II. Prigionia al Nord e resistenza all’arruolamento
7. «I prigionieri napoletani si rifiutano servire»
L’ordine di spedire i primi prigionieri napoletani al Nord si accompagnava all’intenzione dichiarata di incorporarli immediatamente nell’esercito piemontese. Tutti i prigionieri imbarcati a ottobre e novembre erano di truppa, o come si diceva allora di bassa forza1. Trattandosi di sottufficiali e soldati e non di «signori uffiziali», pochi sembrano essersi posti, all’inizio, il problema del loro consenso. All’arrivo del primo contingente, l’8 ottobre, il corrispondente genovese della Gazzetta di Torino annotava: «si crede che verranno incorporati nell’esercito qualora vogliano farne parte», ma la Gazzetta di Genova assicurava addirittura: «Oggi stesso si incorporano nella nostra armata i prigionieri napolitani ultimamente qui giunti»2. Sempre l’8 il direttore generale del ministero della Guerra, Alliaud, comunicava a Boyl la decisione ministeriale: i prigionieri dovevano essere «ripartiti fra i reggimenti delle varie armi, per esservi incorporati, e compiervi la loro ferma» (è lo stesso giorno in cui Cavour, come si ricorderà, scriveva: «Ho dato l’ordine che fossero immediatamente ripartiti nei vari depositi di fanteria ed arruolati come soldati nostri»). Il comandante di Genova ebbe l’incarico di suddividerli fra le armi di appartenenza, «in numero eguale per ciascun reggimento per quanto possibile, e quindi indrappellati avviarli ai rispettivi depositi»3.
Fu proprio Boyl a scoprire per primo che le cose non erano così semplici. L’11 ottobre telegrafava al ministero: «I prigionieri napoletani si rifiutano servire. Si chiede se si debba usare la forza». L’immediata risposta del ministero è illuminante circa il miscuglio di formalismo legalitario e velato autoritarismo che caratterizzava l’azione del governo sabaudo: «Dei prigionieri Napoletani devono essere arruolati quelli soltanto che acconsentano. Per gli altri non si può usare la forza visto che non sono Regi Sudditi, l’annessione non avendo ancora avuto luogo. Ove il numero di quelli che rifiutano sia troppo grande e non possano essere ritenuti prigionieri lo scriva subito, il Ministero penserà a mandarli a Fenestrelle». Sarà opportuno sottolineare che se la scelta di Fenestrelle suona indubbiamente minacciosa e punitiva, la fortezza era stata individuata già l’anno prima come luogo di concentramento di prigionieri di guerra, in quel caso austriaci: agli occhi del ministero, la minaccia di mandare là i napoletani significava innanzitutto chiarire che sarebbero stati davvero trattati come prigionieri di guerra, se, contrariamente alle aspettative, avessero rifiutato di rivestire la divisa nazionale4.
Come si vede, il ministero a questa data era ancora beatamente ottimista, e supponeva che solo una minoranza avrebbe rifiutato. Ma quello stesso 11 ottobre Boyl mandò un rapporto più dettagliato, che costituisce la prima, e finora poco nota, testimonianza sull’atteggiamento psicologico dei prigionieri napoletani catturati al Volturno e trasportati al Nord:
Questa mattina si presentò l’Ajutante nel locale dove sono i prigionieri Napoletani ed essi si rifiutarono di uscire perché non vogliono entrare al nostro servizio; rimangono sdrajati in terra senza volersi alzare: i sotto ufficiali li temono ed andatovi il Generale Comandante di Piazza seppe da questi che i soldati si rifiutano dicendo che loro sono prigionieri di guerra, e fino a tanto che vi è il loro Re non vogliono servire nessuno per cui non rispondono all’apello e non muovono dalla posizione in cui sono. Qualora V.S. il creda io pensai di dividerli in diversi locali, come farò, ed allora si potrà ottenere qualche cosa: dessi non sono cattivi e fanno solo un’opposizione passiva5.
Come si vede, i soldati napoletani, che a quella data erano ancora soltanto i 900 del primo contingente, tutti catturati al Volturno, dimostravano un atteggiamento chiaro e responsabile: erano consapevoli dei propri diritti in quanto prigionieri di guerra, e legavano esplicitamente la scelta della resistenza passiva al fatto che il re cui avevano giurato fedeltà non era ancora stato detronizzato. Questo comportamento conferma tutto ciò che sappiamo da tempo, ma che il governo piemontese a quanto pare non aveva ben chiaro, circa la tenace fedeltà dei soldati alla dinastia borbonica; una fedeltà che re Francesco aveva incoraggiato anche a costo di alimentare l’ostilità della truppa per gli ufficiali sospettati di liberalismo6. I sottufficiali erano visibilmente più malleabili, dato che erano di mestiere e non di leva come i soldati, e per loro continuare a servire significava salvare una carriera: Boyl concluse chiedendo al ministero se i sottufficiali che accettavano di essere inviati ai corpi per l’arruolamento potevano conservare il loro grado, e il ministero rispose di sì.
Ulteriori particolari sulla sommossa dell’11 vennero dati dai giornali, in tono molto più sensazionalista rispetto a quello di Boyl:
Ieri, 11, sul declinar del giorno, i soldati napoletani alloggiati nell’ex-monastero dei Santi Giacomo e Filippo, in numero di 900 circa, si ammutinarono sotto pretesto di volersene andare a casa. I gridi e gli urli erano assordanti e minacciosi, per modo che i pochi soldati di guardia uscirono dal locale e si schierarono rimpetto colle baionette spianate. Frattanto accorrevano i soldati del deposito militare ivi vicino ed un distaccamento d’altra parte, e s’impossessarono dei più tumultuanti che furono condotti nei forti. Più tardi circa 400 dei detti prigionieri vennero tolti dall’ex-monastero e condotti, crediamo, in una delle caserme per essere meglio sorvegliati7.
Nei giorni successivi il governo rifletté su questa situazione inattesa e decise che bisognava essere duri. Il 14 ottobre alle 11.15 del mattino Alliaud telegrafava: «Designi fra i prigionieri napoletani 300 od intorno dei più rivoltosi per essere mandati a Fenestrelle». Boyl, va detto a suo onore, prese le parti dei suoi prigionieri. Alle 13.35 telegrafava, per correggere d’urgenza l’impressione sbagliata che fosse in atto una rivolta: «I napoletani prigionieri sono quietissimi, se non che vogliono servire niun governo. Scriverò in proposito. Boyl». Quel giorno stesso partì una lettera in cui il generale spiegava che i napoletani si erano comportati in modo irreprensibile, fino a quando non era stato comunicato loro «di dover essere incorporati in questo R. Esercito». Solo quando si cercò di procedere alla ripartizione per l’arruolamento «essi, che alloggiavano tutti in una stessa caserma, si riunirono in una massa compatta e dichiararono fermamente di non voler prendere servizio». Affermavano di non poter essere costretti, in quanto legati dal giuramento di fedeltà a Francesco II, «che ognora trovasi a Gaeta». Lo scambio di telegrammi dell’11 ottobre, con la precisazione che nessuno sarebbe stato obbligato ad arruolarsi senza il suo consenso, li aveva calmati; si erano lasciati suddividere in diverse caserme senza opporre resistenza, «e sempre seguitano a tenere una condotta calma ed irreprensibile», senza lagnarsi di nulla. «Del resto debbo renderle palese che questa gente è alquanto idiota, non scevra di pregiudizi e piuttosto bigotta, per cui è assai difficile distorli dal loro proponimento, almeno per ora, e forse saranno per cambiarlo solo quando Francesco II più non si troverà sul territorio napolitano». Per spregiativo che possa apparire questo giudizio finale, sta di fatto che Boyl dissuase il ministero dai suoi proponimenti punitivi, e di Fenestrelle per il momento non si parlò più8.
Un’ulteriore testimonianza sullo stato d’animo dei prigionieri arrivati a Genova proviene dalla già citata lettera di Bertrando Spaventa, che l’8 novembre scriveva alla moglie d’aver incontrato i prigionieri napoletani della guarnigione di Capua, appena sbarcati, e d’essersi messo a chiacchierare con loro:
Ci erano alcuni abbruzzesi e di paesi vicino al mio, Bomba. Che gente curiosa! «Signò, nui non ne sapimmo niente. – Li superiuri ci hanno tradito. – Perché non ci hanno rimandato alle case nostre? – Ma, Signò, ci simmo battuti». Povera gente! Mi facea compassione.
È il quadro realistico e per nulla enfatico di gente smarrita, che s’attacca però ad alcune idee ben chiare: la convinzione di aver comunque fatto il proprio dovere e di non avere nulla da rimproverarsi, al contrario dei «superiuri», e, più forte di tutto il resto, la voglia di tornare a casa9.
8. I prigionieri divisi fra Milano, Bergamo, Alessandria, Fenestrelle e Genova
Si è visto che gran parte dei prigionieri appena arrivati a Genova ripartirono per altre destinazioni: poiché ci si aspettava di vederne arrivare presto molti di più, era indispensabile liberare spazio. Il loro rifiuto di riprendere servizio impediva di inviarli direttamente ai depositi e ai reggimenti come s’era deciso all’inizio, tanto più che questa situazione imprevista era ormai di dominio pubblico: il 1° novembre una nota del governo borbonico, pubblicata sulla Gazzetta di Gaeta, denunciò che «i Reali prigionieri fatti da Garibaldi il 1° ottobre e condotti a Napoli si costringevano a partire pel Piemonte, ove contro ogni legge militare si forzavano ad arrolarsi fra le milizie di Sardegna»10. Si trattava dunque di sgomberare tutti quegli uomini da Genova, continuando a custodirli come prigionieri di guerra; perciò si decise di suddividerli provvisoriamente fra diversi luoghi di detenzione.
A precipitare la decisione fu il telegramma di Caranti che annunciava l’arrivo di circa 5000 prigionieri, gli stessi che avrebbero dovuto andare a Orbetello. Il 7 novembre Boyl telegrafava al ministero: «Non essendovi alloggio in questa piazza per 5000 prigionieri è forza il provvedere altrimenti. Faccia sapere quanti possano esserne alloggiati». Sul telegramma giunto al ministero qualcuno annotò a matita: «1200 Fenestrelle. 1200 Alessandria. 1600 Milano. 1000 Genova»11.
La scelta di queste sedi non era casuale. Ogni gruppo era assegnato a uno dei comandi militari territoriali in cui era diviso il territorio piemontese e lombardo: Alessandria era la sede del 1° dipartimento, Milano del 2°, Genova di un comando divisionale autonomo, mentre a Fenestrelle vennero mandati i prigionieri destinati al 5° dipartimento, con sede a Torino. L’assegnazione rappresentava dunque innanzitutto una prima suddivisione geografica dei prigionieri tra i dipartimenti. Si trattava inoltre delle località dove l’esercito disponeva dei locali più spaziosi: a Fenestrelle il forte, a Milano il Castello Sforzesco e ad Alessandria la cittadella. Non a caso, erano gli stessi luoghi in cui erano stati detenuti nelle settimane precedenti i prigionieri pontifici.
Non sarà inutile soffermarsi sulle ragioni per cui nel dipartimento di Torino proprio Fenestrelle venne scelta per alloggiarvi i prigionieri. A fine settembre, quando si discuteva della sistemazione dei prigionieri pontifici, era risultato che a Torino l’unico locale di vasta capacità era il dongione dell’ex-cittadella, che però poteva accoglierne soltanto 450, e che in quel momento era occupato da quattro compagnie dell’esercito. Nel territorio del 5° dipartimento Fenestrelle era considerata l’unica sede capace di accogliere contingenti più numerosi. Il 22 ottobre il generale Cucchiari, comandante a Bologna, era stato avvertito dell’arrivo di 470 prigionieri pontifici e aveva comunicato al ministero: «non saprei come alloggiarli»; dopo una rapida indagine, si era deciso la sera stessa che «non essendovi luogo a ricoverarli né in Bologna né in Alessandria», l’unica soluzione era Fenestrelle12. E la stessa cosa, evidentemente, accadde dopo che giunse a Torino il telegramma di Boyl del 7 novembre.
Anche in quel caso la decisione venne presa all’istante: quello stesso giorno, infatti, Alliaud trasmise a Boyl e ai comandanti dei tre dipartimenti la decisione di suddividere fra Milano, Alessandria e Fenestrelle i prigionieri per i quali non c’era posto a Genova, pregandoli di provvedere all’alloggiamento. Nel caso di Fenestrelle scrisse al comandante «di provvedere affinché i detti prigionieri al loro arrivo trovino in quella fortezza preparata ogni cosa pel loro ricevimento»13. Subito dopo, al ministero si rifletté che la stagion...