Storia d'Italia in 15 film
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Storia d'Italia in 15 film

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Storia d'Italia in 15 film

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E se fosse il cinema a raccontare la Grande Storia? Non sono forse Amarcord, Tutti a casa, Palombella rossa, Sandokan e molti altri film il diario delle nostre piccole storie svelate? Alberto Crespi, uno dei più importanti critici cinematografici, rilegge la storia d'Italia in quindici straordinari film.

In viaggio con Alberto Crespi attraverso i film che raccontano la storia italiana: incontriamo D'Annunzio, umilmente alle prese con le didascalie del kolossal muto Cabiria, ci ritroviamo in trincea con Jacovacci e Busacca, i soldati 'imboscati' di La grande guerra. Alcune tappe sono obbligate, come Il sorpasso, altre sorprendenti, come quando Crespi sceglie un western anni Sessanta come film più rappresentativo della Resistenza. Marco Scognamiglio, "Il Venerdì di Repubblica"

I film raccontano sempre due epoche: quella in cui sono ambientati e quella in cui sono girati. A tenerle insieme è in queste pagine Alberto Crespi. Che cosa capiamo del fascismo guardando l'ironico Amarcord di Federico Fellini? Che cosa lega il '68 a Sandokan di Sergio Sollima? Perché della caduta del Muro e dell'avvento del berlusconismo abbiamo un fedele e dissonante precipitato nel Caimano di Nanni Moretti? Federico Pontiggia, "il Fatto Quotidiano"

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132791

1.
Il Risorgimento

«Dice... vie’ Garibaldi e dice, famo l’Italia, e io che faccio, nun me impiccio? Io so’ romano eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano, che è ’na colpa?».
Ciceruacchio/Nino Manfredi in In nome del popolo sovrano (Luigi Magni, 1990)
1860 (Alessandro Blasetti, 1934)
La presa di Roma (Filoteo Alberini, 1905)
Viva l’Italia (Roberto Rossellini, 1961)
Il Gattopardo (Luchino Visconti, 1963)
Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (Florestano Vancini, 1972)
Il giovane Garibaldi (Franco Rossi, 1974)
Arrivano i bersaglieri (Luigi Magni, 1980)
Noi credevamo (Mario Martone, 2010)
Il viaggio inizia a Roma, a Porta Pia, la sera del 20 settembre 1905. Né il luogo né la data sono casuali. Su uno schermo all’aperto all’inizio di via Nomentana viene proiettato La presa di Roma, «kolossal» storico di Filoteo Alberini. Con i 7 «quadri» in cui la vicenda è articolata e i 250 metri di pellicola (circa 10 minuti), il film appare davvero colossale agli spettatori dell’epoca, abituati a visioni cinematografiche di pochi secondi. Due anni prima, negli Stati Uniti, la produzione Edison The Great Train Robbery (Edwin S. Porter, 1903) ha suscitato scalpore con i suoi 11 minuti di durata. Le misure del cinema sono ancora quelle. È iniziato un nuovo secolo e sono passati dieci anni dalla prima proiezione pubblica dei Lumière, ma nessuno osa ancora immaginare che i film possano durare un’ora, un’ora e mezza e anche più.
Filoteo Alberini ha 38 anni (è nato a Orte il 14 marzo 1867) e viene da lontano. Come quasi tutti i pionieri del cinema è qualcosa a metà fra uno scienziato e un imprenditore, e anche se La presa di Roma viene definito «speciale ed artistico lavoro cinematografico» (Brunetta 1, p. 1) è probabile che essere considerato un artista gli importi ben poco. Dopo aver lavorato all’Istituto Geografico Militare di Firenze, l’11 ottobre 1895 (a 28 anni) ha brevettato un’invenzione denominata «Kinetografo Alberini». Sa benissimo che i fratelli Lumière hanno da poco depositato in Francia un brevetto non molto diverso dal suo, ma forse in quel giorno di ottobre non immagina che due mesi e mezzo dopo i francesi presenteranno per la prima volta in pubblico alcuni film girati con il loro apparecchio. Ma i Lumière sono una potenza industriale, mentre Alberini è solo e non è ricco. Il cinema, però, gli sembra un’avventura da tentare, un’impresa in cui investire tutte le sue ambizioni. Dal brevetto a La presa di Roma passano dieci anni durante i quali Alberini diventa gestore di sale cinematografiche prima a Firenze poi a Roma. Non dobbiamo pensare ai multiplex di oggi, e nemmeno alle grandi monosale cittadine in cui i cinefili del dopoguerra hanno vissuto la propria educazione sentimentale.
A cavallo fra Otto e Novecento le sale cinematografiche sono qualcosa a metà fra la caverna di Platone e lo stand di un luna-park: un universo fumoso e promiscuo, in cui gli spettatori entrano ed escono a piacimento, i film programmati sono brevissimi e numerosi e la fruizione è al tempo stesso magica e discontinua. Magica perché siamo di fronte a una delle grandi diavolerie del Moderno, assai più affascinante – perché visibile collettivamente – della lanterna magica e di altre simili forme di spettacolo visivo; discontinua perché la gente entra a metà di un film, esce quando si è stufata, parla, fuma, mangia; i film sono rigorosamente muti e ben che vada c’è un pianista che strimpella, le grandi sale con orchestra e posto assegnato (come a teatro) sono ancora di là da venire.
È in questo mondo pionieristico e brulicante che Alberini diventa un divulgatore della propria invenzione e della neonata forma di spettacolo. Finché conosce un altro pioniere, Dante Santoni, e assieme a lui capisce che i guadagni possono moltiplicarsi producendo da soli (e vendendo ad altri) i film da mostrare. I due fondano nel 1905 la prima società di produzione con sede a Roma (fino a quel momento, e ancora per qualche anno, la capitale italiana del cinema è Torino). La battezzano «Manifattura di pellicole per cinematografi», ma già il 1° aprile 1906 la società, con l’ingresso di un terzo socio (Adolfo Pouchain, ingegnere, di famiglia molto solida), prende il nome di Cines: e la storia del cinema italiano comincia, perché la Cines – con molti cambi di organigramma – diventerà il marchio più importante della nostra cinematografia.
La presa di Roma è una geniale operazione di marketing. È considerato il primo film di finzione del nostro cinema e ricostruisce l’episodio culmine del Risorgimento, l’ingresso a Roma delle truppe italiane nel 1870. I pochi quadri che si sono conservati sono statici, abissalmente lontani dall’idea di cinema che abbiamo noi spettatori del XXI secolo. E però debbono fare un’enorme impressione alle persone radunate a Porta Pia, la sera del 20 settembre 1905. Alberini ha potuto girare nel luogo autentico: in 35 anni quasi nulla è cambiato, fuori da Porta Pia la Nomentana è ancora una strada di campagna, e l’irruzione dei bersaglieri nella breccia suona terribilmente autentica a spettatori che hanno di quell’evento un ricordo personale. Anche il quadro iniziale girato a Ponte Milvio ha la forza della location autentica, quel senso di viaggio nel tempo che molti film muti girati en plein air comunicano oggi, a oltre un secolo di distanza.
Ma è nel quadro finale che Alberini raggiunge il massimo della sua forza registica: sullo sfondo di una scenografia allegorica, l’Italia – «interpretata» da una donna in tunica, con la corona in capo, che regge il Tricolore – appare circondata da quattro personaggi maschili. La didascalia recita: «L’Italia libera una e indipendente tributa a Cavour, a Vittorio Emanuele II, a Garibaldi e a Mazzini, suoi grandi artefici, la palma della vittoria e il plauso del popolo». I quattro «grandi artefici» sono facilmente riconoscibili e costituiscono un pantheon ovvio per noi moderni, meno per gli spettatori del 1905, quando l’Italia è una monarchia e il sogno repubblicano di Mazzini è incarnato da un partito d’opposizione, il Pri (fondato nel 1895), orgogliosamente minoritario (anche se poco tempo dopo la proiezione di La presa di Roma, nel 1907, Roma avrà uno dei primi sindaci mazziniani-repubblicani d’Italia, Ernesto Nathan).
Ci vorrà ancora qualche anno perché la produzione italiana di film si accentri a Roma, ma è legittimo affermare che tutto nasce quella sera: girando il primo film storico italiano, Alberini sancisce la centralità di Roma nella memoria condivisa del Risorgimento, proprio nello stesso anno in cui sceglie definitivamente la Capitale come sede del proprio lavoro. Scrive Gian Piero Brunetta: «La presa di Roma ha, per il cinema italiano, lo stesso valore di manifesto visivo che per la Rivoluzione francese ha assunto Il giuramento degli Orazi dipinto da David nel 1785. È un documento vivente e ha già la forma del monumento» (Brunetta 1, p. 2). Nel 1905 l’impatto di un film è difficilmente paragonabile a quello di un capolavoro pittorico, ma è indiscutibile che in questo suo esordio il cinema italiano si dia un universo ideologico di riconoscimento e un grande tema sul quale lavorare. L’ideologia è, appunto, quella dei «padri della patria», uniti là sulle nuvole assieme all’Italia e al Tricolore, anche a costo di azzerare nell’immediatezza visiva e semplificatrice di una singola immagine le enormi differenze che li dividevano. Il tema è ovviamente il Risorgimento. E qui casca, quasi subito, l’asino. Non c’è bisogno di ripercorrere 110 anni di storia per affermare che il Risorgimento è in realtà un grande rimosso del nostro cinema. Avrebbe potuto essere il nostro western: non lo è stato.
Più avanti vedremo di individuare alcune ragioni di queste rimozioni, ma è interessante rimarcarne subito una, già evidente: Alberini mostra Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele II solo nel quadro finale, come icone all’interno di una super-icona. Nei quadri precedenti gli unici personaggi i cui nomi compaiono nelle didascalie sono il generale italiano Carchidio (il messaggero mandato da Cadorna ad annunciare la resa di Civitavecchia) e il generale papalino Kanzler, capo di Stato maggiore dell’esercito pontificio. Il primo film italiano sul Risorgimento rievoca un grande evento, dà visibilità alle masse (i bersaglieri che sfondano la breccia), mette in scena due personaggi che in quell’evento hanno avuto un ruolo da comprimari e relega in una dimensione pittorico-simbolica – che abbiamo definito icona ma che non sarebbe una bestemmia ridimensionare a santino – i grandi protagonisti. Nel 1905 era difficile fare di più. Ma è abbastanza incredibile che anche in seguito il nostro cinema non abbia realizzato film importanti su Mazzini, sui Savoia e su Cavour (che almeno ha avuto uno sceneggiato tv, Vita di Cavour, diretto per la Rai nel 1967 da Piero Schivazappa: lo interpretava Renzo Palmer). Fa eccezione Garibaldi, ma anche lui ha avuto i suoi bravi momenti di invisibilità. E uno di questi è proprio 1860 di Alessandro Blasetti: un film sulla spedizione dei Mille in cui Garibaldi non si vede quasi mai.

«1860»

Quando Alessandro Blasetti affronta l’avventura di 1860 ha solo 32 anni (è nato a Roma il 3 luglio 1900) ma è già il cavallo di razza del cinema fascista. Non totalizza gli stessi incassi di Mario Camerini, classe 1895, che con Gli uomini che mascalzoni... (1932) ha appena creato lo status divistico di Vittorio De Sica. Ma è l’autore più sperimentale e più estroverso, ed è un personaggio: con lui nasce anche in Italia la figura del regista superstar, tipo Griffith o Cecil B. De Mille in America, che nel dopoguerra lo renderà perfetto per recitare se stesso in due film dove è necessario mostrare un cineasta onnipotente all’opera (Bellissima di Luchino Visconti, 1951; Una vita difficile di Dino Risi, 1961).
L’idea di rievocare la spedizione dei Mille nasce da Emilio Cecchi, letterato illustre e in quel momento direttore artistico della Cines, che nel 1932 (anno di celebrazioni, ricorrono 50 anni dalla morte di Garibaldi) commissiona un «soggetto garibaldino» a Gino Mazzucchi, scrittore e poeta che collaborerà anche a O la borsa o la vita di Carlo Ludovico Bragaglia (1932) e a Treno popolare di Raffaello Matarazzo (1933). Blasetti lo conosce dal ’28, e anni dopo lo descriverà «allampanato, increspato nel vago sorriso dei timidi», un uomo «dai sogni rivolti all’in su, così malamente percepibili attraverso due lenti spesse come culi di bottiglia» (traiamo questa e molte altre citazioni dal libretto incluso nell’ottima edizione dvd di 1860, p. 7). Mazzucchi racconta la commissione di Cecchi in un articolo uscito nel 1933 su «Il lavoro fascista», ricordando come l’intento fosse «dimostrare l’influenza del pensiero di Garibaldi nel secolo passato in Italia, e tutto quello spirito d’avventura che ha sempre guidato gli italiani nelle loro più grandi imprese». L’idea di Garibaldi più come simbolo di italianità, che come personaggio storico in sé, è presente ab ovo.
Dopo varie stesure entra nel progetto Blasetti, che su input di Cecchi mescola il soggetto di Mazzucchi con le Noterelle d’uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba. Le riprese si svolgono tra la fine del 1932 e i primi giorni del 1933, anche se il film uscirà solo nel marzo del 1934. In Sicilia le condizioni non sono favorevolissime: Blasetti lamenta più volte nella corrispondenza con Cecchi il mancato arrivo di un gruppo generatore, Cecchi gli risponde raccomandando di non esagerare in effetti fotografici troppo estetizzanti. Curioso come, durante le riprese, entrambi siano incerti sul titolo che in un primo momento è L’ondata rossa e solo alla fine diventerà 1860. Il regista è particolarmente felice degli attori e delle comparse trovati sul posto, a cominciare dal protagonista Giuseppe Gulino, un vero pastore; e parla più volte delle «fogge dei loro autentici abiti da caprai». Il villaggio in cui si svolge la prima parte del film è Valguarnera, abbandonato e disabitato, dove la presenza della troupe attira i cronisti locali: Marcello Sofia scrive sull’«Ora» di Palermo (29 dicembre 1932) che «Blasetti nei periodi di riposo è un compagnone amabile; quando lavora diventa intrattabile e appare vent’anni più vecchio» (libretto 1860, p. 16). In una lettera del 4 gennaio 1933 Blasetti annuncia con orgoglio: «È mia ferma intenzione finire il film con un deciso vantaggio finanziario sul preventivo e ci riuscirò». La battaglia di Calatafimi viene girata nell’aprile del ’33 ad Acqua Traversa, sulla Cassia, presso Roma: le comparse arrivano in costume con il tram numero 35, da piazza Cavour.
Il risultato è un film breve, apparentemente molto semplice, di cui tutti i critici – dagli anni Trenta a oggi – sottolineano l’approccio antiretorico. In realtà si tratta di un’opera profondamente stratificata, molto «artefatta» e consapevole, dove le istanze di attualizzazione fascista del Risorgimento sono al tempo stesso soddisfatte e abilmente bypassate; e dove Blasetti opera sostanzialmente una rilettura dal basso dell’impresa garibaldina, come epopea popolare e mito fondante dell’unità (anche linguistica) italiana.
Scrive Carlo Lizzani nella sua Storia del cinema italiano: «Il fatto che nel film Garibaldi appaia soltanto di sfuggita, e che il filo conduttore del racconto sia il modesto agire di questo montanaro e della sua giovane sposa, sembra sottolineare un’intenzione polemica che, se ci fu, in Blasetti, fu sicuramente mediata e fusa in una spontanea e sincera interpretazione popolaresca e antiretorica del nostro Risorgimento» (Lizzani, pp. 55-56). La polemica, se c’è, è tutta rivolta al «prima», all’Italia ancora divisa che Garibaldi riuscirà a unificare – e quindi all’Italia pre-fascista. La scelta di non far vedere quasi mai Garibaldi è fortemente mitopoietica, nel senso di una sapiente costruzione del mito che crea un parallelo fra lui e Mussolini proprio rifuggendo dall’iconografia garibaldina, così nota e fissa nella memoria di tutti gli italiani.
La trama non ha (quasi) nulla di storicamente reale: Blasetti inventa una Sicilia fuori dal tempo, volutamente arcaica, dove sembra che tutti attendano Garibaldi per liberarsi dal giogo dei Borboni. La didascalia iniziale appare sull’immagine di un paesaggio che, grazie a un sapiente carrello all’indietro, si rivela visto dall’interno di una cella. Il testo dice: «La Sicilia era ancora sotto il dominio borbonico che opponeva, al crescente odio del popolo, reggimenti di mercenari stranieri. La rivolta di Palermo era soffocata nel sangue, ma le distruzioni e le stragi non facevano che accrescere l’accorrere dei ‘picciotti’. Le bande ribelli si annidavano sui monti, in attesa del liberatore GIUSEPPE GARIBALDI». Si vedono immagini di una forca, i soldati borbonici parlano esclusivamente tedesco (la prima parola che si sente nel film è un ordine in tedesco, «Feuer!»: fuoco!): quello che Blasetti mette in scena è un Paese occupato in attesa di un Messia.
Quel Messia è Garibaldi, ma la sua invisibilità permette a qualunque spettatore degli anni Trenta di pensare liberamente al duce e di «traslare» la Sicilia dell’Ottocento nell’Italia pre-fascista del primo Novecento. I Mille si vedono solo nella spettacolare scena della battaglia di Calatafimi, che chiude il film. In precedenza tutta la trama si muove su due livelli: il viaggio del contadino Carmineddu, che dalla Sicilia raggiunge Garibaldi a Quarto per comunicargli l’unanime attesa del popolo siciliano; e l’attesa dello sbarco in Sicilia, dove il popolo è pronto a sollevarsi. Nel corso della battaglia di Calatafimi, girata magnificamente, Blasetti ha però un’idea folgorante: anziché mostrare Garibaldi realizza una sua lunga soggettiva, un carrello in cui la macchina da presa si identifica con gli occhi del comandante e ridà forza ai combattenti ormai esausti. È quello il momento in cui «si fa l’Italia o si muore», e l’occhio del cinema diventa l’occhio del capo che infonde coraggio ai suoi uomini.
La prima versione del film ha un finale diverso: una bandiera italiana riempie lo schermo, e dal Tricolore si scende a un gruppo di garibaldini ormai anziani che, nel presente del film (gli anni Trenta), assiste a una sfilata di camicie nere al Foro Italico di Roma e rende loro omaggio. È una delle molte varianti effettuate dopo le prime proiezioni, e che saranno mantenute nella riedizione del 1951 (il film tornò in sala con il titolo 1860. I Mille di Garibaldi). Nella primissima versione (che nel citato cofanetto Ripley’s è presente con una copia desunta da un vecchio 16 mm) le didascalie sono più numerose e meno auliche. La prima dice: «La rivolta di Palermo era stata soffocata nel sangue dei giustiziati della Gancia. Francesco II Borbone e Sofia di Baviera, Regnanti sulle Due Sicilie, opponevano al crescente odio del popolo interi reggimenti di mercenari stranieri. Ma distruzione e stragi aumentavano l’accorrere dei ‘picciotti’ alle bande ribelli annidate nelle gole della Sicilia in attesa del liberatore: GIUSEPPE GARIBALDI». La più interessante è forse la seconda (espunta nelle copie successive...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Il Risorgimento
  3. 2. La guerra di Libia
  4. 3. La prima guerra mondiale
  5. 4. Il fascismo
  6. 5. L’8 settembre 1943
  7. 6. La Resistenza
  8. 7. Il dopoguerra
  9. 8. Il ’48
  10. 9. Il boom
  11. 10. Il ’68
  12. 11. Da piazza Fontana agli anni Settanta
  13. 12. Il 1974
  14. 13. Dal magico ’89 al berlusconismo
  15. 14. Il Duemila
  16. 15. 2016 e oltre
  17. Ghost track Fatta l’Italia, ora facciamo gli italiani (al cinema)
  18. Bibliografia
  19. Ringraziamenti & dediche