Senza sbarre
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Storia di un carcere aperto

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Senza sbarre

Storia di un carcere aperto

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Cosima Buccoliero è stata a lungo vicedirettrice e poi direttrice del carcere di Milano Bollate. Il suo può sembrare un lavoro duro, in cui freddezza e rigore sono i presupposti per avere tutto sotto controllo. Eppure il suo approccio è un altro. Quando ha dichiarato che gli ergastolani nel suo carcere hanno diritto a una camera singola, Buccoliero ha suscitato stupore in chi crede che oltre le sbarre non ci debba essere piú speranza.
Ma questa è la chiave del suo lavoro: accoglienza e umanità. Per lei il carcere è un microcosmo brulicante di vitalità. Ci sono i carcerati, il personale di sorveglianza e medico, i tanti volontari. E le loro famiglie. L'Ambrogino d'oro che ha ricevuto nel 2020 l'ha ottenuto grazie a questo modello virtuoso di prigione: per lei la pena detentiva deve mirare a un reinserimento e non ridursi alla sola punizione. La detenzione non deve perdere la sua funzione rieducativa, altrimenti diventa solo afflizione. Questo libro ci spiega perché.
Cosima Buccoliero descrive un modellovirtuoso di carcere: un carcere diverso, dove si trova un'umanità che non ti aspetti.La pena detentiva deve mirare al reinserimento, non ridursi alla sola punizione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858439517
Categoria
Sociology
Capitolo terzo

Vivere nel carcere o vivere il carcere

1. Una giornata qualunque.

Durante le mie giornate ordinarie, quelle cioè in cui tutto scorre senza una emergenza, senza un pericolo o un ostacolo dell’ultima ora, una quota del mio lavoro è mettere ordine nel serpentone di carte che si muove ogni santo giorno, a Bollate, a Opera, al Beccaria, come in tutte le carceri italiane. Il carcere è uno di quei pochi luoghi in cui la supremazia della carta resiste. Anzi è la carta che segna quasi il ritmo della vita interna al carcere. Tutto quello che qui si muove, si inventa, si immagina è regolato dalla pratica della scrittura su svariate tipologie di moduli. A pensarci è un costante esercizio all’incasellamento della vita dentro procedure. O meglio, la vita del detenuto è un costante esercizio all’incasellamento, alla schematizzazione. Svegliarsi, mangiare, vestirsi, pensare, leggere, cucinare, dialogare, persino amare o scegliere chi amare.
Svegliarsi: ho bisogno di una sveglia diventa: Alla cortese attenzione ecc. avrei bisogno di una sveglia ecc.
Stesura, rilettura. Firma. Consegna a un operatore.
E qui parte il serpentone. Approdo, quasi finale: la mia scrivania. Sottolineo: quasi finale. Perché dopo l’approdo scattano la mia lettura e la mia approvazione, che però dipende da almeno tre verifiche: che il modello di sveglia richiesta sia compatibile con il modello di sveglia il cui uso è stato autorizzato, che questa sveglia sia disponibile presso lo spaccio del carcere e che sul conto del detenuto ci siano i soldi necessari all’acquisto (sí, i detenuti hanno la possibilità di tenere un conto presso l’amministrazione del carcere con poche migliaia di euro).
Ipotesi A: va tutto liscio, c’è la sveglia, ci sono i soldi sul conto. Nel tempo ragionevole di qualche giorno il signor Beta potrà avere la sua sveglia. Ipotesi B: non va tutto liscio. Bisogna chiedere all’esterno la sveglia, oppure mancano i soldi sul conto. In questo caso i giorni diventano settimane, e le settimane qualche volta anche mesi. E di questo tempo dilatato nessuno ha una responsabilità, perché al modulo X deve per forza seguire il modulo Y e poi quello Z. Un giorno il signor Beta avrà una sveglia in cella e sarà un’occasione, un evento. Perché accade in questo modo che l’ordinario diventi una occasione. Io leggo, verifico e autorizzo. E non mi domando (piú) perché l’acquisto di una sveglia necessiti dell’autorizzazione della direttrice.
Vestirsi: … ho bisogno di una cintura per i miei pantaloni da lavoro. Gentilissima sono qui a chiederle… Stesura della domanda anzi della “domandina”, consegna. Solito giro. Autorizzazione. Quesito: se i pantaloni da lavoro prevedono una cintura, perché non consegnare subito una cintura?
Oppure: … ho bisogno di un paio di scarpe e non ho trovato niente della mia misura tra gli indumenti della Sesta Opera. Allego foto del modello scelto.
Richiesta e foto sono sul mio tavolo. Firmo, autorizzo. Verifica della disponibilità sul conto del detenuto, inoltro richiesta allo spaccio, che provvederà all’acquisto. Tempo necessario? Dipende, da qualche giorno a qualche settimana.
Cura di sé: … ho bisogno di forbicine, quelle per bambini, distribuite, non sono sufficienti. Egregio…
Tutto come sopra, eccetto il fatto che nel concedere l’autorizzazione devo verificare il modello di forbicine piú adatto, sicure come quelle per bambini ma, diciamo cosí, piú adeguate a uomini o donne adulti.
Pranzo: la piú bizzarra delle richieste? Che poi fu quasi una gaffe? I datteri. No, no, dico, non posso autorizzare l’acquisto di datteri di mare, è escluso. Decisivo l’intervento del comandante che mi fa notare che non si tratta di datteri di mare, ma semplicemente di datteri, normalissimi datteri. Chissà, forse abituata alla complicazione del semplice ho immaginato l’improbabile.
Pomeriggio, tempo libero: … vorrei ascoltare un po’ di musica. L’mp3 è fuori uso. Alla gentile attenzione…
Ci vorrà tempo; per oggi, per domani, per qualche giorno meglio trovarsi qualcos’altro da fare. Niente musica.
Pomeriggio, è giorno di telefonata: Vorrei cambiare il seguente numero con il seguente numero… Illustrissima dottoressa, la prego di autorizzare le chiamate a questo numero in sostituzione di…
Cosí leggo ed entro nella vita di queste persone, e se nel mondo è tutto un parlare di privacy, qui sono io a decidere se autorizzare la telefonata alla signora X invece che alla signora Y. Che poi, anche a voler mantenere il distacco, vengono quasi spontanee domande tipo: ma chi sarà, non è la moglie? O anche: ma perché non vuole piú parlare con tizio? Questo quando c’è da sorridere e non sempre è cosí, spesso è tutto un mettere le mani dentro dolori e fratture. Abissi, insomma.
I detenuti hanno infatti un limite alle persone che possono chiamare, tre numeri diversi. Può accadere che restino sempre gli stessi tre per un tempo infinito, può accadere che la vita muti come per ciascuno di noi, per le ragioni piú varie, e allora uno o tutti i numeri cambiano, e ogni volta io devo autorizzare il cambiamento. Questo succede per i numeri fissi, perché con i cellulari la questione è ancora piú complicata: si possono infatti autorizzare solo le telefonate verso quelle utenze mobili di cui abbiamo il contratto con la compagnia telefonica. Se si considera che in molti Paesi non esiste un contratto ma basta una qualunque scheda, è evidente che ci sono centinaia di detenuti, soprattutto stranieri, per i quali anche telefonare è subordinazione. I detenuti possono inoltre effettuare le loro telefonate una volta a settimana. Ora, se prima questo sistema aveva un suo equilibrio, il Covid l’ha fatto saltare. Figli dentro con anziani genitori a rischio fuori, o il contrario, un padre dentro con una moglie ammalata. Gli incastri sono tutti quelli che si possono immaginare.
Riunione con l’allora ministro Alfonso Bonafede. Intervengo e dico: «Guardate che io ho autorizzato, ho autorizzato piú telefonate di quelle previste». Perché, se è vero che ci sono alcune regole che, per quanto difficili da accettare, sono per certi versi inevitabili – rivederle infatti porrebbe seri problemi organizzativi –, e mi riferisco al numero dei colloqui al mese consentiti, sei che scendono a quattro per i reati di particolare gravità, quelle che stabiliscono il numero e l’accesso alle telefonate devono essere invece motivo di riflessione. Aumentare i colloqui sarebbe auspicabile? Certo, ma mi rendo conto che implicherebbe difficoltà di organizzazione per l’organico che il sistema faticherebbe ad assorbire. Aumentare le telefonate non avrebbe invece alcun impatto.
Non sono stata l’unica a porre la questione; nel marzo del 2020, quando l’emergenza pandemica cominciava a rivelarsi in tutta la sua gravità anche in Italia, l’Associazione Antigone, che si occupa della tutela e dei diritti delle persone detenute, scrisse al premier di allora Giuseppe Conte e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere l’allungamento dei minuti concessi alla settimana da dieci a venti.
La verità è che questo dei contatti con l’esterno attraverso il telefono è uno di quei temi che confermano come il nostro sia un sistema pensato per i piú pericolosi, improntato molto sui colpevoli per reati legati al crimine organizzato, senza considerare che questa è solo una parte della popolazione carceraria. Una piccola parte. Su 54 372 detenuti – il dato è del gennaio 20221 ma lo cito solo per dare l’idea della proporzione –, su 53 000 detenuti circa dunque, quelli al cosiddetto 41 bis2 sono 759 (in questo caso il dato è del 2020)3. Mentre i detenuti con un residuo di pena inferiore ai tre anni, potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione, e quindi in ugual modo potenzialmente poco pericolosi, sono 19 0404. Insomma, si ragiona applicando a tutti un modello che in realtà è necessario solo per pochissimi.
Sera, riposare, dormire: Gentilissima, torno a lei, perché mi trovo nella condizione di dover sollecitare una nuova visita. Le pillole che mi ha dato il dottore non bastano… Leggo e a mia volta inoltro: per questa richiesta posso fare poco. Dal 2009 l’area sanitaria dei penitenziari è sotto la gestione del personale medico alle dipendenze delle aziende ospedaliere: c’è stato un passaggio di competenze dalla sanità penitenziaria alla sanità pubblica. Questo vuol dire che tutti i medici e gli infermieri non sono dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria ma del ministero della Salute. Se tutti i malati hanno diritto alla sanità pubblica e alle prestazioni sanitarie questo diritto vale anche per i detenuti. Gli spazi della cura dentro gli istituti sono un’isola nell’isola e nel momento in cui un detenuto li varca la responsabilità su di lui non è piú dell’Amministrazione penitenziaria ma del medico. Lo chiarisco perché questo che, per certi versi, è un passaggio ovvio, non è tuttavia immediatissimo da capire. A cominciare dalla nostra reazione, dalla reazione cioè di noi operatori.
Faccio un esempio: qualche volta, soprattutto se sono di servizio in altri istituti per sostituire momentaneamente un collega, continua ad accadermi di essere chiamata la notte nel caso del ricovero urgente di un detenuto. «Dottoressa, lo stanno portando in ospedale». «Va bene», dico. Ma dall’altra parte percepisco la titubanza, sento sempre che la voce resta sospesa perché è come se ci si attendesse da me un’altra risposta. E allora aggiungo: «Grazie di avermi informata». È come se l’agente che mi ha chiamata attendesse una sorta di via libera, d’autorizzazione. Ma non c’è nessuna autorizzazione da dare, perché la responsabilità dello stato di salute di un detenuto è giustamente del medico, a cui spetta la valutazione della necessità di un ricovero in una struttura ospedaliera.
Di tutte le espropriazioni che riguardano i detenuti quella della gestione del proprio corpo è forse la piú ingiusta. Se io ho mal di testa apro un cassetto, frugo, prendo una scatola di analgesici ed è fatta. Se un detenuto ha mal di testa, la gestione del suo dolore diventa collettiva. È una faccenda sua, ma anche dell’agente di turno, e poi mia, una catena fino ad arrivare al medico. Se io ho bisogno di un qualunque esame diagnostico in un tempo ragionevole posso essere sicura di essere visitata. Se un detenuto ha bisogno del medesimo esame il tempo ragionevole non esiste, anzi in qualche caso non esiste proprio il tempo. Il tempo si polverizza nelle carte, sminuzzato dalle procedure, dalla burocrazia. L’intimità del dolore è costantemente profanata dalla dipendenza da qualcun altro: dall’essere costantemente sotto l’occhio di tutti, dei propri compagni di cella, o dall’essere derubricati a “domanda da autorizzare”.
Sia che si viva la malattia cercando l’isolamento, sia che la si viva cercando l’attenzione, nessuna di queste dimensioni che fuori sono naturali dentro il carcere può appartenere ai detenuti. L’equilibrio dipende da una pluralità di fattori che non sempre concorrono: una struttura adeguata, l’occhio attento di un operatore, l’occhio altrettanto attento di un agente, una buona relazione con gli altri detenuti, un’adeguata gestione da parte di coloro che hanno una responsabilità come la mia.
Se poi il dolore sta in quel luogo misterioso che è la mente, se prende la forma del disagio, l’espropriazione è ancora maggiore.

2. Il guardaroba di Antonia.

La vita in cella è una necessaria sottrazione. Dello spazio e degli oggetti. Una necessaria riduzione all’essenziale. Il corpo di Antonia è strabordante e si ribella. Si rifiuta di accettare la regola dell’essenziale. Antonia è davanti a me con la medesima richiesta di sempre. Una sola, ripetuta. E io mi domando se il rifiuto di Antonia di accettare il limite sia ribellione o nevrosi. Se la natura di questa donna sia una eccentrica sovversione delle regole – i suoi molteplici inganni fuori (ovvero le sue truffe) – o la patologia piú insidiosa. In ogni caso Antonia è a tutti gli effetti una donna molesta.
Non nel senso del danno, ma come lo sono quegli individui che trasformano le proprie manie in un grimaldello dell’altrui tranquillità. In fondo io sono la meno bersagliata delle sue vittime. Prima di me ci sono le sue compagne di cella e le volontarie della Sesta Opera. Sono una vittima part time: solo quando viene e mi chiede l’ennesima autorizzazione ad andare al magazzino della Sesta Opera per scegliere l’ennesima gonna fondamentale per la sua sopravvivenza. «Non ho niente da mettermi», mi dice. Una volta autorizzo, una volta obietto: «Ma è appena andata». Seguono lunghe e ripetute precisazioni sulla necessità di una nuova gonna, sull’urgenza di questa nuova visita. Vorrei mollare, dire: «Vada pure». Ma devo anche pensare che non può trasformare la sua cella in un enorme guardaroba. Che la sua ansia di accumulare si scontra con il diritto allo spazio delle sue compagne. E che non può monopolizzare l’attenzione e le risorse dei volontari. Lei va e insiste, loro cercano di spiegarle e lei insiste. «Questa mi serve».
Il magazzino della Sesta Opera è un luogo importante per i detenuti ma piú per le detenute. Lí hanno la possibilità di chiedere e trovare capi di abbigliamento. È uno spazio utile per gli uomini perché rappresenta la risoluzione di un problema pratico: ho bisogno di un maglione, vado, chiedo e scelgo tra un paio di alternative. Per le donne invece non è solo un servizio utile, è uno spazio per certi versi necessario: rappresenta quasi una iniezione di vitalità. Centra il bisogno di prendersi cura del proprio aspetto, di interrompere la ripetitività delle giornate con l’idea di indossare qualcosa di nuovo, di mostrarsi diverse, di confrontarsi con le altre, di avere un argomento di discussione, di avere qualcosa che assorba il pensiero ed esorcizzi cosí il resto. L’esercizio della vanità è come una palestra per la stabilità mentale.
Per Antonia l’appuntamento con il magazzino della Sesta Opera è una dipendenza. E ci vuole poco a capire che dentro questa dipendenza ci sono un milione di affanni che lei forse non intuisce neanche di dover decifrare. Quanto a me cerco di riservarle l’attenzione che chiede quando serve e di non superare mai il punto di equilibrio. L’ascolto dentro il mio ruolo e l’ascolto non oltre il mio ruolo. Il primo è stato un istinto, il secondo un percorso.
In carcere la somministrazione delle terapie che riguardano i disturbi di tipo psichiatrico funziona nel medesimo modo delle terapie per la cura di qualunque altro tipo di patologia. E se oltre all’intervento farmacologico è necessario il sostegno di uno psicologo questa figura esiste. L’azienda ospedaliera di riferimento garantisce tutte le prestazioni sanitarie. Spesso però, esattamente come succede fuori dal carcere, i momenti di crisi possono essere gestiti con lo strumento della parola e dell’ascolto. Ci accade di avere l’urgenza della presenza di un amico per placare un dolore, una voragine. Allo stesso modo in carcere ci possono essere situazioni in cui un cortocircuito della mente può essere gestito, almeno nell’emergenza, dalla presenza di un operatore, di qualcuno che si ferma e sta lí fino a quando la crisi non rientra, la tensione non si stempera.
La costrizione è già di per sé un fattore esasperante. Ciò che all’esterno è frustrazione, dentro il carcere diventa spesso ossessione. Chi sta male ha bisogno di sentire che il suo malessere ha l’attenzione di qualcuno. Lui non vede oltre e il suo sguardo ha solo quest’angolazione. La malattia monopolizza i pensieri, è totalizzante. Cosí la ripetizione diventa il tratto caratterizzante del suo modo di relazionarsi agli altri. Ogni figura, che sia un agente o un volontario, diventa un interlocutore a cui sollecitare questa attenzione, un atto di cura. La ripetitività aumenta se per caso la risposta non arriva o non è quella sperata: si continua a chiedere la medesima cosa a tutti nella speranza di una risposta diversa. Si rivendica qualcosa e, se ci si considera trascurati, si può esplodere.
Ed ecco che l’ascolto serve non solo a sminare ma a selezionare le situazioni: a cogliere quelle di potenziale pericolo o di reale gravità. La creazione cioè di una relazione è fondamentale per prevenire e se serve per guidare, accompagnare. Durante i miei anni a Bollate ho imparato a conoscere tutti i detenuti, ho cercato di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Senza sbarre
  4. I. Incontrare il carcere
  5. II. Guardare il carcere
  6. III. Vivere nel carcere o vivere il carcere
  7. IV. Decidere, rischiare, sbagliare in carcere
  8. V. Rinascere in carcere
  9. VI. Cambiare il carcere
  10. Ringraziamenti.
  11. Il libro
  12. Le autrici
  13. Copyright