Le sfide storiografiche.
Per avere un’idea chiara di quale sia stata la visione gramsciana del fenomeno fascista – quella che in termini accademici si potrebbe definire la sua «interpretazione del fascismo» – era necessario poter leggere tutti di fila gli innumerevoli frammenti di cui essa si compone. Ovvero poter contare sull’intero corpus della sua immensa e frastagliata produzione, ordinato nel suo progressivo sviluppo in presa diretta con una realtà politica, sociale, culturale che mutava con estrema rapidità e che costituiva appunto la materia viva con cui quell’interpretazione veniva plasmata.
Lo diceva già con chiarezza lo storico Enzo Santarelli, curatore della prima edizione degli scritti Sul fascismo1, quando annotava che «per avere un’idea di Gramsci non soltanto antagonista del regime e profeta della sua caduta davanti al Tribunale speciale, ma anche interprete del fascismo» bisognava «ricostruire tessera per tessera, piega dopo piega, la serie degli scritti, di tutti gli scritti e gli interventi nel dibattito quotidiano, anche interno al suo partito» oltre alla considerazione della sua «biografia intima e ideale». E aggiungeva, allora, che «l’opera non è ancora compiuta»2.
Certo non sarebbe bastata l’edizione einaudiana delle Lettere dal carcere3, la prima opera di Gramsci pubblicata, già nel 1947, in Italia, che pure fu un grande successo, non solo politico, anche letterario (vinse il Premio Viareggio), ma che offriva una visione piú del Gramsci vittima del fascismo che non suo interprete, oltre a essere ancora troppo parziale (appena duecentodiciotto lettere, meno della metà di quelle che compariranno nelle edizioni successive4) e troppo reticente sui duri problemi personali e politici, per effetto della attenta (e preoccupata) selezione togliattiana. Né sarebbero stati sufficienti a una piena comprensione del percorso di Gramsci verso una «teoria del fascismo» autonoma i successivi undici volumi della sua opera completa, pubblicati sempre da Einaudi tra il 1948 e il 1971: i sei Quaderni del carcere5, ancora «smontati» rispetto al loro ordine cronologico e «rimontati» per temi (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Il Risorgimento, ecc.). E gli scritti precedenti all’arresto: quelli «giovanili» (1914-18) pubblicati nel 19586, gli articoli sull’«Ordine Nuovo» (1919-1920)7 e quelli intermedi (1916-1920 tratti dalla rubrica Sotto la mole8), usciti nel 1960, a cui si aggiungeranno, tra il 1966 e il 1971, i due volumi su Socialismo e fascismo9 e sulla Costruzione del Partito comunista (1923-1926) 10.
Una panoramica indubbiamente preziosa, ma insufficiente se ancora alla metà degli anni Ottanta uno storico del fascismo (della sua cultura e delle sue interpretazioni), come Pier Giorgio Zunino poteva affermare che «è difficile sfuggire alla sensazione che i molti fili di cui si compone la lettura gramsciana del fascismo non siano stati ancora riuniti in una interpretazione complessiva»11. Sarebbero stati necessari, non perché si giungesse a una soddisfacente sistemazione organica di quell’interpretazione, ma perché il viaggio potesse incominciare, strumenti analitici piú sofisticati, apparati critici piú completi, come quelli messi a disposizione degli studiosi dalla nuova serie delle Opere di Antonio Gramsci pubblicata nella Nuova Universale Einaudi (dieci raccolte progettate, sette edite) a cominciare dalla seconda metà degli anni Settanta; e la monumentale riedizione critica dei Quaderni curata per l’Istituto Gramsci da Valentino Gerratana (tremilatrecentosettanta pagine, un unico volume, con novecentonovantasei pagine di «apparati»: note ai testi, indice delle opere e dei periodici citati, indice degli argomenti, indice dei nomi, tavole delle concordanze, ecc., indispensabili per navigare all’interno di una immensa quantità di materiali costruiti giorno per giorno nelle condizioni estreme del carcere). E poi le edizioni degli scritti tra il 1913 e il 1919 (Cronache torinesi12, La Città futura13, Il nostro Marx14) affidate al certosino lavoro filologico di Sergio Caprioglio, a cui si aggiungerà quella sul periodo dell’«Ordine Nuovo»15 curata da Valentino Gerratana e Antonio Santucci: tutte pubblicate in rapida successione, in media una ogni due anni, tra il 1980 e il 1987, e arricchite, rispetto alle edizioni precedenti, da nuove attribuzioni frutto di meticolose ricerche su sigle puntate, nom de plume e firme redazionali.
È sicuramente grazie a questo solido retroterra documentario se, a cominciare dalla fine degli anni Settanta, il panorama interpretativo si è arricchito di nuove elaborazioni in grado di offrire del pensiero di Gramsci una lettura piú organica e meno esposta alle contingenze politiche del momento (interne ed esterne alla vicenda del Pci e della sua leadership). In primis il monumentale lavoro di Leonardo Paggi, Le strategie del potere in Gramsci16, minuziosa ricostruzione del reticolo di acquisizioni culturali, di rapporti politici nazionali e internazionali, di vicende di contesto che permettono di seguire nel suo farsi lo sviluppo della elaborazione strategica gramsciana e, in questo ambito, la sua visione del fascismo. E prima ancora gli studi pionieristici di Luisa Mangoni sul «problema del fascismo nei Quaderni del carcere» e di Franco De Felice su «rivoluzione passiva, fascismo, americanismo in Gramsci»17.
Lavori che da una parte hanno permesso di sfatare alcuni luoghi comuni, a cominciare da quello di una relativa marginalità, almeno iniziale, della riflessione sul fascismo – in qualche misura una sottovalutazione del suo carattere per cosí dire «epocale» e della sua pericolosità – nel sistema di pensiero gramsciano. Dall’altra di mostrare piú chiaramente le difficoltà nel mettere a fuoco il profilo dell’interpretazione gramsciana del fenomeno, dovute non tanto alla frammentarietà della riflessione, ma al contrario alla sua organicità. Come ha ben evidenziato Ernesto Ragionieri, l’analisi gramsciana – al pari di quella togliattiana di cui piú direttamente parlava18 – non aveva il carattere di una «trattazione meramente accademica»19 ma quello di un’elaborazione militante, da parte di dirigenti politici impegnati in una lotta dalle mutevoli vicende e dagli alterni possibili esiti, in cui centrale era «il reciproco rapporto tra il processo conoscitivo e lo sviluppo delle lotte delle classi, tra la trasformazione dei regimi sociali e politici e il definirsi nei loro confronti dei giudizi e delle posizioni del movimento»20 – nazionale e internazionale – a cui essi appartenevano e in cui avevano investito totalmente le proprie vite.
Si spiega cosí la complessità e l’apparente frammentarietà dell’analisi: perché complessa e frammentaria, oltre che mutevole, nello spazio e nel tempo, era la concreta materialità dell’esperienza osservata e vissuta. Dunque, dietro l’aspetto per molti versi proteiforme del fenomeno fascista che emerge dall’ampio mosaico dei testi, sta il fatto fondamentale che il fascismo per Gramsci – e per i suoi compagni di lotta – non era semplicemente un «oggetto» di studio, ma costituiva il contesto stesso in cui la propria esperienza conflittuale si collocava, riflettendo e condizionando, nelle sue mutazioni morfologiche e programmatiche, i presupposti e gli effetti delle mosse dell’osservatore-antagonista. Un contesto, possiamo aggiungere, citando ancora Ragionieri, «del quale la durata nel tempo e l’estensione nello spazio, e quindi l’origine e la natura, tendevano a sottrarsi ad ogni tipo di previsione»21 a lungo termine, e si definivano e ridefinivano nel delicato equilibrio tra le decisioni tattiche e le valutazioni strategiche di quella comunità, sia nazionale sia internazionale, che si riconosceva nell’inusitato progetto della «rivoluzione mondiale».
Per queste ragioni lo sforzo di chi intende «distillare» dallo sconfinato corpus gramsciano la sua specifica e originale concezione del fascismo non può sottrarsi alla necessità di padroneggiare un ampio numero di variabili o, se si preferisce, di «coordinate» tra cui entrano con ruolo di rilievo sia la cultura originaria dell’autore, cosí come si è venuta formando negli anni di apprendistato torinesi, sia la vicenda del Partito, il Pcd’I, di cui fu co-fondatore, dirigente e per un breve periodo segretario (vicenda, come è noto, assai accidentata, disseminata di conflitti interni di ampia portata tattica e strategica). Sia infine la parallela, e non sempre sovrapponibile, vicenda dell’Internazionale comunista e degli accaniti dibattiti svoltisi nel suo ambito, a loro volta connessi alle alterne – e tragiche – vicende interne al Partito comunista (bolscevico) russo.
I fondamenti e il metodo.
Al di sotto di questi molteplici livelli e del loro fitto reticolo d’interazioni stanno tuttavia due punti «baricentrici», senza la considerazione dei quali è impossibile cogliere appieno la natura e il senso dell’intera costruzione di pensiero gramsciana, e all’interno di questa, in posizione centrale, l’elaborazione della sua «teoria del fascismo». Da un lato l’epocale «rivoluzione spaziale» attraverso cui, tra il 1914 e il 1917, prima la Guerra mondiale (per via militare) poi la Rivoluzione d’ottobre (in termini politici) vennero producendo un inedito «spazio-mondo», che eccedeva i confini degli Stati nazionali e dei rispettivi «soggetti politici» per offrire all’immaginario incandescente delle masse e delle avanguardie un ambito concreto di quella che appariva come un’autentica «rivoluzione mondiale». Dall’altro lato la considerazione di una generale «crisi di egemonia» della borghesia, a livello quantomeno europeo, all’interno della quale la variabile fascismo aveva una collocazione centrale sia in rapporto alla specificità della «crisi italiana», sia nell’articolazione della sua gestione sul piano internazionale.
Sul primo punto, Gramsci era stato straordinariamente precoce nel coglierne la portata «cosmico-storica», per cosí dire, e le immediate conseguenze politiche. Già nel novembre del ’17 – praticamente in tempo reale rispetto agli avvenimenti russi – scriveva sul «Grido del Popolo»22 che «tre anni di guerra hanno ben portato delle modificazioni del mondo». Anzi, precisava, «hanno reso sensibile il mondo» (il corsivo è suo) cosicché «Noi sentiamo il mondo; prima lo pensavamo solamente». E aggiungeva: «Ci saldavamo alla collettività piú vasta solo con uno sforzo di pensiero, con uno sforzo enorme di astrazione. Ora […] vediamo uomini, moltitudini di uomini dove ieri non vedevamo che Stati o singoli uomini rappresentativi»23. L’esplosione dell’ottobre russo – con la sua «grande e terribile» potenza di mobilitazione delle masse e dei singoli chiamati a guidarle – renderà poi quel panorama il campo per un’inedita idea di rivoluzione intesa come possibilità di riscatto dell’intero genere umano, che a sua volta avrebbe generato un’energia apparentemente inesauribile, capace di alimentare una nuova generazione di militanti (tra cui Gramsci) determinati a aderire a un progetto politico e a un impegno esistenziale «totali», perché fondati, come è stato scritto, su «una critica radicale dell’esistente»24 e sul senso di portare sopra le proprie spalle il peso gravissimo di una responsabilità globale. Cosí come quello stesso spazio inedito, spalancatosi d’improvviso di fronte ai popoli e agli individui, sarebbe stato il contesto per sradicanti ventate di turbamento nella vertigine prodotta dall’impressione di vivere in un mondo «grande e terribile, e complesso» – come scriverà nel settembre del ’17 – in cui «ogni azione scagliata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati»25.
Il secondo punto ri...