevano i futuri altrui: un peso al quale era impossibile abituarsi.
Virginia entrò nell’ufficio disadorno e salutò il giudice a latere Stefano Clivio, già avvolto dalla toga nera, e i sei giurati popolari, intenti a sistemarsi la fascia tricolore. Il suo sguardo scivolò su ognuno di loro e li scandagliò senza fretta. Erano tre uomini e tre donne, diversi per età, aspetto fisico ed estrazione sociale. Sul viso di ciascuno inquietudine, curiosità, ombre. Erano al loro primo processo, pieno di incognite. E loro stessi erano un mistero, che Virginia avrebbe svelato giorno per giorno. Afferrò la sua toga, e infilandosela, per un istante perfetto, sentì che era fatta per quel lavoro, che era quel lavoro.
Pochi secondi dopo s’affacciò dalla finestra che dava sul cortile interno, dominato dall’enorme statua della dea della giustizia. Le nuvole nascondevano l’azzurro del cielo.
Gettò un’occhiata all’orologio: era ora.
Gli otto componenti della corte entrarono in processione in aula e si accomodarono sugli austeri scranni. Alle loro spalle si librava una scritta: LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI.
Era tutto pronto. Il processo Campanaro poteva cominciare.
«L’accusa chiama a deporre il professor Giacomo Pesce» disse Elisabetta Ciraci nel silenzio rotto dalla tensione e dagli ultimi assestamenti che sempre c’erano all’inizio di un processo difficile.
Il sessantenne medico legale si alzò, percorse i pochi metri che lo dividevano dalla corte e prese posto sulla sedia riservata ai testimoni. Non era certo la prima volta che veniva convocato in un processo in qualità di teste, ed era evidente che non gli dispiacesse essere al centro dell’attenzione.
Sul banco del pubblico ministero c’era una montagna di fogli sparpagliati, ma Elisabetta Ciraci non aveva bisogno di appunti.
«Professor Pesce» iniziò, «lei ha eseguito l’autopsia sul corpo della povera Gilda Orefice. A quali conclusioni è giunto sulle cause della morte?»
Nemmeno il medico aveva bisogno di leggere per rispondere alla domanda. «La vittima è deceduta a causa del soffocamento provocato da strangolamento a mani nude. Nonostante le difficoltà causate dalla finestra temporale di tre giorni tra morte e rinvenimento del cadavere, posso ritenere altamente attendibili le conclusioni della relazione autoptica su cause e dinamica del decesso.»
«Può darci indicazioni sul numero e sul sesso degli assassini?»
«L’esecutore materiale è solo uno.» Di nuovo, non un tentennamento: Giacomo Pesce doveva aver riflettuto a lungo sul caso Orefice, e non aveva affrettato le conclusioni. «Un uomo, o una donna di forza straordinaria. Chi ha ucciso è una persona alta, dotata di notevole energia fisica.»
Il pubblico ministero lanciò un’occhiata fugace all’imputato in gabbia – e tutti i giurati seguirono il suo sguardo. Giovanni Campanaro, in maglia rosso vivo e pantaloni grigi, per un attimo si ritrasse, quasi sperasse di farsi meno alto, meno robusto, meno forte. Ma fu tutto invano: il profilo che Pesce stava dipingendo combaciava perfettamente con lui. E guardarlo in quel momento, ma soprattutto spingere la giuria a fare altrettanto, era uno stratagemma semplice ma efficace da parte di Elisabetta, notò Virginia.
«Quanto tempo è durata l’azione omicidiaria?» incalzò Elisabetta.
«Considerate la sorpresa dovuta all’agguato e la sproporzione delle forze, direi dai due ai quattro minuti» rispose il medico legale.
«Così tanto?»
«Certo.» Pesce si sistemò meglio sulla sedia. Si stava sciogliendo. «Diversamente da quello che si crede, lo strangolamento produce una morte relativamente lenta perché il soggetto passivo, anche in modo istintivo, irrigidisce più che può i muscoli del collo, opponendo così una barriera disperata alla forza compressiva della manovra strangolatoria.»
Elisabetta fotografò ancora i giurati. «E da cosa dipende questa oscillazione tra due e quattro minuti?»
«Nello strozzamento, i tempi dipendono dai movimenti della vittima o dalla perdita d’intensità della stretta.» Pesce alzò le mani, mimando il gesto. «Ammetto però che nel nostro caso questa finestra è più a scopo precauzionale. Gilda Orefice non aveva lividi evidenti sul collo: la scarsa lesività esterna lascia pensare che tutto sia avvenuto in tempi relativamente rapidi. In pratica, il collo è stato preso e mai lasciato, fino alla morte. Quindi direi che è più verosimile che il decesso sia intervenuto dopo due minuti, al massimo due minuti e mezzo.»
Il professor Pesce parlava della tragedia della morte con la freddezza della scienza. Elisabetta Ciraci attese che la giuria fosse attraversata fino in fondo da un brivido prima di riprendere.
«Si possono ricostruire le modalità dell’azione omicidiaria?»
«In base al tipo di lividi e alla localizzazione dei fenomeni traumatici, possiamo ritenere che la Orefice sia stata aggredita alle spalle. L’assassino le ha afferrato il collo da dietro. Un agguato... Un vero agguato» rispose con voce fioca, come se parlasse tra sé.
«Ci può riferire la posizione in cui è stato trovato il cadavere quando i vigili del fuoco sono penetrati dalla finestra nell’appartamento?» chiese Elisabetta.
Pesce si aspettava quella domanda, eppure ebbe comunque un tentennamento. Sapeva a cosa mirava il pubblico ministero – e l’effetto che avrebbe potuto avere sui giurati quel particolare passaggio della sua deposizione. «Il cadavere era in una posizione composta, direi addirittura... serena. Le gambe erano accavallate, le braccia distese, i vestiti assolutamente ordinati e, soprattutto, la signora non aveva spazio, nel senso che era esattamente all’angolo del muro. Era “incantonata”, per usare un terribile gergo tecnico.»
«Qualche dettaglio in particolare l’ha colpita?»
«A un primo sguardo, c’era solo una piccola lesione ecchimotica rotondeggiante circolare sul lato sinistro del collo.» Indicò il punto sul proprio corpo per farsi capire meglio. «E lì vicino, un’escoriazione lineare orizzontale nella regione anteriore, sempre del collo.»
Elisabetta si avvicinò al palco dei giurati. Era una tecnica anche quella, Virginia l’aveva già vista in altre occasioni: la deposizione stava arrivando a un punto cruciale, e il pubblico ministero puntava a stare il più possibile vicino alla giuria. «E fu sufficiente a richiedere l’autopsia?» domandò.
Pesce scosse il capo. «No, quella l’abbiamo decisa solo il giorno dopo, martedì. In una prima fase, tutto deponeva a favore dell’evento naturale o accidentale.»
«E invece?»
«E invece quando il corpo è stato trasportato all’istituto di Medicina legale, una mia assistente, la dottoressa Enrica Campione, ha potuto esaminarlo nuovamente. L’osservazione della salma in un ambiente illuminato in modo idoneo ha evidenziato tracce di lesione dell’osso ioide e delle strutture cartilaginee della laringe.»
«Che sono...»
«Tipiche di un’azione omicidiaria, sì» terminò per lei Pesce. «A quel punto, è seguita l’autopsia, che ha portato al referto che le ho riassunto poco fa.»
La Ciraci annuì. «Perdoni, dottore» disse, «ma quando ha descritto il cadavere di Gilda Orefice al momento del ritrovamento ha parlato di “posizione composta”, quasi “serena”. Come è possibile, se è stata uccisa con la cattiveria e la brutalità che l’autopsia ha rivelato?»
Pesce si strinse nelle spalle. «Semplice: non è possibile.»
«Significa che Gilda Orefice quando è stata ritrovata era in una posizione, come dire...» Elisabetta fece una pausa calcolata. «Finta?»
Pesce fece cenno di sì.
«Come se il cadavere fosse stato spostato e ricomposto?» insistette.
«Con alta probabilità» annuì Giacomo Pesce.
«E da chi?» disse lei. Guardò ancora i giurati, poi Campanaro.
«Be’» rispose il medico legale, «viste le circostanze, non può che essere stato l’assassino.»
Il piemme si voltò verso i giurati e guardandoli chiese: «E per quale ragione l’assassino avrebbe creato questa messinscena?».
«Mi oppongo!» protestò l’avvocato Martucci issandosi in piedi di scatto. La voce gli uscì di bocca soffocata. «Il pubblico ministero non chiede al teste una valutazione tecnica, ma una deduzione logica.»
«Accolta» replicò Virginia. «Signor pubblico ministero, si attenga alle questioni tecnico-scientifiche sulle quali il professor Pesce è chiamato a testimoniare.» Lanciò alla sua ex tirocinante un’occhiata di rimprovero.
In realtà – lo sapeva lei, e lo sapeva ancora meglio la Iena – la domanda di Elisabetta non mirava ad avere una risposta, ma a suscitare una suggestione: adesso, tutti i giurati stavano immaginando l’assassino sistemare il corpo della donna che aveva appena strangolato a mani nude. L’effetto, quindi, era stato raggiunto, opposizione o no di Martucci.
Proprio per questo, Virginia sentì il bisogno di un chiarimento di portata generale. «Signore e signori della giuria» iniziò, «durante il processo sentirete di tanto in tanto gli avvocati e il pubblico ministero fare obiezioni. Potreste e...