L'eros gastronomico
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L'eros gastronomico

Elogio dell'identitaria cucina tradizionale, contro l'anonima cucina creativa

  1. 208 pagine
  2. Italian
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L'eros gastronomico

Elogio dell'identitaria cucina tradizionale, contro l'anonima cucina creativa

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«A tavola si vive un processo di civiltà che è cultura ed è stato così a partire dal Simposio di Platone e dall'Ultima cena in poi. Fin dalle società primitive la manipolazione degli alimenti non risponde solo al bisogno nutrizionale, ma si colloca in un cosmo intellettuale e fantastico ove si incontrano uomini e dèi, sacro e profano, morti e viventi, caricando il cibo di valori che trascendono la sua natura materiale.»

«Se chiedo il bollito non voglio il piatto che richiama concetti di carni bollite, ma un carrello dei bolliti». Tullio Gregory, filosofo, ma anche grande gourmet, tuona così contro la cucina creativa in nome della grande tradizione gastronomica italiana, di cui resta poca traccia nella cultura d'oggi. Si deve, al contrario, ritrovare il senso di una civiltà della cucina, perchéa tavola – come diceva lui – c'è «davvero quella verità intera, piacevole, morbida e profumata che possiamo non solo contemplare ma anche gustare».Attraverso racconti su alcuni alimenti e consigli di lettura, decaloghi del perfetto gastronomo e indicazioni di cottura, questo libro traccia il percorso della 'civiltà del gusto' e del piacere della tavola. Solo in questo modo sarà possibile riconquistare il patrimonio di tradizioni enogastronomiche che è parte integrante della nostra storia e recuperare la gioia del convito, momento fondamentale del vivere civile.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858144749

Il gusto di stare a tavola
e i godimenti del cibo

Ma a tavola si scopre il piacere della durata

Quando nel maggio del 1593 Clemente VIII ricevette in Castel Sant’Angelo Massimiliano di Baviera con i suoi fratelli, «del continuo singolarmente amati, accarezzati», fece apprestare un banchetto del quale ci dà ampia notizia Vincenzo Cervio. L’apparecchio della tavola, la successione dei servizi, di credenza e di cucina, esaltano la sua penna:
vaghissima cosa era a vedere sopra la tavola quattro pavoni bianchi come neve, i quali erano stati arrostiti e poi ricoperti con la propria lor spoglia tanto gentilmente che parivano si movessero. Allato a’ pavoni vi erano quattro fagiani, cotti e rivestiti et ornati come i pavoni, et avevano di più le penne tutte tempestate di tremolanti d’oro e profumi nel becco, che uscivano d’un boschetto mistico bellissimo fatto. Nel mezzo della tavola vi erano tre leoni di pasta reale scacati d’oro, alti tre palmi, drizzati in piede, che sostenevano con le zampe d’innanzi una corona imperiale.
Il succedersi dei servizi è un’orgia di raffinatezza e di gusto: pavoni bianchi rivestiti e ornati di perle, coralli e fettucce d’oro e argento; «fagiani rivestiti al simile», «leoni fatti de’ lepri in pasticci grandi. Aquile grandi integre tutte di pasta con la corona in testa». Altre decine di piatti completavano il primo servizio di credenza: frittate, pappardelle, pizze, capponi, salami, formaggi freschi. Seguivano quattro servizi di cucina: nel primo si passava dai «testicoli di agnello grossi arostiti allo spiedo» alle salsicce di fagiano, dai crostini fatti di rognonata di mongana agli ortolani arrosto; il secondo servizio presentava dalle «galline d’India allessate, coperte di fettoline di salame e fiori sopra», alle teste di mongana disossate e ripiene; dalle porchette allo spiedo alle torte di piselli e carciofi; per il terzo servizio, ancora tacchini, capponi allessati, «caprioletti pelati cotti in forno», lombo di capriolo «in brodo lardiero», cosciotti di cinghialotti; per il quarto e ultimo servizio di cucina, sempre di carne, salmì di cacciagione, capponi grassi arrosto, «maccaroni fatti di mollica di pan papalino, cotti in latte. Ravioli verdi senza sfoglia fatti da moniche, code di castrato, tortiglioni ripieni di formaggio e prosciutto alla tedesca». Seguiva un servizio di pesce, dalle trote grosse marinate agli storioni interi, dai calamaretti ripieni alle ostriche aperte con olio e pepe, quindi «pezzi grossi d’ombrina alardati de sommata grassa», per poi passare alla frutta e ai dolci: con «pere papali», «biscotti reali», «torte aggiacciate di tutto cedro fatte da moniche», non senza l’alternanza di erbe, verdure odorose e formaggi fra cui trionfano «ovi di bufale» e «cascio parmigiano in bocconi». «Dopo aver udito più sorte de’ musiche se viddero salti con altri bellissimi trattenimenti de’ fuochi artificiosi mirabili et altri giuochi ridiculosi»: erano le ore 23, e il banchetto era iniziato nel tardo pomeriggio.
Questo testo ben potrebbe costituire la prefazione del fastoso libro di Decio G.R. Carugati, dedicato al Trionfo del banchetto. Carni imbandite nel mito e nella storia. Il ricchissimo apparato illustrativo serve egregiamente a dare tutte le possibili tipologie, e le mode, delle raffigurazioni di banchetti e di carni dall’antico Egitto a oggi; accompagna l’itinerario illustrativo un testo di agile scrittura ove si intrecciano, sul filo dei documenti e della memoria, testi antichi e moderni, montati a mosaico in un racconto affascinante, evocatore di una civiltà perduta, la civiltà della tavola laddove si realizza, annotava Brillat-Savarin, un piacere esclusivo della specie umana:
Il piacere della tavola non comporta rapimenti, né estasi, né trasporti; ma guadagna in durata ciò che perde in intensità e si distingue soprattutto per il particolare previlegio del rapporto con gli altri. In realtà alla fine di un pasto ben strutturato il corpo e fiamma gioiscono di un benessere particolare. Nel fisico, mentre il cervello si rinfresca, la fisionomia si distende, il colorito aumenta, gli occhi brillano, un dolce calore si spande in tutte le membra. Nel morale lo spirito diviene più acuto, l’immaginazione si riscalda, nascono e circolano discorsi piacevoli. D’altra parte si trovano spesso raccolte intorno alla stessa tavola tutte le forme che l’estrema socialità ha introdotto tra noi: l’amore, l’amicizia, gli affari, le riflessioni, la potenza, l’ambizione, l’intrigo; ecco perché il convito tocca tutto, ecco perché produce frutti di tutti i sapori.
Se l’età moderna ha laicizzato questa sorta di piacere, di cui solo gli uomini possono godere, nel mondo antico i primi a partecipare al banchetto degli uomini erano gli dèi, cui i celebranti riservavano le parti migliori: il pranzo si apriva con l’offerta sacrificale, nel mondo cristiano con la preghiera e il rendimento di grazia. Non a caso Zeus, «mangiatore di tori», non ammette di essere giocato nelle porzioni: come ricorda Carugati, Prometeo, abbattuti due tori, bruciato il loro fegato, avvolge nella pelle di uno le sole ossa, nell’altro tutte le carni da mangiare, e lascia Zeus arbitro di scegliere; questi, ingolosito dalla voluminosità dell’otre che contiene le ossa, lo prende per sé e cade nell’inganno di Prometeo che ha così garantito le carni agli uomini. Zeus allora toglierà agli uomini il fuoco perché non cuociano il cibo e Prometeo sconterà la sua pena incatenato alla roccia, dove un’aquila gli divora il fegato, squarciandogli il petto.
Non sfuggono al festino di parole imbandito da Carugati i momenti più saporosi della cucina povera, anch’essa legata a momenti rituali, come l’uso della trippa, la busecca nella tradizione lombarda, cucinata la notte di Natale quando i contadini si ritrovano nella stalla dopo la messa di mezzanotte: «in un presepe vivente» i contadini salutano la festività natalizia con la zuppa calda di trippe. Peraltro le trippe hanno avuto nelle pagine di Rabelais la celebrazione più esaltante.
Amplissima nel volume anche la tipologia degli insaccati che spesso riuscivano a utilizzare le parti più povere, destinati quindi al popolo. Ma ben apprezzati da buongustai se, giocando sulle parole, Rossini scriveva ad Aguardo, suo amico banchiere: «Le ho appena inviato un grande spartito fresco e appetitoso: le salsicce di Bologna e di mio pugno alcune annotazioni per le modalità della cucina», e ad altro suo amico: «I salami, gli zamponi, i cotechini, solo a dirli suggeriscono ilarità, l’imbandimento semiserio se non del tutto buffo». Dell’opera buffa Rossini ben si intendeva, così come della grande cucina.
[«Il Sole 24 Ore», 30 marzo 1997, su Decio G.R. Carugati, Trionfo del banchetto. Carni imbandite nel mito e nella storia, Silvana Editoriale, Milano 1997]

I bei godimenti che dà il palato

Per il bicentenario della nascita di Giacomo Casanova, l’Editore Mondadori pubblica un volume di facile lettura condotto sul filo delle Memorie della mia vita e di altri documenti coevi, scritto da Hippolyte Romain con spigliatezza, tra storia e mito; insiste – non poteva essere diversamente puntando a un largo pubblico – sulla figura di Casanova seduttore, quale del resto egli stesso amava presentarsi. Forse il titolo promette qualcosa di diverso: infatti A tavola con Casanova ci troviamo raramente, anche se l’autore trasceglie dalle Memorie qualche episodio particolarmente piccante; come quando Casanova fa preparare – per una bella religiosa del convento di Santa Maria degli Angeli di Murano – una cena di «solo otto portate, senza limiti di spesa» annaffiata di champagne e vino di Borgogna; «il servizio era in porcellana di Sassonia; la cacciagione, lo storione, i tartufi, le ostriche e i vini, tutto era perfetto». Dei frequenti incontri amorosi, era auspice, partecipe, a volte spettatore, attraverso un complesso gioco di specchi, Pierre de Bernis, ambasciatore di Francia a Venezia, protettore e amante della bella monaca, più tardi segretario di Stato in Francia e cardinale. Forse per quei giochi trasgressivi – certo anche per l’accusa di magia che pendeva sul suo capo (fra i libri che gli furono sequestrati v’era anche un manoscritto, probabilmente un estratto, di Picatrix) – Casanova, partito l’ambasciatore, sarà imprigionato ai Piombi da dove fuggirà, come è noto, con rocambolesca avventura.
Altra volta assistiamo al «gioco delle ostriche», passate di bocca in bocca, facendo attenzione che non si perdesse l’acqua di mare contenuta nelle valve: gioco che Casanova pratica con due belle fanciulle romane di un educandato presso Porta San Paolo, Armellina ed Emilia, alle quali insegna come gustare le ostriche (cento per la precisione, cinquanta per antipasto e altrettante dopo il dessert): «Mi ingegnai a mostrar loro come dovevano fare per trattenere l’ostrica in bocca con tutto il suo liquido e dovetti dare io l’esempio e così insegnai loro a introdurre da sole l’ostrica con tutto il sughetto nella bocca della persona di turno, infilandovi contemporaneamente la lingua in tutta la sua estensione». Di quello che successe quando un’ostrica cadde nel corsetto di una delle due fanciulle, e delle acrobazie di Casanova per catturarla con la lingua, le Memorie danno una minuta descrizione che lascio immaginare.
Sempre a caccia di inviti e di incontri forieri di nuove avventure, Casanova ha il suo occhio attento alla tavola e ai commensali: così nella villa estiva dell’elettore di Baviera, copia del Trianon, Casanova ricorda: «Ho visto le posate di Vermeil, i piatti di porcellana, una gran quantità di vasellame d’argento e dei grandi piatti di Vermeil. Le ostriche d’Inghilterra finirono solo alla ventesima bottiglia di champagne. Il pranzo vero e proprio, quindi, cominciò quando i convitati erano già brilli [...]. Le donne erano affascinanti e libertine, la cena un guazzabuglio di roba da mangiare; va detto che tutti i piatti erano freddi e i dessert sontuosi»; viaggiando in Russia, scrive Casanova, «trovai che le donne erano più belle a Mosca che a Pietroburgo [...] per quanto riguarda i cibi, trovai che a Mosca si mangia abbondantemente, ma senza raffinatezza».
Poco il libro ci dice dei «menù della seduzione» di Casanova, pur insistendo sulla centralità – secondo uno stereotipo corrente – delle ostriche, dei tartufi e dello champagne (tre parole che hanno la più alta frequenza nel lessico gastronomico delle Memorie) e sulla cura con cui Casanova costruiva i menù secondo la tipologia delle invitate: la scelta delle vivande dipendeva – ricorda Romain – dal colore dei capelli e dalla carnagione della donna desiderata.
Di regola, non si possono offrire le stesse pietanze a una brunetta vivace, a una dolce bionda o ancor meno a una rossa dalle forme rotonde [...]. Una bionda graziosa tende a preferire i cibi dolci, morbidi e cremosi, i frutti di mare, il pesce al burro, il pollame, le verdure di stagione, formaggi non troppo forti, i dolci fondenti [...]. Le brune, più vivaci e provocanti, amano i sapori forti degli insaccati al pepe, delle ostriche al limone, dei pasticci, della carne rossa, gli arrosti, la selvaggina al sugo [...]. Quanto alle rosse, la pelle sensibile le spinge a optare per alimenti ricercati e leggeri ma il temperamento le obbliga al fuoco [...] saranno molto attente alla presentazione delle vivande e a una loro certa consistenza.
Una seconda parte del libro presenta varie ricette (alcune «sullo stile di Casanova») dovute allo stesso Hippolyte Romain, a David van Laer o tratte dal Cuisinier gascon, classico del Settecento francese, con qualche semplificazione, tutte praticabili. Da sottolineare positivamente – in tanto squallido imperversare di ricette dietetiche e di cure dimagranti – l’uso abbondante di tartufi e di foie gras, la presenza di impegnative salse e di aromi (zenzero, coriandolo, cannella eccetera), del midollo di manzo e dell’osso di prosciutto come ingredienti per varie cotture, nonché l’uso di strumenti ormai dimenticati, ma fondamentali, come il setaccio, e il divieto di usar le posate metalliche per rimescolare l’insalata. Qualche perplessità desta in un lettore italiano l’indistinzione fra ravioli e tortelli, qui differenziati soltanto per le diverse dimensioni. Tutto il libro comunque suona a conferma di un assiomatico asserto del buon Casanova:
ho amato i piatti dal sapore forte: il pasticcio di maccheroni preparato da un bravo cuoco napoletano, il merluzzo di Terranova molto vischioso, la cacciagione con tutti i suoi aromi e i formaggi, soprattutto quelli passati, nei quali i piccoli esseri che li abitano cominciano a diventare visibili. Anche nelle donne ho sempre trovato che quella che amavo aveva un buon odore [...]. Che gusto depravato! Che vergogna ammetterlo senza arrossire! Ma le critiche come queste mi fanno ridere. Grazie ai miei gusti grossolani, ho abbastanza faccia tosta da credermi più felice di chiunque altro, dal momento che mi sono formato la convinzione che i miei gusti mi permettono di provare più piacere.
A proposito del pasticcio di maccheroni napoletano, tanto caro a Casanova, perché ricorrere al Cuisinier gascon? Meglio riferirsi a un classico della cucina italiana meridionale come Il cuoco galante di Vincenzo Corrado, pubblicato a Napoli nel 1...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione di Gianni Moriani
  2. La civiltà del gusto
  3. Dai vincoli religiosi alla libertà gastronomica di Voltaire
  4. Il gusto di stare a tavola e i godimenti del cibo
  5. I cibi della festa
  6. Donne e cibo
  7. Storia della cucina
  8. Dall’insipida cucina televisiva a quella indigesta dello smartphone
  9. Un ricordo di Tullio Gregory di Michele Ciliberto
  10. Opere di Tullio Gregory