1.
Introduzione.
La grande macchina
del negazionismo climatico
Una fotografia della guerra civile americana, esposta nel catalogo digitale della Library of Congress – la libreria del congresso americano – mostra un generale, Ulysses S. Grant, in posa sul suo cavallo davanti alle truppe a City Point, in Virginia. Ad una prima osservazione la fotografia sembra fedele alla realtà ma, guardandola meglio, si nota che la testa di Grant è posizionata ad una strana angolazione rispetto al corpo. Analizzando ulteriormente la fotografia ci sono altri dettagli che non quadrano. Per la maggioranza, però, rimangono occulti all’osservatore medio. Un occhio esperto, invece, noterebbe subito che l’uniforme indossata da Grant non appartiene al periodo nel quale si dovrebbe trovare il generale nella fotografia. Inoltre, sembra che anche il cavallo non sia quello di Grant. All’epoca, il cavallo preferito del generale si chiamava Cincinnati e non aveva il “calzino” di peli bianchi intorno alla caviglia posteriore sinistra come, invece, quello nella fotografia. Il cavallo dell’immagine, tra l’altro, non ha nessuno dei tratti distintivi che caratterizzavano i cavalli di Grant. Dopo alcune ricerche, gli studiosi hanno capito come, in realtà, si trattasse di una manipolazione fotografica; tre diverse fotografie, composte una sull’altra, creavano il risultato finale: la testa di Grant presa da una fotografia del 1864, il corpo del generale maggiore Alexander McDowell McCook seduto sul suo cavallo (preso da un’altra fotografia ancora) e, per lo sfondo, una terza fotografia che rappresenta i prigionieri confederati catturati nella battaglia di Front Royal nel 1862. Photoshop è invenzione recente, ma la sua idea fondante esisteva già. Faking It: Manipulated Photography Before Photoshop, un libro di accompagnamento ad una mostra del Metropolitan Museum of Art di New York (2012-2013), racconta che era stato Levin Corbin Handy, un fotografo di Washington e apprendista del famoso fotografo Mathew Brady, a manipolare le fotografie. Infatti Handy, “per soddisfare la costante richiesta di eroiche immagini della guerra combattuta dai padri e dai nonni della sua clientela di fine secolo, inventò anche nuove immagini al confine tra fatto storico e finzione”1.
In questo caso, infatti, la realtà ha poco a che vedere con l’immagine finale che abbiamo osservato. Sia chiaro, la scelta di manipolare immagini non è sempre da condannare: nella fotografia d’arte, ad esempio, il foto-ritocco può aiutare a creare dei veri e propri capolavori artistici; persino nel fotogiornalismo un certo grado di foto-ritocco o postproduzione, come viene chiamata oggi, è accettabile. Accettabile a patto che il prodotto finito non rappresenti, in alcun modo, una distorsione della realtà. È questo il nodo centrale: la manipolazione di un’immagine è eticamente scorretta, se non potenzialmente dannosa quando non solo offre una rappresentazione falsata della realtà, ma fa passare quella rappresentazione per verità, proprio come nel caso della fotografia del generale. Senza l’abilità di un occhio esperto, quanti avrebbero preso quella fotografia per vera? La manipolazione diventa pericolosa quando è credibile.
Ecco, il negazionismo del cambiamento climatico funziona in modo simile. Solo, non su una singola fotografia ma su scala macroscopica, in deleteria sintonia con interessi economici e politici, ed alimentata da una quantità di denaro significativa quanto quella di qualsiasi altro giro d’affari poco trasparente. Il negazionismo del cambiamento climatico si declina attraverso strategie di inganno, manipolazione e distorsione dei fatti così efficienti da essere riuscito nell’impresa colossale di raggirare il pubblico mondiale e ostacolare qualsiasi tipo di misura concreta a favore della protezione ambientale. Sembra troppo assurdo per essere vero? Non se si considera quanto è alta la posta in gioco per chi fa parte delle lobby negazioniste.
Ma come è nato il negazionismo climatico? La tendenza negazionista è cominciata nel momento in cui il riscaldamento globale è diventato un fatto appurato, confermato da scienziati, ormai più di 30 anni fa. La prima cosa da considerare per capire fino in fondo la portata mondiale del negazionismo climatico è che l’esistenza del cambiamento climatico ha smesso di avere a che fare con l’incertezza scientifica molto tempo fa e al suo posto si sono fatte largo dinamiche politiche, sociali ed economiche che hanno generato terreno fertile al negazionismo. Accettare il cambiamento climatico come un’emergenza planetaria significa riconoscere innanzitutto un cambiamento nelle dinamiche di potere tra l’uomo e la natura, ma significa anche individuare le forze economiche e politiche che si celano dietro al cortocircuito del nostro rapporto con il pianeta. La natura non si è svegliata una mattina decidendo di rivoltarsi contro l’essere umano.
Alla fine degli anni ’80 il climatologo James Hansen, all’epoca a capo del Goddard Institute for Space Studies della NASA, annunciava al Senato americano che “l’effetto serra è stato rilevato e sta cambiando il nostro clima ora”2. Addirittura già nel 1965 fu inviato un rapporto3 al presidente statunitense Lyndon Johnson che prevedeva “cambiamenti climatici misurabili e forse marcati” nei decenni successivi e dove si legge che l’aumento di anidride carbonica (CO2) “quasi sicuramente causerà cambiamenti significativi di temperatura e in altre proprietà della stratosfera”. Ancora prima, dal 1958, lo scienziato Charles David Keeling aveva misurato la concentrazione di CO2 nell’atmosfera documentando la sua “composizione mutevole”4. Questi dati hanno uno status iconico5 nella scienza dei cambiamenti climatici come prova dell’effetto delle attività umane sulla composizione chimica dell’atmosfera globale. Le misurazioni di Keeling hanno anche permesso agli scienziati di separare le emissioni di combustibili fossili da quelle dovute al ciclo naturale annuale della biosfera. Osservazioni successive6 hanno identificato la causa dell’aumento di CO2 esclusivamente nella combustione di combustibili fossili. Sin dal principio, quindi, la scienza del clima è certa che:
1) il cambiamento climatico esiste;
2) il cambiamento climatico è prodotto dall’uomo.
Ma il cambiamento climatico ha poco a che fare con la scienza, se non per questi e altri dati scientifici che ne supportano ampliamente l’esistenza. Con questo ragionamento non intendo affatto sminuire la scienza climatica che, anzi, è stata – ed è – assolutamente fondamentale per comprendere le cause della crisi climatica e formulare possibili risoluzioni, ma piuttosto per sostenere che, una volta appurato come fatto scientifico, il cambiamento climatico e le problematiche legate ad esso prescindono dalla scienza. La crisi climatica ha a che fare esclusivamente con dinamiche di potere politico ed economico e, oltre ad esserne consapevoli, dobbiamo anche comprenderne il perché.
Durante una nostra conversazione all’inizio del 2020, John Cook, scienziato cognitivo e fondatore del sito web skepticalscience.com, che sfata i miti del negazionismo, mi ha detto: “La scienza è necessaria ma insufficiente per affrontare il negazionismo. Da una prospettiva sociologica, [...] è davvero difficile rompere la bolla del negazionismo perché è troppo radicata, quindi ci sono tanti diversi fattori e il solo fatto di spiegare la scienza non risolverà il problema”.
Quando parliamo di cambiamento climatico tendiamo a pensare alle emissioni di CO2 presenti nell’atmosfera, all’innalzamento dei mari, allo scioglimento dei ghiacciai e al veganesimo. In questo senso, il cambiamento climatico è un argomento, per quanto inevitabile, ripetitivo e tecnico. Per capire le dinamiche del cambiamento climatico bisogna studiarne i dati, analizzare i rapporti di causa-effetto, avere dimestichezza con termini come gas a effetto serra o sigle come ppm. Persino con il termine cambiamento climatico stesso.
Nel 2002, Frank Luntz, definito come “il guru del linguaggio per tutto il mondo dei conservatori americani”7 da George Lakoff, un esperto di linguistica cognitiva, convinse8 i repubblicani a non utilizzare più l’espressione “riscaldamento globale” perché aveva “connotazioni catastrofiche”. Bisognava cominciare ad usare invece l’espressione “cambiamento climatico” che “faceva meno paura” ed evocava “una sfida più controllabile e meno emotiva”. Luntz, specializzato nello studio di come il pubblico reagisce alle parole, sosteneva che la parola “clima”, tra l’altro, facesse pensare a qualcosa di piacevole come la neve o le palme.
Si trattava solo dell’arte linguistica di creare una suggestione a scopi politici. La parola clima, in realtà (anche nella sua versione inglese climate, con la quale Luntz avrà avuto a che fare), proviene dal greco “klima” che significa “inclinazione” da cui, poi, “chinarsi”, “rivolgersi verso terra”. Geograficamente, era lo spazio che si estendeva tra i paralleli dall’equatore ai poli e più genericamente indicava la graduale temperatura del globo. Il clima va distinto dal tempo meteorologico, che chiamiamo anche “meteo” e che si riferisce alle condizioni atmosferiche che si verificano localmente per brevi periodi di tempo, minuti, ore o giorni; ad esempio: la pioggia, la neve, le nuvole o i venti. Per clima, invece, s’intende la media regionale o addirittura globale della temperatura, dell’umidità o delle precipitazioni nel corso delle stagioni, degli anni ...