Stupefatta e sfinita, Clara era seduta in cucina e stava lottando con l’insopprimibile bisogno di chiamare Jane e raccontarle cos’era successo. Una cosa inconcepibile. Un mondo improvvisamente, violentemente costretto a fare a meno di lei. Del suo tocco, del suo conforto, della sua gentilezza. Clara aveva la sensazione che le avessero strappato non solo il cuore, ma anche il cervello. «Com’è possibile, – si chiedeva, guardandosi le mani intrecciate in grembo, – che il mio cuore batta ancora? Devo chiamare Jane».
Usciti dalla chiesa, con il permesso dell’ispettore capo Gamache, i Morrow erano andati a prendere Lucy, la Golden retriever di Jane, che ora stava raggomitolata ai piedi di Clara quasi volesse tenersi stretta la propria inconcepibile perdita.
Peter stava ordinando all’acqua di mettersi a bollire, cosí avrebbe potuto preparare il tè e tutto sarebbe finito. La sua mente e la sua educazione stavano cercando di convincerlo che un’adeguata quantità di tè e discorsi leggeri avrebbe invertito il corso del tempo e cancellato ogni bruttura. Ma dopo tanti anni vissuti con Clara, Peter non era piú capace di negare la realtà. Jane era morta. Uccisa. E lui doveva consolare sua moglie e in qualche modo riparare il danno. Ma non sapeva come. Rovistando nella dispensa come un chirurgo di guerra in cerca del bendaggio piú adatto, mise da parte lo Yogi Tea e la tisana di erbe miste Armonia, poi si soffermò un istante sulla camomilla. No, no. Non distrarti, ordinò a sé stesso. Sapeva di averlo, quell’oppio dei britannici. La sua mano afferrò la scatola nel momento preciso in cui il bollitore cominciava a fischiare. Per la morte violenta ci voleva l’Earl Grey. Mentre riempiva la teiera diede un’occhiata oltre i vetri, e sentendosi rimbalzare sulla mano le punture dolorose dell’acqua bollente vide l’ispettore capo Gamache seduto da solo su una panchina del grande prato. Sembrava che stesse dando da mangiare agli uccelli, ma di certo non era cosí, pensò Peter mentre tornava a concentrarsi sull’impresa fondamentale di preparare il tè.
Armand Gamache era seduto sulla panchina e guardava gli uccelli, ma piú che altro guardava il villaggio. Sembrava che Three Pines stesse rallentando davanti ai suoi occhi: la persistenza della vita, l’animazione e l’energia sembravano smorzate. Voci basse, passi lenti. Gamache si mise comodo e fece ciò che gli riusciva meglio: osservare. Studiò con attenzione gli abitanti, le loro facce e i loro gesti, e quand’era possibile ascoltò quel che dicevano, cosa non facile perché tutti si tenevano abbastanza lontani dal suo scranno di legno sull’erba. Prese nota di chi toccava gli altri e chi no. Di chi abbracciava e chi stringeva la mano. Di chi aveva gli occhi rossi e chi dava l’impressione che fosse un giorno qualsiasi.
Tre pini enormi si stagliavano in fondo al parco comunale. Tra loro e Gamache c’era un laghetto, sulle cui rive un grappolo di bambini in maglioni di lana variopinti stava forse andando a caccia di rane. Il parco si trovava, come di norma, al centro del villaggio, ed era delimitato da una strada ad anello chiamata The Commons, sulla quale si affacciavano alcune abitazioni, fuorché nel tratto alle spalle dell’ispettore, che sembrava invece fungere da zona commerciale. Una ben piccola zona commerciale. Constava di un emporio la cui insegna, decorata con il marchio della Pepsi, riportava il nome «Beliveau»; a fianco c’erano una boulangerie, il bistrot e una libreria. Dalla strada ad anello si diramavano quattro vie: come i raggi di una ruota, o i punti cardinali di una bussola.
Mentre stava lí seduto e lasciava che il villaggio gli vivesse intorno, Gamache fu colpito dalla bellezza di quelle vecchie case affacciate sul prato, coi loro giardini ben curati fitti di alberi e piante perenni. Tutto sembrava naturale, non artefatto. Anche il lutto che ora ammantava la piccola comunità era indossato con dignità, mestizia e una certa esperienza. Era un vecchio villaggio, e non si diventa vecchi senza conoscere il lutto. Senza perdere qualcuno.
– Dicono che domani pioverà –. L’ispettore capo alzò gli occhi e si trovò davanti Ben con al guinzaglio un cane di età veneranda e forse, a giudicare dall’odore, in stato di decomposizione.
– Davvero? – rispose Gamache facendo cenno accanto a sé sulla panchina; Ben si sedette e Daisy crollò riconoscente ai suoi piedi.
– Già dal mattino. E farà piú freddo.
Per un minuto o due, nessuno parlò.
– Lí c’è la casa di Jane, – disse infine Ben, indicando una villetta in pietra sulla sinistra. – E a fianco abitano Peter e Clara –. La casa dei Morrow era leggermente piú grande di quella di Jane, e invece che di pietra era fatta di mattoni rossi, nel cosiddetto stile lealista. Una semplice veranda in legno correva lungo l’intera facciata e conteneva due sedie a dondolo in vimini. A fianco della porta c’erano due grandi finestre, e altre due al piano superiore, con le gelosie dipinte di un blu scuro e intenso. Nel giardino crescevano rose, piante perenni e alberi da frutto. Forse erano meli selvatici, pensò Gamache. Un boschetto, in gran parte di aceri, separava Jane Neal dai Morrow. Ma ormai c’era ben altro a separarli.
– Io invece abito là, – disse ancora Ben, indicando una graziosa casetta con l’esterno di legno bianco, una veranda al piano terra e tre lucernari sul tetto. – Ma volendo potrei stare anche piú su, – aggiunse, indicando vagamente il cielo. Gamache immaginò che parlasse in senso metaforico, o forse meteorologico; poi il suo sguardo si abbassò dalle nuvole vaporose al tetto di una casa sul fianco della collina, ai margini del villaggio.
– Appartiene alla mia famiglia da generazioni. Ci abitava mia madre.
L’ispettore non sapeva bene cosa rispondere. Di case come quella ne aveva viste molte altre: il tipo di edificio che quando studiava al Christ’s College di Cambridge aveva sentito definire, in modo quanto mai eloquente, «accrocco vittoriano». Il Québec, e Montréal in particolare, ne vantavano un discreto assortimento. Costruite dai rapaci capitani d’industria scozzesi che si erano arricchiti nel nuovo continente grazie alle ferrovie, ai liquori e alle banche, ormai quelle dimore si tenevano insieme solo grazie all’orgoglio, che tuttavia non dava grandi garanzie di durata, sicché molte erano state abbattute o date in lascito alla McGill University, che dell’ennesima mostruosità vittoriana aveva bisogno come di un’epidemia di ebola. E invece Ben sembrava guardarla con occhi amorevoli.
– Ha intenzione di trasferirsi là?
– Eh, sí. Ma prima devo fare un po’ di lavori. In certi punti sembra il set di un film dell’orrore. Fa rizzare i capelli.
Ben ripensò a quando aveva raccontato a Clara che da bambini lui e Peter andavano a giocare in cantina e una volta ci avevano trovato un nido di serpenti. Non aveva mai visto nessuno diventare verde: Clara era stata la prima.
– Il villaggio si chiama cosí per via di quei tre pini? – chiese Gamache, guardando i grandi alberi in fondo al prato.
– Ah, non sa la storia? Quelli non sono gli originali, ovviamente. Avranno una sessantina d’anni: mia madre ha aiutato a piantarli quand’era bambina. Ma ci sono sempre stati dei pini qui nel villaggio, fin da quando è stato fondato piú di duecento anni fa. E sono sempre stati tre: Three Pines, appunto.
– Ma perché? – chiese ancora l’ispettore, sporgendosi in avanti incuriosito.
– È il segnale che identificava i lealisti dell’Impero unito, cioè i coloni che dopo la Guerra d’indipendenza americana si erano trasferiti in quello che allora si chiamava Nord America britannico. Avevano preso possesso di tutta la regione, eccetto le terre degli Abenachi, naturalmente –. Come liquidare mille anni di storia dei popoli nativi in una sola frase, pensò Gamache. – Da qui alla frontiera degli Stati Uniti, – disse ancora Ben, – ci sono solo un paio di chilometri. I fuggiaschi che passavano il confine non potevano sapere se si trovavano in territorio sicuro, e cosí si sono inventati un segnale. Tre pini in gruppo significava che i lealisti erano benvenuti.
– Mon Dieu, c’est incroyable. Che eleganza. Che semplicità, – esclamò Gamache con sincera ammirazione. – Ma perché non ne ho mai sentito parlare? Io l’ho studiata, la storia del Québec, eppure non ne sapevo niente.
– Forse noi inglesi vogliamo mantenere il segreto, caso mai ci servisse di nuovo –. Se non altro Ben ebbe la buona grazia di arrossire mentre lo diceva. Gamache si voltò per guardare quell’uomo alto, accasciato sulla panchina nella posa che gli era naturale, le dita lunghe e delicate morbidamente chiuse intorno al guinzaglio di un cane che mai e poi mai si sarebbe allontanato.
– Dice sul serio?
– Come saprà, all’ultimo referendum sull’indipendenza del Québec i «no» hanno vinto di un soffio, e la propaganda dei separatisti è stata a momenti parecchio sgradevole. Essere una minoranza nel proprio Paese non è sempre divertente.
– Lo riconosco, ma se anche il Québec dovesse separarsi dal Canada non ci sarebbe ragione di sentirsi in pericolo, giusto? Lei sa che i vostri diritti sarebbero comunque tutelati.
– Ah, davvero? E quindi ho il diritto di aprire un negozio con un’insegna in inglese? O di lavorare usando solo l’inglese? No. L’Office de la Langue Française mi salterebbe al collo. Hanno proprio ragione a chiamarla «polizia linguistica». Ispettore, io mi sento discriminato eccome. L’ha detto persino la Corte suprema. Io voglio parlare in inglese.
– Infatti lo sta facendo; e anch’io parlo con lei in inglese. Come tutti i miei agenti, del resto. Che le piaccia o no, Mr Hadley, gli inglesi del Québec sono pienamente rispettati.
– Non sempre, e non da tutti.
– Vero. Ma lo stesso si può dire per i poliziotti. È la vita.
– Se voi non siete rispettati è per via delle cose che avete fatto in passato. A noi inglesi non ci rispettano solo perché siamo inglesi. Non è la stessa cosa. Ha una vaga idea di quanto sia cambiata la nostra vita da vent’anni a questa parte? Di quanti diritti abbiamo perduto? Di quante persone, amici, parenti o semplici vicini, si sono trasferite altrove perché non sopportavano queste leggi draconiane? Mia madre lo parlava a malapena, il francese, eppure io sono bilingue. Stiamo facendo del nostro meglio, ispettore, ma ci prendono in giro. Siamo i capri espiatori, le têtes carrées. No, – dichiarò Ben Hadley, guardando i tre grandi alberi agitarsi lievemente alla brezza, – degli individui mi fido, della società per niente.
Ecco, pensò Gamache, una delle differenze fondamentali fra anglofoni e francofoni del Québec: gli inglesi credono nei diritti individuali, mentre i francesi si sentono in dovere di tutelare i diritti collettivi. Di proteggere la loro lingua e la loro cultura.
La questione era arcinota, e a volte scatenava accese discussioni, ma raramente avvelenava i rapporti personali. A Gamache venne in mente un articolo letto anni addietro sulla «Montreal Gazette», in cui si sosteneva che il Québec fosse un esperimento riuscito nella realtà, ma non sulla carta.
– Le cose cambiano, sa, Monsieur Hadley? – disse Gamache in tono gentile, sperando di allentare la tensione su quella panchina immersa nel verde. Nel Québec la questione anglo-francese era un argomento fortemente divisivo, ma lui riteneva fosse meglio lasciarlo ai politici e ai giornalisti, che non avevano niente di meglio da fare.
– È proprio sicuro che cambino, ispettore capo? Stiamo davvero diventando piú civili? Piú tolleranti? Meno violenti? Se le cose fossero cambiate sul serio, lei non sarebbe qui.
– Immagino che alluda alla morte di Miss Neal. Lei pensa che sia stato un omicidio? – chiese Gamache, che si era appena fatto la stessa domanda.
– No, non credo. Ma io dico che chiunque abbia provocato la sua morte voleva in qualche modo uccidere. Uccidere un povero cervo innocente, nel migliore dei casi. Non è una cosa da persone civili. No, ispettore: la gente non cambia –. Ben si ingobbí e prese a giocherellare con il guinzaglio, ma un attimo dopo rialzò la testa. – Però forse mi sbaglio, – aggiunse, guardando Gamache con un sorriso disarmante.
L’ispettore condivideva il giudizio riguardo alla caccia, ma non era affatto d’accordo circa le persone. Tuttavia era stata una conversazione rivelatrice, e il suo mestiere consisteva in quello: fare in modo che gli altri si scoprissero.
Nelle due ore trascorse da quando aveva lasciato Beauvoir nel bosco, Gamache si era dato parec...