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La prima tessera: Unabomber
“I profili psicologici? No, questo non è uno ‘qualunque’: sa fare una cosa molto, mooolto complicata come un microinnesco, non uno [innesco] normale, no. Una cosa così piccola che è in grado di far esplodere un ordigno talmente piccolo da essere nascosto nella scatola delle sorprese di un ovetto Kinder o in questa cazzo di musicassetta. Per fare questo non basta leggere i libri”.
“Ah beh, certo, alla fine anche lei può diventare un bombarolo, ma non di quegli aggeggi là. No no. Ci provi. Però ai primi tentativi farà esplodere il garage, ai secondi andrà al pronto soccorso senza due dita e con tracce evidenti di esplosivo addosso e al terzo ci rimetterà un occhio. Insomma: verrà intercettato prima di costruire qualcosa. Ora si chieda: perché questo non è stato intercettato? Secondo: è uno solo? E noti che non chiedo chi lo ha coperto e li copre ancora tutti, perché sono un tipo quieto e c’ho un carattere tranquillo”.
Investigatore 2 ed ex investigatore 3 del Gruppo investigativo sugli attentati perpetrati con ordigni del tipo pipe bomb, Mestre, settembre 2006 e novembre 2018; interviste a cura dell’autore
Bombe e bambini
Vent’anni prima dell’inizio “ufficiale” della storia di Unabomber. Mentre l’Italia repubblicana sta combattendo la sua battaglia con le bombe delle stragi di Stato e con il terrorismo di ogni colore, il 27 aprile 1974 un tubo metallico riempito di esplosivo a base di tritolo scoppia davanti all’istituto magistrale sloveno Slomšek di Trieste, in via Caravaggio. L’esplosione avviene alle 21.47 di un sabato piovoso e a far scattare l’allarme in questura è la telefonata del guardiano della scuola. Quando la prima volante arriva riferisce di danni all’edificio tanto gravi da far crollare parte della palestra e distruggere tutte le porte e finestre.
Le comunicazioni radio non sono perfette, in zona vi sono anche altri istituti sloveni, uno vicino all’altro: l’elementare Oton Župančič e, all’epoca, anche le medie Ss. Cirillo e Metodio. Forse per questo l’allarme diventa generale e oltre a polizia, carabinieri e vigili del fuoco arrivano anche le ambulanze. Infatti il bidello-custode, Liliano Bonelli, sembra sotto choc e riferisce agli agenti di una partita della squadra di pallacanestro: la palestra è proprio uno dei luoghi più danneggiati. Per un momento che sembra lunghissimo si teme una strage. Invece una volta tanto la fortuna è dalla parte delle vittime: la disponibilità della palestra per una partita da svolgersi quella sera era stata richiesta da parte della società Libertas alla preside dell’istituto, che però all’ultimo momento l’aveva respinta, spiegando che per regolamento l’ultimo sabato del mese la palestra doveva restare libera.
Ma la notizia della palestra piena di gente e della partita viene smentita solo dopo che gli agenti vi sono entrati e hanno visto con i propri occhi che non ci sono cadaveri. Nel frattempo sul posto si precipitano il questore D’Anchise, il vice Savastano, il responsabile dell’ufficio politico Volta e poco dopo anche il prefetto Di Lorenzo.
Nonostante la pioggia, in pochi minuti decine e decine di genitori impauriti arrivano davanti alle scuole. Molti ricordano le parole pronunciate dal segretario del Movimento sociale, Giorgio Almirante, ai camerati riuniti in piazza Goldoni pochi giorni prima. Parole di fuoco contro la minoranza slovena, contro gli “agenti dell’Est”, coloro che “ci rubano il posto di lavoro”, “succhiano i soldi dell’Italia e degli italiani per poi sputare sulla Patria e passare [il dito indice della mano puntato a Est] notizie utili di là”. Come se non bastasse, Almirante aveva poi invitato i suoi seguaci a “fare piazza pulita del bacillo slavo che si è infiltrato a Trieste”.
Come si vede tutto si svolge attorno a una data simbolo precisa: il 25 aprile.
Ma molti ricordano anche un’altra bomba che era stata piazzata sulla finestra di una scuola slovena in città.
Il 4 ottobre 1969, quattro anni e mezzo prima, durante la visita del presidente Giuseppe Saragat al maresciallo Tito, un ordigno ad alto potenziale era stato posizionato sulla finestra dell’asilo sloveno di San Giovanni, a pochi metri dallo Slomšek. Quella volta la bomba non era esplosa – si disse – perché le pile che dovevano dare la scintilla e far detonare i tubi di gelignite erano scariche. All’interno della scatola portamunizioni che li conteneva erano stati trovati anche dei volantini contro Tito, firmati dal “fronte antislavo”.
Una bomba vera, costruita da uno esperto, e perdipiù quel mistero delle pile completamente scariche, come se il bravo attentatore capace di preparare un ordigno ad alto potenziale si fosse improvvisamente bevuto il cervello. Ce n’era da lavorare, magari su quelli che l’odio antislavo lo hanno coltivato per davvero, in una città che le ferite della guerra e i tanti profughi giuliani hanno reso una polveriera. Quella volta invece, in pochi giorni, le indagini avevano portato al fermo di un povero disgraziato con problemi mentali, Antonio Severi, giudicato poi incapace d’intendere e rinchiuso in manicomio criminale. Il colpevole perfetto di cui dimenticarsi.
Ora, all’istituto Slomšek, anche tra gli inquirenti il movente dell’odio etnico sembra il più plausibile. Ma gli investigatori più anziani non dimenticano che le indagini per la bomba di quasi cinque anni prima erano state un buco nell’acqua. Era stato accusato un pover’uomo con problemi di salute mentale mentre gli esperti della squadra politica della questura giravano gli occhi altrove, sornioni.
Genitori ancora tremanti discutono fitto in sloveno davanti alla palestra dell’istituto magistrale e guardano con ansia a quel nuovo ennesimo segnale del sentimento di odio che la città invia. L’angoscia attanaglia tutta la comunità slovena: colpire i figli, ancora, come cinque anni prima all’asilo. La cosa più bestiale.
In quei giorni al quotidiano della comunità di lingua slovena, il “Primorski dnevnik” che aveva aperto la prima pagina con il titolo Bomba fascista contro una scuola slovena, arrivano molte lettere di lettori che trasudano paura. Una su tutte inizia così: “Cosa ci facciamo ancora qui? Aspettiamo la prossima bomba?”.
Risposi personalmente – spiegò anni dopo Gorazd Vesel, l’allora direttore del “Primorski” – e scrissi a quella mamma, goriziana come me, che anche i nostri genitori tremavano per noi quando i fascisti venivano a cercarci o quando nel dopoguerra c’era la caccia allo slavo. Ma avevano resistito, con le loro paure, perché il compito delle persone perbene è quello di migliorare i posti in cui vivono, e quella era la nostra terra, come per gli italiani. E noi non dovevamo essere da meno dei nostri papà e mamme nel portare avanti questo progetto che in fondo è il progetto di tutta l’umanità. Le scrissi anche che compito sociale e storico era quello di spezzare le coperture di cui hanno goduto gli attentatori fascisti in Italia e soprattutto a Nord-Est e che questo lo si poteva fare solo dall’Italia. Sarebbe passato tempo, ma ci saremmo sentiti un giorno tutti padroni delle nostre vite nei luoghi difesi dai nostri genitori. E anche da noi.
Vengono organizzati turni di guardia attorno alle scuole slovene e alla stessa redazione del “Primorski”. Ma mentre genitori e figli cercano di smaltire i loro pensieri ingarbugliati dalla paura, un giovane artificiere dell’esercito nota una cosa: il sistema della bomba, il concetto stesso dell’ordigno messo all’istituto magistrale, è completamente differente da quello della bomba messa all’asilo.
In passato, all’asilo, una scatola con candelotti di gelignite spezzati a metà e un timer costituito da un orologio da polso. Una cosa molto efficace ma molto voluminosa, tanto da essere preparata dentro a una scatola portamunizioni che pesava in tutto dieci chili e mezzo, di cui cinque chili e mezzo solo di esplosivo. Qui, all’istituto magistrale, c’è invece un tubo in acciaio tappato all’estremità con dadi a vite, contenente tritolo.
Due concetti differenti come il giorno e la notte, ma soprattutto una disparità tecnica impressionante: una bomba capace di esplodere, elettrica, complicata ma lineare la prima; una bomba terribilmente efficace, in grado di far crollare mezza palestra pur essendo piccolissima, l’altra. Un’abilità tecnica che nemmeno gli artificieri più anziani conoscono e che non hanno mai visto.
Da dove spunta questo nuovo autore? Come è diventato così bravo? Dove si è formato? Chi gli ha insegnato queste cose? Dove si è esercitato? Come mai nessuno della “squadra politica” lo conosce?
Varrebbe la pena capire, o quantomeno tentare, se ci siano, o meno, delle analogie. Capire, cioè indagare e trovare risultati. Ma nessuno tra gli inquirenti, a quanto pare, vuole provarci. Nessuno dà quindi credito ai dubbi del giovane artificiere. Così la sua nota, presto accantonata, non viene trasmessa al magistrato che conduce l’inchiesta, il sostituto procuratore Claudio Coassin, che inizia a indagare sulla pista nera. Ma il 2 maggio viene fatto ritrovare un volantino a firma Ordine nero in cui si preannuncia il “rapimento” di Coassin. Una mossa ben studiata: infatti l’inchiesta viene tolta al giovane magistrato.
L’unico aspetto positivo di questa seconda indagine è che questa volta non viene accusato alcun matto da rinchiudere in manicomio; semplicemente, dopo due arresti con rilascio e scuse, l’indagine finisce nel nulla. Risultati operativi: nessuno. Anzi, forse un risultato c’è. È il primo attentato con bomba “a tubo”, compiuto con una tecnica che gli italiani impareranno a conoscere molto bene.
Perché anche se la storia ufficiale di Unabomber, come si è visto, comincia a fare acqua da subito, da vent’anni prima della data ufficiale d’inizio (1994), poi sarà ancora peggio. Con un’altra costante che accompagnerà molte indagini sulle bombe in Italia: sembra che, anche messi di fronte a verità oggettive come due bombe completamente differenti – segnali di una preparazione che non può essere “inventata da zero” – i responsabili delle indagini, incredibilmente, non sappiano quasi vedere.
Il secondo momento che ci interessa avviene in un’altra data simbolo, l’8 settembre del 1978 a Pordenone. Un operaio che sta tornando da un caffè dopo la pausa pranzo nota, tra l’ospedale vecchio e vicolo del Forno, una specie di radiolina colorata appoggiata nella rientranza di un muro, abbastanza in basso perché ci arrivi chiunque, anche un bambino. La prende e camminando cerca di accenderla, richiamando i colleghi. In quel momento la radiolina esplode tranciandogli di netto due dita e devastando i tessuti di una mano.
All’inizio la chiamata è per un generico “incidente”, ma quando l’ambulanza torna all’ospedale gli infermieri hanno in mano i resti di una falange con tracce di esplosivo.
A questo punto vengono inviati sul posto dell’esplosione i carabinieri. I resti della radiolina sono pochi e quei pochi vengono raccolti e sottoposti alla valutazione degli esperti, ma anche loro scuotono la testa. Per la prima volta gli artificieri si trovano di fronte a qualcosa che non conoscono: l’innesco, infatti, è troppo piccolo, una cosa da “terroristi irlandesi”, come spiegano agli ufficiali increduli. Per tentare di chiarire la natura dell’ordigno si chiede aiuto a un maresciallo del genio guastatori. Ma i resti dell’ordigno “scompaiono”. Le indagini non portano a nulla.
Poi di nuovo una scuola, dieci anni dopo ma sei anni prima del “compleanno”...